
Sono in partenza verso Napoli gli ultimi chili di arance di Rosarno della stagione, già stipati al momento del mio arrivo nel magazzino di Mani e Terra, la cooperativa nata nel 2015 dal lavoro di Sos Rosarno nella piana di Gioia Tauro. La stagione è prossima a finire, ci sono ancora i kiwi e il lavoro nella ristorazione a Palmi, Nicotera, Tropea, una filiera che però esclude tanti tra gli “irregolari” che la sera tornano a dormire nei campi container o nelle baracche a Rosarno e San Ferdinando. Agli agrumi si ricomincerà a lavorare il prossimo autunno, con lo sforzo – che faranno solo in pochi, tra i produttori – di mantenere prezzi uguali all’anno precedente, nonostante gli aumenti di cartone, benzina e tutto il resto. Per quanto riguarda i braccianti, per lo più africani, chi ha avuto lo scorso autunno o inverno un contratto da stagionale, tirerà avanti durante l’estate con i sussidi per la disoccupazione; gli altri si arrangeranno. Mesi fa Issah mi aveva spiegato che un bracciante straniero manda alla sua famiglia, nel suo paese, anche più di due terzi di quello che guadagna nei campi, in condizioni di sfruttamento e di pericolo totale.
Torno alla piana di Gioia Tauro quasi un anno dopo l’ultima volta, quando ho attraversato quella manciata di chilometri incontrando persone e provando a capirci qualcosa, finendo per ricominciare dal punto di partenza, ovvero dalla necessità – scrivevo nell’articolo pubblicato in questo numero de Lo stato delle città – “di mettere in discussione la categoria stessa di accoglienza, alimentata da circuiti politico-economici che viziano i percorsi di autodeterminazione e la creazione di relazioni e comunità, attraverso progettualità pianificate altrove e finanziate dall’alto”.
Tra i braccianti dei campi amministrati manu militari dalle istituzioni, e nelle baraccopoli informali a loro adiacenti, a Rosarno e San Ferdinando, avevo incontrato migranti con i documenti e senza, richiedenti asilo e persino persone che già “godevano” (bisognerà, prima o poi, scrivere sui paradossi e sui danni generati dall’accettazione da parte di noi tutti dei gerghi tecno-burocratici) dello status di rifugiato. In molti hanno sperimentato sulla propria pelle, durante i loro soggiorni nei territori agricoli del sud Italia, la stretta relazione tra l’idea dominante di accoglienza – qui il gergo coincide con la pratica di governo, in quel contenitore che tutto ingoia e giustifica, dagli hotspot fino alle tendopoli, passando per i Centri di accoglienza straordinaria – e le abominevoli condizioni di lavoro, in termini di paga, diritti e sicurezza nelle campagne campane, pugliesi, calabre e siciliane.
Una sindacalizzazione, o la sperimentazione di processi collettivi di rivendicazione è, allo stato attuale, poco meno che un’utopia: il lavoratore straniero che lavora nei campi non ha, nella stragrande maggioranza dei casi, altro obiettivo che tornare al proprio paese il prima possibile; il sindacato, dal canto suo, se si fa eccezione per un paio di realtà di lotta, non ha interesse a scoperchiare una pentola a pressione che potrebbe avere la forza di mettere in discussione l’intero sistema. E così l’intero sistema si riproduce all’infinito.
L’INCENERITORE A GIOIA TAURO
Arrivo in Calabria nel pieno di giornate “calde”, mentre si organizza un’altra lotta. È passato un mese da quando il governatore Roberto Occhiuto è tornato a parlare – dopo i proclami della campagna elettorale – del raddoppio dell’inceneritore nei pressi di Gioia Tauro (contrada Cicerna, a soli cinque chilometri dai centri abitati di Rosarno, Gioia e San Ferdinando e a poche centinaia di metri dalle contrade Bosco di Rosarno e Sovereto di Gioia Tauro, abitate da quasi cinquemila persone), sottoponendo un documento ai sindaci della provincia in cui si parlava di un “impianto più performante” e si annunciava l’apertura di un bando di gara. Il nuovo piano regionale di fatto posticipa investimenti su differenziata e ciclo virtuoso dei rifiuti (in un’equazione che identifica qualsiasi “processo a lungo termine” con qualcosa di vago e utopistico, in opposizione al quale vengono alimentate ad arte “urgenze” ed “emergenze”), puntando invece sull’incremento dei processi di incenerimento attraverso il passaggio da due a quattro linee dell’impianto, il che potrebbe significare addirittura l’importazione di rifiuti da altre regioni. La linea della Regione Calabria da questo punto di vista è molto chiara: l’inceneritore di Gioia Tauro è obsoleto e inquinante, quindi piuttosto che chiuderlo vanno attivate due linee “più moderne”. Allo stato attuale le due linee attive dovrebbero bruciare 120 mila tonnellate di rifiuti l’anno (ma non funzionano a pieno regime), mentre con l’attivazione delle altre due (già esistenti) le tonnellate salirebbero a quota 270 mila.
La lotta contro l’inceneritore non è una novità per la popolazione locale, ma un ricorso storico che rimanda alla fine degli anni Novanta, quando il medico e attivista Luigi Ioculano fu ucciso nel mezzo della campagna contro la costruzione dell’impianto, e dopo aver denunciato gli interessi e i legami, su questa faccenda, tra ‘ndrangheta e politica (il boss e il sicario condannati in primo grado per il suo omicidio sono poi stati assolti con sentenza definitiva). Oggi, per contrastare le spinte all’incenerimento, i movimenti si sono costituiti in un coordinamento che ha cominciato a incalzare (finora senza troppo successo) i sindaci dei paesi circostanti e ha organizzato una grossa iniziativa chiamando a raccolta la cittadinanza, gli attivisti ed esperti come Rossano Ercolini, presidente di Zero Waste Europe. Dall’incontro del 17 giugno scorso, a cui hanno partecipato più di duecento persone, è emersa l’intenzione di rivendicare l’utilizzo del protocollo internazionale Rifiuti Zero, a cui hanno aderito oltre trecento amministrazioni comunali in Italia e all’estero, come modello per contrastare l’ampliamento dell’impianto e proporre una soluzione eco-compatibile, capace di produrre un’economia virtuosa attraverso piccole aziende e start-up che lavorino nel campo del riuso e del riciclo. Il coordinamento chiede che venga convocato “un tavolo tecnico operativo e un’unità di crisi permanente per lavorare al progetto e occuparsi di gestire la fase transitoria ed eventualmente emergenziale, in vista della stagione estiva”.
LA RELIGIONE DEL CAMPO
L’inceneritore di contrada Cicerna si trova a pochi chilometri dai due nuovi campi container che stanno per nascere nella Piana. Il primo campo si trova sul territorio del comune di Taurianova, amministrazione che ha fallito negli ultimi anni tutti i processi di inclusione socio-abitativa avviati, consegnando, in un anno di lavoro, un solo appartamento a due migranti. Nel 2020 il Comune e il consorzio Macramè avevano promosso una manifestazione di interesse “per il reperimento di immobili residenziali destinati alla locazione di cittadini immigrati regolari in condizioni di disagio abitativo”. Nel bando, però, vi erano una serie di condizioni che lo rendevano di fatto inavvicinabile ai braccianti agricoli, selezionando i possibili futuri inquilini attraverso parametri economicamente insostenibili (una verifica anticipata della solvibilità e la dimostrazione di “un reddito tale per cui il canone annuo richiesto non incida sullo stesso in modo insostenibile”) e nemmeno troppo sottilmente razzisti (“valutazione della reale volontà del migrante di un inserimento sociale nel contesto urbano”). Il fallimento annunciato di queste iniziative ha portato alla progettazione del “Borgo sociale destinato ai migranti”, che altro non è che un ghetto-container destinato a diventare, come le aree che insistono sui terreni di Rosarno e San Ferdinando, un nuovo luogo di segregazione, lontano dal centro città otto chilometri e privo di servizi. Per quest’operazione sono stati stanziati un milione e trecentomila euro, provenienti dal programma dell’Unione Europea “Supreme”.
Il secondo campo dovrebbe sorgere nell’ex opificio di Gioia Tauro, di proprietà della Regione, ente che finanzia il progetto, caldeggiato anche dalla prefettura, che sempre si espone in favore di questo genere di soluzioni. Tilde Minasi, assessore regionale leghista per le politiche sociali, ha senza peli sulla lingua messo in ordine le priorità, nel presentare il progetto: «È nostra ferma intenzione – ha dichiarato – combattere prima di tutto il degrado dell’area, e al contempo regalare una vita dignitosa ai migranti che vengono in Calabria a lavorare […]. Dall’altro lato vogliamo offrire un servizio alle aziende che dei lavoratori stagionali stranieri hanno assoluto bisogno».
L’ultima volta che ero stato alla tendopoli di San Ferdinando, un ragazzo ghanese aveva riflettuto con naturalezza sul fatto che se la politica avesse “conservato” (o “risparmiato”: usò la parola saved) tutti i soldi “trovati” (mi parve di capire found, ma forse fu fund che vuol dire “finanziare”) e poi spesi per costruire e mantenere in piedi le tendopoli e i campi container, «avrebbe potuto pagare a ognuno di noi due anni di affitto in una casa vera».
Che il business della costruzione e della gestione dei campi sostenga e alimenti numerosi potentati è una scoperta sconvolgente solo per gli ingenui, così come è chiaro che i migranti preferiscono vivere negli insediamenti informali, senza acqua ed elettricità, in baracche di fortuna, piuttosto che nei campi istituzionali, potendosi concedere il “lusso” – come aveva scritto Arturo Lavorato qualche tempo fa – di decidere qualcosa in più della propria vita, “di comprarsi gli spiedini di pecora appena arrostiti su una griglia di frigorifero, o di sedersi al bar tenuto da qualche grassa signora ghanese o nigeriana”.
Eppure, nulla è cambiato da allora: la religione del campo riproduce e rafforza quotidianamente i propri dogmi, viene diffusa con diligenza evangelica da sindaci e assessori, prefetti e presidenti di cooperative come l’unico possibile baluardo di civiltà, come se a qualcuno possa sembrare civile dover esibire un documento per entrare e uscire da casa propria, non poter socializzare se non con chi ha le caratteristiche per poter essere dentro e non fuori il recinto, dover rispettare regole insensate, essere sorvegliato a vista da divise di vari tipi e colori.
PROCEDERE PER TENTATIVI
Francesco Piobbichi è un attivista umbro che ha lavorato a lungo a Lampedusa e che da tre anni vive in Calabria. È stato animatore delle Brigate di solidarietà attiva alla fine del primo decennio dei Duemila e oggi è il coordinatore di un progetto inaugurato a febbraio scorso per iniziativa di Mediterranean Hope e Fcei. Alla base del progetto c’è la volontà di “deghettizzare” i braccianti agricoli, attraverso la creazione di una struttura che possa fungere da modello abitativo a disposizione dei lavoratori stagionali. L’obiettivo, più che offrire una valida alternativa per un gruppo di persone, è quello di mostrare la sostenibilità dell’esperienza e incoraggiarne la riproduzione da parte di altre realtà, mirando così al superamento dei campi formali e informali che affollano la Piana e del fenomeno degli affitti in nero. L’ostello sociale nato all’inizio di quest’anno si chiama Dambe So (“casa della dignità”, in lingua bambarà) e si trova nel comune di San Ferdinando. Può ospitare fino a venti persone (lavoratori stagionali), che pagano una cifra mensile molto bassa, ma in bassa stagione lavorativa (estate) la struttura si aprirà anche a qualche turista. Una parte dei costi di gestione sono coperti dalla vendita delle arance della filiera di Etika, un altro progetto sviluppato da Mediterranean Hope e Sos Rosarno. «Un tema centrale è: perché la grande distribuzione non paga gli alloggi ai braccianti? L’idea che c’è dietro l’ostello si ispira alle prime Camere del lavoro e al sindacato sociale: tenere insieme i lavoratori in decine di posti come questo, formarli, anche dal punto di vista sindacale, e prospettargli la possibilità di rivendicare in maniera diversa la tutela dei propri diritti, a cominciare dai trasporti fino ai soldi che la grande distribuzione – e non la fiscalità generale – devono destinare all’ospitalità dei lavoratori in transito, così come previsto da molti accordi provinciali in altre parti di Italia».
Da qualche tempo (disordinatamente e sporadicamente, inseguendo la complessità di una galassia così ampia) proviamo su Monitor e su Lo stato delle città a occuparci di quello che succede nella piana di Gioia Tauro. Questa complessità proviamo a restituirla dando spazio alle voci e agli accadimenti che ci sembrano capaci di trasferirla, ma anche di mettere in questione i più interessanti percorsi di attivismo e impegno, che si articolano su diversi livelli. Abbiamo ospitato le riflessioni di chi rileggeva il proprio protagonismo nella costruzione del più solido processo di economia alternativa della piana, mettendo in discussione non soltanto leggi e protocolli ministeriali, non solo il ruolo della grande distribuzione ma anche le carriere costruite negli anni sulla narrazione delle emergenze, le categorie di quelle stesse narrazioni (a cominciare dalla semantica sullo “schiavo” e la “schiavitù”), i limiti dei percorsi di autorganizzazione e di “altraeconomia”; questi processi di produzione alternativa, poi, siamo andati a indagarli nelle loro narrazioni più oneste e meno trionfalistiche; con la consapevolezza che il lavoro e il soggiorno sul territorio di un bracciante stagionale non possono essere elementi slegati tra loro, siamo andati a conoscere i cosiddetti “modelli”, a Riace, a Camini, a Cinquefrondi, fino all’ostello sociale di San Ferdinando. Così ci è parso evidente come anche quella del “modello” sia un’idea strumentalmente calata dall’alto, e che le energie che vengono spese sul territorio da attivisti, sindacalisti, persino dai politici più capaci, non sono altro che tentativi immaginati su territori differenti che hanno ognuno delle specifiche caratteristiche, risorse, problematiche, riflessioni collettive in atto.
Ciò che accomuna molte di queste esperienze, però, è una visione complessiva, in cui la coincidenza tra il tema del lavoro e quello dell’abitare è solo una parte, quella che abbiamo assorbito e raccontato con maggiore chiarezza. Il legame tra le lotte ambientali, la difesa della terra e un modello di agricoltura alternativo è un aspetto emerso in quest’ultimo viaggio; ancora, l’idea è quella di aprire un fronte di indagine, analisi e racconto sullo stato dell’arte e sulle lotte per il trasporto pubblico, sui servizi sanitari territoriali, sugli spazi aggregativi per i lavoratori; e, in fin dei conti, sulla grande battaglia che solo se slegata da tutto ciò può essere percepita come meramente ideologica, ovvero quella per i rilasci e i rinnovi massicci e in tempi garantiti dei permessi di soggiorno per tutti. (riccardo rosa)