
Apruebo! I primi dati ufficiali iniziano a diffondersi a partire dalle nove di sera di domenica 25 ottobre. Il risultato non è inaspettato, ma mentre passano i minuti il distacco è sempre più netto. Con oltre il 78% dei voti e un’affluenza più alta rispetto alle precedenti consultazioni, la popolazione cilena approva entrambi i quesiti referendari. Il primo riguarda la possibilità di scrivere una nuova costituzione che sostituisca quella scritta nel 1980 da personaggi come Jaime Guzmàn, collaboratore e ideologo neoliberale della dittatura militare di Augusto Pinochet. Una costituzione che nel tempo ha mantenuto intatte molte caratteristiche strutturali, nonostante numerose riforme nel corso degli anni della “transizione”, il periodo successivo alla fine del regime militare nel 1988. Il secondo quesito definisce invece le modalità da seguire per scegliere i membri dell’assemblea costituente. L’opzione governativa propone una metà di nuovi eletti e un’altra metà di deputati ancora in carica. La risposta dei cileni e delle cilene dopo mesi di mobilitazioni e proteste è stata però univoca: bisogna dare inizio a un processo costituente per scrivere un nuovo patto sociale e i membri dell’assemblea costituente da eleggere in aprile 2021 saranno interamente scelti dal voto popolare.
A trenta minuti dall’inizio dello spoglio il presidente in carica Sebastiàn Piñera annuncia il risultato presentandolo quasi come una vittoria personale e del governo. Piñera parla di pace, dialogo e collaborazione, sottolineando che il voto è l’inizio di un cammino da compiere insieme, e che sebbene in passato sia stato causa di divisioni, ora deve tendere invece alla comprensione tra le parti sociali. Una frase in particolare ha colpito l’opinione pubblica cilena. «Una costituzione non parte mai da zero, perché rappresenta l’incontro tra le generazioni. Una costituzione deve sempre raccogliere l’eredità delle generazioni che ci hanno preceduto». La frase allude probabilmente alle nuove modalità, particolarmente combattute dalla destra, previste per l’elaborazione della nuova costituzione e approvate dal voto referendario: nessun articolo della costituzione vigente sarà considerato come inamovibile e l’assemblea costituente sarà interamente composta da membri eletti.
Questa vittoria storica è da attribuire alla caparbietà di una mobilitazione popolare esplosa inizialmente a causa dell’aumento del costo della vita, ma che ha saputo rinnovarsi e mettere in discussione l’intero sistema economico e politico emerso durante e dopo la dittatura. No fueron 30 pesos, sino 30 años: non si tratta di trenta pesos (ovvero l’ammontare del rialzo del prezzo della metro che ha innescato l’inizio delle proteste di massa), ma di trent’anni. Una frase che sintetizza il senso delle proteste sorte ovunque, dall’estremo nord all’estremo sud del paese, da Arica a Punta Arenas. Trent’anni in cui il sistema neoliberale si è mantenuto intatto sopravvivendo alla dittatura e raggiungendo indenne l’epoca della democrazia liberale, protetto istituzionalmente proprio dalla costituzione del 1980.
«Vorrei chiedere a tutti i miei compatrioti, al termine di questa giornata elettorale, di tornare pacificamente alle proprie case», conclude Piñera alla fine dei dieci minuti scarsi di conferenza stampa. È un avviso che cade nel vuoto, come il resto del suo discorso. Centinaia di persone sono già in marcia dalle sei del pomeriggio verso plaza Baquedano, meglio conosciuta come plaza Italia e ribattezzata plaza de la Dignidad durante le proteste dell’ultimo anno. Varie squadre di polizia presidiano con i guanacos – i nostri idranti – l’accesso all’area pedonale dove sorge la statua a cavallo del General Baquedano, eroe nazionale della guerra del Pacifico e ora involontario testimone di questi storici sconvolgimenti. In quella piazza esattamente un anno prima, il 25 ottobre 2019, un milione di persone ha dato luogo alla “marcha màs grande de Chile”, che ha imposto al governo di fissare il plebiscito per eleggere un’assemblea costituente. La mobilitazione era iniziata qualche settimana prima. Il 6 ottobre il governo aveva annunciato l’aumento del costo dei trasporti urbani, in particolare rialzava di 30 pesos il prezzo della metro. Gli studenti e le studentesse avevano dato vita a occupazioni delle stazioni ed elusioni collettive del prezzo dei biglietti. Le provocazioni dei politici – il ministro delle infrastrutture ridicolizzò la protesta invitando “i romantici” a comprare fiori visto il ribasso dei prezzi – e la violenza della polizia avevano scatenato presto la risposta popolare. «La rabbia repressa da tanti anni, a un certo punto si è manifestata. E ciò penso sia stato dovuto anche alla situazione che hanno dovuto vivere gli studenti. Hanno aggredito i nostri ragazzi e le nostre ragazze e a un certo punto è come se avessero detto “ora basta”», affermava Doris Gonzalez, portavoce e attivista del movimento anticapitalista per la casa Ukamau, intervistata da Roberto Bruna nel documentario Dignidad.
Durante i mesi di mobilitazione la contestazione si è concentrata sulla privatizzazione di servizi essenziali come l’acqua, la salute, l’educazione o il sistema pensionistico. Per fare un esempio, quest’ultimo è gestito dalle AFP, Administradoras de Fondos de Pensiones. Ogni persona che abbia un contratto di lavoro, tranne gli agenti di polizia e i militari, deve versare il 10% del proprio salario nelle casse di questi fondi privati che sono liberi di reinvestire i capitali così ottenuti – pari al 75% del Prodotto interno lordo cileno, circa duecento miliardi di dollari – come preferiscono, lasciandoli in mano alle variazioni del mercato. Nelle manifestazioni si sono incontrate le rivendicazioni dei settori più svantaggiati o discriminati della società che da anni lottavano per un cambiamento del sistema. Le bandiere mapuche si confondevano con i pañuelos verdi del movimento femminista, la denuncia delle discriminazioni ai danni di lavoratori e lavoratrici migranti provenienti da altri paesi dell’America Latina si sommavano ai cori dei pobladores che chiedevano una casa e una città vivibile e sostenibile.
La protesta ha assunto diverse forme, spontanee e incontrollabili. Il 19 ottobre il governo ha reagito decretando lo stato d’emergenza e il coprifuoco a Santiago e a Val Paraiso, estendendolo poi ad altre città del paese. Piñera ha dichiarato in un famoso discorso riferito agli incendi e ai saccheggi dei supermercati: «Siamo in guerra contro un nemico potente, implacabile, che non rispetta niente e nessuno, che è disposto a usare la violenza e la delinquenza senza nessun limite incluso quando porta alla perdita di vite umane». I militari nelle strade chiamati a tutelare la sicurezza pubblica hanno intanto sparato. Si sono contati 34 morti tra i manifestanti e 406 persone con gravi ferite agli occhi, oltre a migliaia di arrestati e detenuti.
Intanto, il General Baquedano, sempre in sella al suo cavallo di bronzo, continua a osservare scandalizzato quelle persone che si incontrano, passano, festeggiano il risultato del plebiscito lanciando fuochi artificiali. Li osserva dall’alto della sua posizione al centro di quella piazza che ormai ha perso il suo nome e che si trova stretta tra ciò che resta del fiume Mapocho e la Alameda, il grande corso che attraversa la città. Tra il rumore continuo del cacerolazo e le musiche di Victor Jara, si sentono risuonare nell’aria alcune frasi dell’ultimo discorso alla radio di Salvador Allende, il quale si augurava che proprio quell’Alameda, un giorno non lontano, potesse essere nuovamente percorsa da persone libere, in marcia per costruire una società migliore. (giovanni d’ambrosio)