
Il Cep di Palermo è un quartiere nato sul finire degli anni Cinquanta, quando il volto della città cambiò radicalmente sull’onda di un’urbanizzazione feroce in direzione nord, possibile grazie a una forte collusione tra mafia e politica. Il quartiere, costituito per lo più da case popolari, cominciò a essere abitato a partire dagli anni Sessanta. Le abitazioni furono in parte assegnate, in parte occupate, in un momento di forte crisi abitativa della popolazione del centro storico a causa dei bombardamenti della guerra e poi del terremoto del ’68, situazione aggravata dal completo disinteresse dell’amministrazione comunale di allora.
La mia conoscenza del quartiere è cominciata quando le maestre dell’istituto comprensivo Saldino, unica vera istituzione dell’area, hanno chiesto a me e ai miei colleghi di incontrarci: volevano che organizzassimo dei laboratori di “street art” per gli alunni. Da lì abbiamo poi conosciuto l’associazione San Giovanni Apostolo che supporta la scuola con attività di doposcuola. La sua presidente ci ha presto parlato del vecchio campo da calcio, una vasta area situata nel cuore del Cep, comprendente un campo di bocce in abbandono e una villetta.
Desiderio dell’associazione era quello di tornare a usare il campo da calcio, lo sport favorito del quartiere che ha sempre ospitato club sportivi e ha dato i natali a Totò Schillaci. A dire il vero, se c’è una ragione per cui il Cep è conosciuto dai palermitani, è proprio questa. Ancora brillano di entusiasmo gli occhi di chi racconta le notti magiche di Italia ’90, eccetto quelli delle persone del Cep. Per loro la storia di Totò costituisce una ferita, una possibilità di riscatto per il quartiere mai realizzata, dal momento che la vita del calciatore è stata attraversata da grandi alti e bassi e la sua scuola calcio è stata aperta in un’altra zona della città.
Di ferite come queste ne abbiamo trovate durante l’anno trascorso nell’intento, condiviso con l’associazione San Giovanni Apostolo, di restituire agli abitanti lo spazio del campo da calcio: lo stigma che i vecchi occupanti si portano dietro nonostante l’avvenuta regolarizzazione, il senso di spiazzamento vissuto da coloro che da bambini, abituati a giocare nei cortili o tra le viuzze del centro, dovettero trasferirsi nel nuovo quartiere fatto di palazzi anonimi, senza elettricità e acqua, il senso di fatica di chi nel tempo ha provato a opporsi all’abbandono, le divisioni interne tra una presunta parte “buona” del quartiere stretta intorno alle attività di scuola e associazione e quella “cattiva” del piccolo spaccio, della vendita abusiva di edifici occupati, dei vandali. Infine le storie di cronaca nera narrate dai giornali ed entrate nella memoria collettiva.

Come riuscire a trasformare l’area del vecchio campo da calcio in uno spazio accessibile a tutti in un quartiere così diviso? Questa domanda è tornata nei confronti con scuola e associazione, insieme ai quali abbiamo trovato un finanziamento per portare avanti questo proposito. A ottobre 2019 il campo da bocce in disuso, allestito con un lungo filo di luci che risolveva il problema dell’assenza di illuminazione nell’area, è diventato la pista da ballo della prima grigliata con gli abitanti. Questo stesso campo è stato punto di incontro e di condivisione dei ricordi del quartiere quando con Andrea&Magda abbiamo deciso di allestire per tutto il mese di gennaio, una volta a settimana, un gazebo con poltrone e caffè caldo da offrire a chiunque volesse raccontarci la sua storia o mostrarci foto personali scattate al Cep. In questo modo, a partire dai vissuti di ciascuno, siamo riusciti a ricostruire la storia collettiva del quartiere: l’esodo dal centro storico, il trauma del terremoto, le occupazioni, gli sgomberi, la lotta per vedere riconosciuto il proprio diritto alla casa, il supporto dato dall’Unione degli assegnatari, la firma del contratto di proprietà negli anni Settanta, la lotta per ottenere acqua e luce, le pratiche di buon vicinato come la produzione e distribuzione della salsa ereditata dalla vocazione contadina dell’area, i giochi che i bambini facevano per strada, i bagni nella gebbia sulla collina, le grigliate di quartiere, le feste religiose, l’entusiasmo di Italia ’90.

A questa narrazione corale, assente nella narrazione ufficiale della storia cittadina, abbiamo cercato di dare visibilità attraverso la realizzazione di un album cartaceo, contenente immagini, testimonianze e alcune messe in scena fotografiche appositamente realizzate da Andrea&Magda per quelle storie che non avevano immagini. L’album è stato commentato e modificato più volte dagli abitanti stessi nell’arco delle diverse presentazioni del documento fatte in occasione di diversi eventi pubblici organizzati sul campo.
La raccolta delle storie di vita è andata avanti di pari passo con la raccolta di proposte per la restituzione del campo al quartiere, cui si è cercato di dare corpo nel laboratorio finale del progetto, quello di autocostruzione. Abbiamo piantato dei pali sul vecchio campo da calcio per creare le porte, abbiamo realizzato delle sedute per i tifosi, sul campo da bocce abbiamo piantato quattro pali agli angoli per reggere le luci necessarie a svolgere eventi notturni o successivamente creare una copertura, e poi abbiamo piantato degli alberi per creare l’ombra necessaria a vivere lo spazio anche d’estate. Tutto questo è stato fatto muovendoci lungo un confine ambiguo tra legale e illegale dal momento che, nonostante avessimo un’autorizzazione del Comune all’uso dell’area per le finalità del progetto, risalire al proprietario del terreno è stata operazione piuttosto complessa. Al momento è infatti in atto una trattativa per la cessione dei beni dello Iacp al comune di Palermo che dura da lungo tempo e rende per lo più impossibile interventi di alcun tipo sugli spazi in questione. Si aggiunga l’assenza di un regolare servizio di smaltimento dei rifiuti e degli ingombranti, nonostante le diverse richieste di intervento in prossimità degli eventi pubblici; la collaborazione complicata con la scuola, sopraffatta dalla necessità di gestire le emergenze interne, e con il consiglio di circoscrizione sfiduciato e incapace di cogliere l’opportunità di un tale progetto; la necessità di dovere attivare contatti informali per orientarsi nella matassa delle autorizzazioni e delle richieste di servizi che dovrebbero essere routinari e garantiti per legge. Nel frattempo abbiamo stretto legami con le persone del posto, conosciuto le loro storie da vicino e costruito rapporti.

A complicare il tutto è poi subentrata l’emergenza sanitaria, che ha imposto l’interruzione delle attività e dunque anche delle relazioni faticosamente costruite nel tempo, in un quartiere dove la prossimità costituisce la leva fondamentale per rispondere a bisogni altrimenti insoddisfatti, come l’esperienza, l’osservazione e la ricostruzione della storia del luogo ci hanno dimostrato.
Durante i tre mesi di lockdown, nonostante il nostro finanziatore avesse ordinato la sospensione del progetto, abbiamo provato a far sentire comunque la nostra presenza e a dare il nostro contributo. Ma la distanza fisica ha decretato l’impossibilità di dare qualsiasi supporto, l’associazione locale si è ritrovata a dovere fronteggiare con i pochi mezzi a disposizione una situazione di grave emergenza e così anche la sola comunicazione con essa è diventata estremamente difficile.
Gli sforzi fatti per portare il quartiere all’interno del dibattito pubblico cittadino e dargli visibilità ci sono sembrati improvvisamente vani, in un momento in cui questa operazione ci sembrava ancora più necessaria. Ci siamo interrogati su come portare avanti il nostro intento e, visto il dilagare sui media di dati, curve e grafici, abbiamo pensato di ricorrere a questi strumenti per raccontare cosa stesse accadendo non solo al Cep ma anche in altre aree della città che stavano vivendo una situazione analoga e dove gli aiuti si stavano mobilitando grazie all’organizzazione spontanea di gruppi informali, associazioni ed altre realtà sul territorio. Abbiamo cercato di raccogliere e dare visibilità alle informazioni che avevamo a disposizione, chiedendo a scuola e associazione locale, e coinvolgendo laddove possibile anche le realtà operanti allo Zen, a Ballarò, alla Kalsa e nel centro storico in generale. Durante l’emergenza l’associazione San Giovanni Apostolo è riuscita a dare supporto grazie a fondi e donazioni a circa trecento famiglie, sia distribuendo aiuti alimentari che dando supporto nella compilazione delle domande di sostegno gestite dal comune di Palermo (al 3/5/2020 delle 48 mila domande pervenute 21 mila sono state escluse per mancanza dei requisiti). A scuola l’avvio della didattica a distanza ha fatto raddoppiare (se non triplicare) il numero degli alunni in dispersione e degli studenti rimanenti non tutti sono riusciti a partecipare per assenza di connessione o dispositivi elettronici, soprattutto nelle secondarie di primo grado.
Terminato il lockdown il finanziatore del progetto ha dato il via libera alle attività, ovviamente fatta salva la condizione di rispettare tutte le misure di contenimento. Nel riavviare le attività i primi a cui ci siamo rivolti sono stati i partner di progetto. Ma laddove il rapporto di collaborazione era già traballante prima del lockdown, dopo è diventato ancora più fragile. I tentativi di collaborare con la scuola per il coinvolgimento di alunni e famiglie alle iniziative organizzate, in un momento in cui sentivamo che l’attenzione faticosamente portata sul campo era andata persa, sono stati per lo più inutili.
Il legame di fiducia stabilito con l’associazione San Giovanni Apostolo e alcuni abitanti ha invece aiutato a ripensare insieme possibili soluzioni per riprendere e continuare le attività, ma soprattutto riportare le persone a vivere lo spazio in questione. Trovare il modo di applicare le misure di contenimento del virus nei momenti pubblici di incontro e condivisione non è stato semplice. L’esito principale è stata la necessità di configurare lo spazio secondo traiettorie di attraversamento e fruizione rigide e strutturate, aspetti in contrasto con i propositi di coinvolgimento e scambio che ci eravamo dati.
Nonostante il lungo rimuginare, siamo infine riusciti a riprendere le attività terminando gli interventi previsti e organizzando l’evento finale, seppure costretti a limitarne l’accesso a un numero massimo di partecipanti.

L’evento di inaugurazione del campo è stato preceduto da un’assemblea di quartiere in cui siamo riusciti a coinvolgere i vertici dello Iacp, il dirigente della scuola, i consiglieri di circoscrizione, i rappresentanti di altre associazioni esterne al quartiere, qualche cittadino e residente al fine di provare a elaborare una visione comune per la riattivazione del campo e delle linee guida espressione di una condivisione di intenti piuttosto che di volontà individuali di volta in volta sovrapposte. Le proposte emerse sono state inserite in un report pubblicato online e diffuso su media diversi. Tra queste l’intento dello Iacp di trovare una forma di gestione eccezionale per il campo in grado di permetterne la cura da parte delle associazioni locali. Dopo l’assemblea una delle copie dell’album di quartiere, ormai nella sua forma definitiva, è stata consegnata all’associazione San Giovanni Apostolo con l’intento di permetterne a tutti la consultazione. Lo stesso è stato fatto con l’Istituto Gramsci Siciliano, situato nel quartiere Zisa, da cui molti degli attuali abitanti del Cep provengono. Il tutto si sarebbe dovuto concludere con una grigliata seguita da una festa come quella organizzata all’inizio del progetto, ma per rispetto delle norme di sicurezza la grigliata è stata sostituita con la distribuzione di cartocci monoporzione e la musica è stata tenuta a un volume di sottofondo.
Consapevoli che la riattivazione di uno spazio pubblico non si esaurisce con la realizzazione di un unico progetto, soprattutto alla luce degli incidenti di percorso avvenuti, chiudiamo questa prima esperienza al Cep con più interrogativi che risposte. Quali sono i prossimi passi da intraprendere per dare seguito al lavoro svolto fin qui? Nel fare delle ipotesi non è possibile non considerare il senso di fatica che ci portiamo dietro dopo questa esperienza, fatica che gli operatori dell’associazione e alcuni degli abitanti conoscono da tempo, legata alla consapevolezza che se non si stabiliscono delle reti di collaborazione solide tra soggetti di tipo diverso e in primo luogo preposti al governo dell’intera città, difficilmente si potranno vedere nel medio o lungo termine delle trasformazioni concrete. (luisa tuttolomondo)