
Anche se i miei amici russi che avevo appena rivisto a Bologna per Il cinema ritrovato me l’avevano detto, non mi aspettavo di arrivare in una città così attraente, così favolistica. Capoluogo imperiale prima e del socialismo balneare poi, decaduta ma ancora palpitante, con questi boulevard pieni di alberi rigogliosi e rinfrescanti. Abbellita da qualche pennellata di grigiore sovietico qua e là, allegra e cosmopolita, ma di un cosmopolitismo portuale. «A Odessa tentano sempre di fotterti, mi raccomando in campana», mi avverte Sasha, la coordinatrice di Kiev che si occuperà di noi durante il festival, mentre dall’aeroporto ci dirigiamo in albergo. Doccia volante e dritti al ricevimento di apertura nel giardino del Museo della letteratura di Odessa, in pieno centro storico. Solita rottura di cazzo ingessatissima, smoking e abiti da sera, alcol e stuzzichini degli sponsor, le trophy wives degli oligarchi. La musica dal vivo che nessuno si caga e i selfie con gli attori e le attrici.
Incontro Dmytro che sarà in giuria con me. Ex guardiano notturno in un deposito di armi alla periferia di Kiev, due anni di servizio militare nel deserto kazako come punizione per avere fatto parte di un gruppo punk negli anni Ottanta. Hippie fuori tempo massimo durante lo sfascio degli anni Novanta, quando per la prima volta gli abitanti dell’ex impero sovietico assaporarono la libertà e la fame. Quando i più spregiudicati tra gli ex burocrati di partito s’intascarono tutto privatizzando anche l’aria. È riuscito a entrare per il rotto della cuffia all’Accademia Ucraina di Cinema e Teatro l’ultimo anno prima che diventasse a pagamento, adesso è il critico cinematografico di uno dei principali quotidiani ucraini. Un personaggio veramente al limite, bipolare come il mondo che ha attraversato. Una notte, di guardia al deposito, dovette cacciare un pipistrello che si era intrufolato nel capannone. «Ci ho scritto una short story su quel pipistrello allegorico – mi racconterà qualche giorno dopo –. I comunisti erano come vampiri, succhiavano il sangue e basta», mi dice accompagnando l’aneddoto a una delle sue risate psicotiche. Citando Massimo Troisi gli prometto di segnarmelo. Penso al racconto di Abruzzese, Anemia. Storia di un vampiro comunista, dovessero mai tradurlo in russo gliene recapiterò una copia. Dmytro ha cinquantacinque anni ma ne dimostra almeno dieci di meno, il che è parecchio strano. Per gli uomini da queste parti di solito è l’esatto contrario. Completa l’improbabile giuria Wanda, giornalista svedese di origini polacche. Politicamente correttissima, come (quasi) tutti gli scandinavi. Imprevedibili come una linea retta. Prima di andarcene a letto facciamo un giro al museo della letteratura che in occasione dell’apertura del festival è rimasto aperto anche di notte.
Inaugurato nel 1977 da Nikita Brygin, ex ufficiale del Kgb con un amore smodato per la letteratura, le donne e la vodka, il museo raccoglie i cimeli letterari di una città che sembra a sua volta uscita dalle pagine di un romanzo tanto è poetica e dissoluta. C’è la stanza dorata dedicata a Puskin, quella con la scrivania di Checov, i manoscritti di Maksim Gorkji che a Odessa venne a osservare i portuali e le loro condizioni lavorative. Anna Achmatova a Odessa vi nacque e crebbe, una volta a Mosca sfiorò il Nobel per la letteratura e la Siberia. Da qui passarono, e se ne innamorarono, anche Mark Twain e Majakovskij, ci spiega nel suo inglese slavo senza articoli determinativi Helena Karakina, direttrice scientifica del museo per il quale lavora ininterrottamente dal 1982. Le chiedo quali sono i libri più belli ambientati a Odessa. I cinque di Vladimir Jabotinsky, uno dei padri fondatori del sionismo oltranzista, ex studente alla Sapienza di Roma, nume tutelare della destra israeliana nonché odessita doc. Dedicò alla sua amata città questo libro che a detta della signora Karakina è un capolavoro assoluto. È stato da poco tradotto in italiano per la prima volta, lo recupererò.
Altro caposaldo della letteratura nostrana sono i Racconti di Odessa di Isaac Babel che narrano in maniera tragicomica le peripezie della popolazione ebraica ai tempi dello zar, quando Odessa era terra di confine e attraversamenti (nonché zona di caccia aperta agli ebrei). Confinante con la Bessarabia, grazie al porto la città era in diretto contatto con Istanbul e Port Said, l’Armenia e la Georgia, è stata ucraina, poi russa e poi di nuovo ucraina. E infatti, come in tutte le città veramente internazionali, nessuno ti guarda incuriosito o con fare territorialista, si passa pressoché inosservati perché la gente del posto è avvezza alle differenze. Non se ne cura. Fa strano perché da un lato a me ricorda la Russia, però al posto della luce cupa e profonda che emanano le vie di Mosca qui c’è un’aria più irruente e solare. Anche gli odessiti mi sembrano russi senza però quel broncio epico e nichilista. Sarà il mare e il sole caldo o forse il porto, non saprei, ma la città pullula di gaudio e malaffare. L’atmosfera insieme distesa ed elettrizzante ti tiene per strada, camminarci è come un flirt. I vecchi tram sovietici arrugginiti e colorati ricalcano i viali di sanpietrini che dolcemente fanno su e giù sinuosi, intersecandosi perpendicolarmente formano una griglia areata e spaziosa, piena di parchi. Le vie della città sono costellate da questi maestosi palazzi a due o tre piani che sanno tanto di Mitteleuropa, alcuni rimessi a lucido, altri nobilitati dal tempo e dall’incuria. I pochi angoli rimasti della Mosca pre-rivoluzionaria le assomigliano molto. C’è tanto verde, curato, ovunque. Anche nelle zone periferiche. Questo credo sia un lascito della pianificazione urbana sovietica. Anche Mosca è molto verde, anche se marcio.
Ma di Mosca e dell’Unione Sovietica non ne vuole parlare nessuno, o quasi. Demonizzati in quanto male assoluto che non vuole passare dato che, anche se scomparsa dai nostri notiziari, la guerra tra la Russia e l’Ucraina nella parte orientale del paese va avanti. E come i film muti che passano al festival, tutto è rigorosamente in bianco e nero. La guerra tra nazionalismi non ammette gradazioni cromatiche. Anche se di sfumature ce ne sarebbero non poche. Se da un lato il patriottismo ucraino è reazione diretta e financo legittima alla tracotanza espansionista dei russi, dall’altro si evince da certi discorsi un malcelato complesso di superiorità che non sfugge al mio orecchio ormai allenato a captare i segnali discorsivi e retorici dell’etno-nazionalismo più o meno religioso che ha distrutto il Libano, il paese dove vivo, e che sta rapidamente infettando quello dove sono nato, l’Italia. Una sera a cena il direttore artistico del festival mi spiega che la parte orientale del paese, sovietica già dagli anni Venti, fu “ripopolata” da persone provenienti da tutta l’Urss. Quella occidentale invece, ex territorio austro-ungarico, rimase indipendente fino alla seconda guerra mondiale. La retorica degli impuri pezzenti filo-russi dell’Ucraina orientale versus i civilizzati ed europeissimi ucraini d’occidente aleggia un po’ ovunque negli educati discorsi che sento in giro. Anche se qualcuno, appena capisce che con me può parlare liberamente, mi fa notare che i buoni e i cattivi ci sono solo nei film…
In un atto di equilibrismo politico non indifferente, dato che il sindaco di Odessa è un buttafuori filo-russo mentre la dirigenza del festival, semplificando a colpi di accetta, fa parte di quella classe media aspirazionale che sogna l’Europa neoliberista, democratica e a porti chiusi, il festival ha fatto da cassa di risonanza al clima politico, nella programmazione così come nei suoi proclami ufficiali. La nostra giuria poi era incaricata di visionare i film del concorso nazionale. Siccome il cinema, anche quando fa cagare, funge (in)direttamente da barometro politico e sociale, anche il tempo passato al buio lontano dalle strade mi è servito a capire meglio le dinamiche che attraversano un paese diviso e in guerra – a tutti gli effetti civile. E dato che, come in gran parte dell’ex impero sovietico, qualsiasi riferimento alla sinistra è immediatamente associato ai gulag e al baffone, una prospettiva internazionalista che prenda in considerazione le differenze di classe al posto di quelle nazionali o linguistiche è impensabile, praticamente un tabù (e dire che l’Ucraina è la patria di Nestor Makhno…). Su questi e altri temi ci siamo scontrati anche con Dmytro e Wanda quando è stato il momento di deliberare e decidere a quale film assegnare il premio della critica. Io, in minoranza, ho provato a interrogare i toni manichei dei film visti e le loro insinuazioni sospette. Ma alle logiche da derby calcistico non si scappa, manco se sei svedese…
Complicazioni politiche a parte, la città e i suoi abitanti sono un autentico piacere da condividere e a tratti viene quasi da dar ragione a quelli che alla Russia e ai suoi abitanti, notoriamente sospettosi nei confronti della felicità, attribuiscono ogni male. Peccato poi che la lingua più parlata a Odessa sia proprio il russo, come nel resto dell’Ucraina orientale. Insomma, la situazione come sempre è molto più complessa e stratificata di come le due fazioni se la raccontano. La natura spuria e inevitabilmente contaminata di ogni insediamento umano smentisce sempre e comunque le semplificazioni nazionalistiche. Sarebbe un peccato paradossale se anche questa città dovesse piegarsi alle logiche identitarie che governano un mondo fatto di soli confini. Qui dove nell’arco del solo ventesimo secolo hanno abitato ucraini, ebrei, russi, polacchi, tedeschi, bielorussi, turchi, moldavi, francesi, tatari, greci, bulgari e armeni… Qui dove l’ultimo giorno, mentre frugavo tra le pile di vecchi vinili in un mercatino delle pulci, ho incontrato un altro Dmytro. Un uomo di mezza età chiaramente alcolizzato che con fare cordiale ha attaccato bottone. Al contrario del mio collega giurato lui sembra non avercela fatta, caduto nelle crepe della vita. Al netto dell’apparenza parecchio trasandata ha però una sua dignità e compostezza. Ci mettiamo a parlare di musica, poi, quando gli dico che sono a Odessa per il festival, anche di cinema. È molto preparato. Sorpreso, dato il suo aspetto barbonesco, gli chiedo dove ha imparato l’inglese. Inorgoglito e con un tono quasi marziale dichiara: «For free in the Soviet Union!», e poi parte col pippone nostalgico sul glorioso passato comunista quando tutti avevano tutto e i russi e gli ucraini non si scannavano come cani rabbiosi come fanno adesso. Su alcune cose è obiettivamente difficile dargli torto. Parla inglese, conosce il cinema e la musica (non solo Al Bano e Toto Cutugno), fa dei ragionamenti da persona istruita e sa leggere la realtà con occhio critico anche se di parte. Eppure pare un senzatetto, sventola un bicchiere di vino alle undici del mattino, non il primo a giudicare dall’alito. Sembra un personaggio uscito da Mosca-Petuski, il poema ferroviario di Venedikt Yerofeyev capolavoro del dissenso sovietico anni Ottanta, inno alla perdizione etilica che racconta le transumanze ferroviarie degli sciamani della vodka. Versioni laiche dei pazzi di Dio, gli asceti ortodossi che, secondo Wikipedia, “abbandonano la sapienza umana per scegliere la ‘sapienza del cuore’” e vagano angelici e scontrosi nei meandri del vasto spirito russo. Dmytro emana quell’effluvio di alcol marcio e baratro esistenzialista tipico di queste terre. Inebriato mi congedo. «So long, tovarich», gli dico in tono affettuosamente sarcastico, ma appena lui sente la parola “tovarich” gli si illuminano gli occhi e mi abbraccia. Gonfio di amore li saluto, lui e la città. (giovanni vimercati)