
«Questa è la cosa più simile a una guerra che abbia mai visto nella mia vita».
L’idea era chiara: “Assediamo Montecitorio”. Era provare a circondare il palazzo del parlamento e creare una giornata di tensioni tali da far cadere il governo dalla strada. Senza necessità di affidarsi agli onorevoli deputati, e al poco edificante spettacolo che li ha visti saltellare nelle ultime settimane da uno schieramento all’altro, con la stessa facilità con la quale il governo sembra avere – almeno per ora – risolto i propri problemi di inferiorità numerica.
È stato chiaro da subito che il corteo non sarebbe stato una passeggiata. L’ampia zona rossa a protezione dei palazzi del potere era sorvegliata da un gran numero di forze dell’ordine. La composizione del corteo era varia. C’erano tantissimi studenti di liceo, i precari di scuola e università, ma anche quelli per i quali le emergenze sembrano non terminare mai: tra questi i terremotati dell’Aquila, i manifestanti di Terzigno. I più numerosi, però, erano gli studenti universitari, il cui destino era fortemente legato all’approvazione della fiducia. È notizia di oggi, infatti, che una volta evitata la debacle, il parlamento ha fissato la data per la votazione della riforma Gelmini già tra il 20 e il 22 dicembre. Il primo provvedimento del governo salvatosi ieri.
“Cadi, governo ladro!”, recita uno striscione, ma l’auspicio dei manifestanti non si è infine compiuto. Molto determinati, fin da subito, erano i ragazzi che formavano i cordoni delle prime file. Ci tenevano ad arrivare all’esterno di Montecitorio, e non volevano sentire ragioni. I primissimi, quasi tutti romani, si riparavano con grandi scudi a forma di libro, sui quali erano scritti i titoli e gli autori per loro più importanti. Subito dopo i cordoni delle altre città.
Il primo scontro avviene all’altezza di corso Rinascimento: i manifestanti provano ad avvicinarsi al palazzo della Camera, ma lo schieramento di polizia è numeroso. Dopo un primo contatto cominciano a lanciare botti e soprattutto fuochi artificiali, esattamente come a Terzigno qualche giorno fa. La polizia risponde con lacrimogeni che riescono, faticosamente e dopo diversi minuti, ad allontanare chi provava a forzare. Iniziano a girare i limoni, ma nel frattempo il corteo riparte: di lì non si passa.
Mentre il folto serpentone prosegue sul lungo Tevere arriva la notizia che il governo ha ottenuto la fiducia. «Ce l’hanno fatta di nuovo, comprandosi una manciata di parlamentari!», si grida tra la folla. L’atmosfera cambia, il corteo prosegue con uno spirito deluso e rabbioso, dopo un passaggio in piazza del Popolo, fino a via del Corso. Man mano che i manifestanti si riavvicinano alla zona rossa la tensione aumenta, fino al nuovo scontro. Questa volta è più duro: il corteo è nervoso, e i manifestanti vengono respinti dagli agenti solo grazie a una pioggia di lacrimogeni come non si vedeva da anni. Assieme ai lacrimogeni alcuni poliziotti rilanciano le pietre che ricevono. Il terreno di battaglia, però, si allarga lentamente. Il corteo è stato separato in più spezzoni, più o meno all’altezza di piazza del Popolo, da cordoni di agenti in antisommossa e blindati. Nella zona di villa Borghese, e nelle strade alla destra della piazza, avvengono i contatti più duri, fino al corpo a corpo tra decine di manifestanti, poliziotti e finanzieri. La confusione è totale. Le camionette della polizia corrono all’impazzata all’interno della piazza, rischiando nella coltre di fumo ormai fittissima, di buttar sotto chiunque si trovi sulla traiettoria. Qualcosa di strano, già in quel frangente, si nota riguardo la possibile presenza di infiltrati. In serata si diffonderanno le foto di una persona incappucciata che armata di manganello e manette protegge un (collega?) a terra, per poi alzare poco dopo un cassonetto e lanciarlo con forza in strada, creando un nuovo parapiglia.
Solo verso sera la situazione si tranquillizza. Quello che rimane, nella zona circostante la piazza, sono i resti delle automobili bruciate e utilizzate per le barricate; le vetrine infrante (come quella della sede della Protezione civile) e il via vai di sirene. C’è consapevolezza, tra i ragazzi, che la battaglia di oggi sia stata persa (il governo è rimasto in piedi senza grosse difficoltà), ma «abbiamo scritto la storia oggi», prova a razionalizzare uno di loro. «Certo è che ci vorrebbero dieci, venti giornate di questo genere perché questi capiscano che non possono fare quello che gli pare impunemente».
Tornando verso casa gli animi sono ancora caldi. L’adrenalina fatica a scendere. Mi infilo nel primo pullman in partenza per Napoli, tra un po’ di volti noti, facce nuove e vecchi amici. Per la maggior parte sono liceali, molto giovani, altri devono essere appena sbarcati all’università. Sono stati in prima linea dall’inizio della giornata, sembrano avere tutti le idee chiare su quanto sta accadendo. Non appena la tensione cala un po’, dopo aver curato le botte prese e raccontato a chi era rimasto più dietro quello che è accaduto, i ragazzi si fermano a riflettere sul possibile significato politico della giornata. Ripetono a gran voce che per ottenere un risultato sarebbe necessario non fermarsi. E anche il viaggio – coerentemente con la voglia di “non fermarsi” – diventa meno lungo del previsto: l’autista comincia a correre, infastidito dalla partenza ritardata e mosso dal desiderio di chiudere questa faticosa giornata. Arrivando a Napoli c’è tempo giusto per l’ultima metro: il freddo è polare tra i cantieri sempre aperti e mai al lavoro di piazza Garibaldi. Roma, via del Corso e il ministro Gelmini sembrano già lontanissimi. (riccardo rosa)