
Una voce femminile augura il buongiorno a Kobane distrutta. Dall’alto la città non sembra più una città ma il suo ricordo. Eppure tra le macerie c’è attività, e la bandiera con al centro la stella rossa su sfondo giallo e bordi verdi si vede sventolare su resti di cemento. La voce di donna ci racconta le ultime dal fronte, che non è altrove ma dentro la città da cui lei stessa, in una stanza male illuminata adibita a studio precario, manda nell’etere musica e notizie. Così si apre Radio Kobanï, documentario di Reber Dosky, presentato all’ultimo Copenhagen International Film Festival. Il regista è un kurdo quarantuduenne originario del nord dell’Iraq, fuggito dalla dittatura di Saddam con la famiglia molti anni fa verso l’Olanda. Come nei suoi film precedenti – Le ragazze Yezidi (2016), Il cecchino di Kobane (2015) e La chiamata (2013) – Dosky continua a seguire le vicende che scuotono la sua gente e il suo paese d’origine, affetto dall’ossessione comune a molti esiliati e rifugiati diventati narratori e registi, i quali non riescono a smettere di tornare nei luoghi che gli furono negati.
La “patria ideale” di Dosky è quel Kurdistan ufficialmente inesistente, il cui territorio, diviso tra gli stati sovrani di Turchia, Siria, Iran e Iraq, riemerge e scompare da decenni smuovendo appena la superficie della storia e solo grazie alle complesse vicende della lotta partigiana e al continuo lavoro culturale dei suoi figli, nel tentativo di non essere cancellato. A tutti i nemici “tradizionali” della causa kurda, oggi si aggiunge l’esercito dei vessilli neri, i tagliatori di teste incubo degli occidentali. Ed è proprio sulla linea dello scontro, nella città simbolo della resistenza e dell’autogoverno difesa da kurdi arrivati da ogni luogo della diaspora, che ci porta Radio Kobanï, e lo fa calandoci nella vita quotidiana di Dilovan Kiko, una ragazza ventunenne kurda che tiene in piedi con l’amica Biter l’unica stazione radio rimasta durante la guerra con lo Stato Islamico.
Kobane si trova nel Kurdistan occidentale, noto come Rojava, posizionata poco più a sud del confine turco e a nord del contestato territorio siriano. A settembre 2014, l’Isis la cinge d’assedio. Dopo mesi di guerriglia, bombardamenti americani di supporto e battaglie strada per strada, nel gennaio 2015 Kobane viene liberata. I media occidentali rimandano in ogni angolo del mondo le immagini delle folle festanti, intente a danzare e sventolare i vessilli delle YPJ e YPG (le milizie femminili e miste di autodifesa kurde). Gli stessi media che avevano mitizzato le donne kurde, salvo poi eludere la risonanza necessaria a veicolare le chiare richieste politiche, economiche e militari che le donne e gli uomini del Rojava inviavano ai governi occidentali prima che questi saldassero l’alleanza con Erdogan.
Tra il 2014 e il 2016, Dosky ha visitato Dilovan e sua madre per tre volte. Era a Kobane con la sua crew durante i combattimenti, e subito dopo, quando le strade lentamente tornavano a popolarsi dei residenti fuggiti. La fotografia del film è scarna e senza fronzoli, precisa, diretta, evocativa. Dilovan è bella e fiera. Energicamente tiene in piedi Radio Kobanï circondata da palazzi distrutti ed echi di bombe. Ospita nei suoi programmi quotidiani un musicista soldato e un giornalista dal fronte. Vuole sapere e far sapere a chi è rimasto a Kobane quanto ancora bisognerà lottare e tiene su il morale con canti di resistenza. Comunica ogni giorno con competenza i dispacci dai combattimenti e va in giro, microfono alla mano, a raccogliere testimonianze. Quando un’autobomba o un missile colpisce nella notte la periferia di Kobane riesce a coordinarsi al telefono con un’amica che si trova nel luogo dell’esplosione per darne in diretta i dettagli. Un giornalismo militante, o propriamente militare, che ci fa capire come in una città in guerra tutti sono chiamati in un modo o nell’altro a partecipare ed è impossibile restarne fuori. Non sappiamo se Dilovan abbia pensato a imbracciare un fucile come tante sue coetanee. Catturiamo in un frammento che il padre e il fratello erano andati a combattere, ma non li vediamo.
Gli sforzi di Dilovan e delle amiche sono il centro del film, ma Dosky ci conduce anche in altre pieghe della vita quotidiana di Kobane. Segue i lavori di rimozione delle macerie, e indugia sui resti contorti di corpi umani estratti a pezzi da ferro e cemento, mentre intorno frotte di ragazzini osservano in silenzio. Immagini devastanti, che per una manciata di minuti ci restituiscono la pena vissuta ogni ora e giorno dai residenti. Ascolta con discrezione da un barbiere la storia sussurrata di un soldato kurdo venuto da lontano per combattere e appena tornato dalla battaglia, un cecchino, incapace di liberarsi dall’immagine dei bambini imbottiti di esplosivo che l’Isis manda a farsi saltare in aria e che lui ha dovuto abbattere prima che facessero strage. Assiste all’interrogatiorio da parte di una comandante kurda di un soldato dell’Isis fatto prigioniero, spaurito e in lacrime, che implora di poter comunicare con la famiglia, perché non credeva fosse un tale inferno, che mugola che la povertà lo ha costretto ad arruolarsi nelle falangi nere.
Le lotte dei kurdi nel territorio di fatto autonomo del Rojava sono al centro della solidarietà di gruppi militanti in tutto l’occidente. Molto si è scritto del sistema di confederalismo democratico, integrato da contenuti femministi ed ecologisti, che i kurdi stanno sperimentando nel luogo in cui forse meno si prospettava una politica emancipatrice e rivoluzionaria. Il film non ci racconta questo, non è un trattato politico. Ma fa vedere che le cose stanno cambiando nel quotidiano. Come la dicotomia tra uomini e donne e gli stereotipi di genere così spesso associati al Medio Oriente, che si sfaldano nell’osservare le donne kurde alla guida di eserciti di uomini. Siamo lontanissimi dalla rappresentazione di sottomissione e bigottismo restituita dai film dell’immenso regista Yilmaz Güney, kurdo di Turchia che tra gli anni Settanta e Ottanta con capolavori quali Umut, Sürü e Yol, aveva raccontato il confronto con la modernità e la tenacità dei costumi medievali dei kurdi in Turchia. Gli omicidi d’onore e altre discriminazioni nei confronti delle donne non sono purtroppo solo un ricordo nei territori kurdi, ma Radio Kobanï ci dice senza sbandierarlo che un corso diverso sta soppiantando inveterate gerarchie.
Dilovan prende un tè con l’amica del cuore e le mostra dal telefonino le foto su Facebook di un ragazzo arabo che le piace. Dopo poco la ritroviamo al funerale dei martiri, prima che ritorni alla radio a far sentire forte la musica della liberazione. È nell’attenzione ai dettagli di normalità in una situazione assurda e brutale che sta la forza del film. La radio ricopre la funzione di sostegno morale agli ascoltatori, non tutto è perduto e torneranno i giorni di pace, è in fondo quello che trasmette. La tensione che si percepisce tra il mondo intimo di Dilovan, le necessità dettate del ruolo che si è scelta e il desiderio fragile degli abitanti di vedere la città come un tempo, racchiudono l’opera nell’elogio sobrio alle azioni minime che resistono alle barbarie. Quando Kobane viene liberata, Rosby è lì a documentare i panettieri e i negozianti che riaprono, le madri nei giardini con i bambini piccoli, i rifugiati che ritornano e l’infinita opera di ricostruzione. Alla fine, vestita di bianco e truccata, Dilovan si sposa con il ragazzo arabo. È quando si ricomincia a sposarsi e a credere di avere un futuro che la guerra la si butta alle spalle. E il bambino ancora non nato a cui Dilovan legge una lettera intrecciata alle immagini, potrà venire alla luce in una città libera. (salvatore de rosa)