
Nelle settimane scorse ho guardato il servizio su Salerno andato in onda su Rai 3 per il format Fuori Roma, ho letto con calma alcune delle numerose reazioni, poi ho preso un battello lungo il Rio delle Amazzoni. Durante il viaggio, forse il caldo tropicale, forse la durata interminabile, sono stato indotto ad aggiungere una riflessione, personale ma anche in certa misura collettiva. Una memoria, un aggregato di ricordi, come un’eco della ultradecennale e silenziosa produzione di contropotere così orgogliosamente pura e militante, da risultare oggi grande assente in un dibattito sterile, che dalla piazza si è trasferito al teleschermo. Sono salernitano e ho un legame particolare con la storia che qui si racconta. Ho una certa esperienza sulla fenomenologia triste dell’epoca De Luca, avendovi dedicato due tesi di laurea ed essendo al lavoro con la terza, di dottorato, sullo stesso argomento: un tema di attualità perso nei risvolti di una cronaca mai storicizzata che non sembra buono né a fare carriera, né a raccogliere consensi, ma che diventa piuttosto una missione di verità da portare a compimento per amore della propria terra.
Salerno, la città modello
Salerno, la città modello/cantiere/fortezza/vetrina a seconda del momento storico tracciato dall’ex sindaco e attuale governatore, è stata terreno di crescita, vita, pensiero e azione politica per quasi tutti i miei trentatré anni. Con alcune persone e per molti anni, tra il 2001 e il 2008 con Radio Asilo, Laboratorio Diana e re.load, poi dal 2012 al 2015 con il comitato Giù le mani dal Porticciolo, abbiamo dedicato del tempo superiore a qualsiasi immaginazione per costruire un’idea di città alternativa a quella che da tempo procedeva in linea retta, provando a smontare il discorso egemonico deluchiano con argomenti forti e sensati. Come bersaglio delle nostre lotte per i diritti degli esclusi dal luccichio delle notti salernitane non c’era un anonimo “sistema” né solo la “globalizzazione”, il modello di sviluppo, il gioco sporco del neoliberismo senza volto. C’erano fatti, nomi, consiglieri e assessori, delibere, licenze, avvenimenti documentati che quasi mai venivano a galla nel dibattito pubblico. Fatti che stavano facendo tracimare la pazienza e il senso di giustizia di una generazione che si sarebbe vista, di lì a poco, costretta a emigrare in ogni direzione, delegando chissà a chi, e a quando, l’eredità di portare a frutto l’enorme lavoro svolto.
Non eravamo soli, ma pochi, più isolati e autoreferenziali di quanto allora riuscissimo a immaginare. Ci accompagnavano nel cammino comitati e semplici cittadini di quartieri dimenticati come Canalone, Sant’Eustachio e le Fornelle, associazioni come Italia Nostra, parroci dall’insuperabile impegno sociale come don Pietro Mari, studenti e altri gruppi di azione locale. Quando affiggevamo cartelli con scritto “premiata pasticceria De Luca” con l’immagine di un babà (prodotto dolciario sinonimo di frode), ricalcavamo a stencil la scritta “Salerno città di zombies”, invadevamo spazi abbandonati per sopperire alla mancanza di strutture e politiche culturali o trasmettevano dalle frequenze Uhf di DeLira Tv, non era ancora arrivato Facebook come mezzo di condivisione. Nell’alienante transizione da megafono e striscione ai click e ai like, si colloca l’altro versante critico formatosi successivamente a Salerno, quello dei Figli delle Chiancarelle, cittadini indignati e raccolti intorno a una pagina social, che nasce da una genetica molto diversa, non in totale sintonia con il nostro modo di intendere la ribellione, vuoi per l’utilizzo dello sfottò come strumento di azione e per la presenza pressoché nulla nelle strade e nei quartieri, vuoi per la disordinata eterogeneità di posizioni e valori, livellati internamente di fronte al nemico comune. Diversità di vedute e di prassi che non hanno impedito la condivisione di alcune importanti battaglie, più legali che di piazza, così come avvenuto con il tenace comitato No Crescent. Infine, come ultimo dato del mio legame con le vicende salernitane, le scelte della mia famiglia hanno risentito del peso della speculazione urbanistica e dell’indebitamento a essa dovuto. A Salerno non ho trovato lavoro e sono emigrato sempre più lontano, mollando mia madre da sola con un mutuo enorme e lasciandomi dietro speranze di cambiamento e tantissimo fiato, chissà se sprecato.
Il caso De Luca
Il “caso De Luca”, insomma, non esiste da ieri. Non esiste dalla pubblicazione dell’inchiesta di Fanpage, non esiste dal polverone mediatico sulla legge Severino e sull’impresentabilità, dalle rivelazioni sul voto di scambio e sui legami con le ecomafie, dai ripetuti scandali legati ai progetti del Crescent, di Porta Ovest e di altre varianti urbanistiche, dalle candidature di successori sindaci delfini e figli dall’avvenire assicurato, per citare alcuni degli eventi più risonanti. De Luca è un caso fin dai giorni del suo insediamento a sindaco, venticinque anni di pura casta, oligarchia e propaganda da far gelare i più rocciosi stalinisti. Ormai sollevare una critica non fa più rumore, ma chi aveva in mano le carte, la voglia e gli strumenti per abbattere lo strapotere uninominale semplicemente mancava di numeri e di possibilità per andare a segno, mentre chi avrebbe potuto davvero incidere non lo ha mai considerato opportuno. Forte di percentuali bulgare e di connivenze basate sulla compravendita di favori da un lato e su un consenso popolare legato al sogno di un impalpabile sviluppo economico e turistico dall’altro, ma soprattutto in grado di capovolgere le evidenze con una strepitosa dialettica, sulla testa del governatore sono cadute decine di pesanti tegole e tutte sono state schivate con abilità felina, cosa che ci impone di rimescolare le carte del dibattito e guardarlo da altre angolazioni.
Un’inchiesta a metà
Conchita De Gregorio, nel servizio su Rai 3, rintraccia una serie di evidenti responsabilità nel sistema clientelare (la “macchina del potere”, per alcuni) senza esimere da colpe la cittadinanza intera, affiliata, omertosa, ipovedente, che da sempre si è schierata alle sue spalle in maniera acritica, ripetendo i soliti mantra su sviluppo, sicurezza e decoro. Ma il reportage di De Gregorio non è certamente né il primo, né il più completo nel suo genere. Nonostante alcuni affondi inevitabili, il polso della giornalista è stato molto tenero con il governatore, ricordandoci l’atteggiamento un po’ snob di chi critica senza affondare mai il colpo decisivo, per pigrizia, comodità, e forse per una sorta di ammirazione borghese verso un uomo capace di commettere bene, con grazia sopraffina, anche i propri lapalissiani sbagli. Peccato che, sulla scorta di tali perdonabili orrori, subisce e agonizza da tempo un territorio intero. Emigrazione emorragica, incidenza di tumori fuori scala, definitivo crack della partecipazione cittadina alla vita politica, ostracismo culturale e sociale, controllo capillare dell’informazione, un senso civico mai e poi mai incentivato a fronte di un’autostima cittadina da roccaforte autarchica, degna conseguenza di una riuscita ipnosi collettiva. Riaprendo gli occhi, qualcuno potrebbe accorgersi che simili ferite al tessuto sociale non solo tarderanno ere geologiche a cicatrizzarsi, ma rischiano di cronicizzarsi in un ceto medio ormai plasmato dalla retorica paternalista e inetto a qualsiasi abbozzo di autogestione. Dal suo canto, il reportage si mantiene sul vago, non aggiunge quasi nessun elemento nuovo al dibattito, se non presentare al grande pubblico il vicario Vincenzo Napoli e accogliere i giudizi proferiti da due personaggi non limpidi, come De Silva e Apolito, passati da tessitori di elogi a intellettuali organici di una provincia elitista. Buona la parte di Sales, ma anche lui si perde nell’evanescenza dei paragoni mitologici, nel disegnare un personaggio che va a collocarsi direttamente nell’oltreumano, troppo inarrivabile per essere giudicato, discusso e osteggiato dai comuni mortali.
Ed è proprio così infatti. Uno dei principali elementi di forza dell’ex homo novus di Ruvo del Monte è stato quello di sapersi collocare in un empireo rispetto all’elettorato e ai possibili antagonismi, calandosi da solo nella condizione di chi tutto vede, tutto può, di tutti se ne infischia e a cui tutto è perdonabile. De Gregorio dimentica tuttavia il ruolo delle periferie nella pianificazione come mezzo contrattuale, l’illusorietà delle trasformazioni urbane avanzate, il lavoro difficile e quotidiano giocato da tutte le flebili ma caparbie opposizioni (nonostante licenziamenti, auto incendiate, percosse e minacce da parte di squadre di fedelissimi), così come dimentica di fare cenno al fatto che di tutte le grandi opere ne sono in piedi forse un paio; dimentica di citare la vertiginosa sequenza di inchieste che a inizio Duemila stavano per travolgere il Palazzo ma si risolsero con l’elezione di De Luca alla Camera dei deputati e con le intercettazioni distrutte da Roma. Se da un lato il reportage si presenta come un malinconico ma efficace strumento di riflessione, dall’altro taglia fuori troppe voci e appare opaco, inconcludente, frammentario. Sentiamo dire ben poco nel servizio tv sulle sconfortanti uscite del De Luca xenofobo, razzista, campanilista, schierato a difesa di interessi di classe contro i più deboli della società, fornitore di manganelli ai vigili urbani, artefice di delibere mirate anti-musica, anti-bivacco, di attacchi quotidiani alla libertà di espressione, precursore di tutti i salvinismi e, in molti casi, dei berlusconismi in salsa campana. Non dice tutto, ma in cambio fa gioco alla demagogia deluchiana che non si fa attendere, tacciando il video di essere contro Salerno e i salernitani; nessuna chiave migliore per sguinzagliare orde di risentimento proprio sul terreno in cui il deluchismo ha raggiunto i risultati più alti: il sentimento identitario modellato sul bisogno di appartenenza a un territorio eletto, ma svuotato di valori storici, paesaggistici e immateriali, a cui ormai da vantare restano solo i deficit nel bilancio e i record negativi di una gestione fallimentare, che non sarà incrinata dall’ennesimo, parziale servizio della Rai, ma più probabilmente dall’evidenza che un sistema ormai marcio così consolidato non ha davvero più niente da offrire se non una sfilza di figuracce mediatiche a livello nazionale. Di questo primato sì, possiamo continuare a essere orgogliosi. (camilo barco tikuna IV)