
Il 21 marzo ho raggiunto in bicicletta la manifestazione sulle scuole a piazza del Popolo, nel cuore di Roma. Quando ho messo il piede a terra al megafono parlava un professore di diritto privato, il tono era molto concitato: «Aprite le scuole, subito!». Un bambino davanti a me saltellava su un piede solo, facendogli eco con la voce da pappagallo, «aprite le scuole, aprite le scuole». Di colpo ho avuto la sensazione di far parte di un film di fantascienza scritto da Ennio Flaiano e diretto da Terry Gilliam, a metà tra il ridicolo e il surreale. Ho faticato a trovare la concentrazione e quando ho ripreso coscienza il professore si appellava al diritto sancito dall’articolo 34 della Costituzione: la scuola è aperta a tutti. Una colonna portante della nostra Carta, ormai fatta a pezzi e calpestata in nome dell’emergenza, parola nauseante, oltre che ormai vuota di significato.
Sono mesi che a intermittenza in Italia si aprono e chiudono scuole, come fossero chioschetti di chupitos sulla spiaggia. In Campania gli istituti scolastici non hanno praticamente mai riaperto dopo la prima chiusura, quella della primavera scorsa. Nel Lazio – dopo mesi in cui studenti e professori con impegno e dedizione hanno fatto lezione in classe con la mascherina, i disinfettanti, le ricreazioni sulla sedia e gli spazi riorganizzati – la zona rossa è stata sancita venerdì 12 marzo; dal lunedì successivo le scuole – dagli asili nido alle superiori – hanno ufficialmente chiuso i battenti. Questa volta c’è una novità rispetto al decreto dell’anno scorso: gli studenti disabili o con bisogni educativi speciali possono frequentare in presenza; non solo, per venire incontro al diritto d’inclusione le scuole hanno la possibilità di chiamare a partecipare anche altri studenti, organizzati in piccoli gruppi. Così, ormai da dieci giorni, tra alcuni genitori è scattata una grottesca caccia al “bambino speciale”, nella speranza di poter mandare anche il proprio figlio a scuola, fosse solo per poche ore a settimana. Nel Lazio l’indicazione del dpcm ha dato luogo a diverse interpretazioni e non è stata messa in pratica allo stesso modo. Alcuni presidi hanno subito contattato le famiglie, organizzando fin dal primo giorno piccoli gruppi di didattica in presenza. Nella classe di mia figlia la maestra ha deciso che la sua difficoltà – una dislessia certificata dalla Asl – non interferisce con la modalità Dad: “Meglio a distanza con tutti i compagni che in presenza con pochi bambini”, mi ha fatto sapere con un messaggio Whatsapp. Perciò niente didattica in classe, con buona pace di quello che pensiamo io e il papà.
C’è un dato, tra i molti, che mette in allarme: nelle scuole dove la dirigenza ha promosso e organizzato la didattica in presenza, una percentuale molto alta di genitori si è rifiutata di mandare i figli in classe e ha optato per la didattica a distanza. La paura del contagio non è lenita neanche dai dati scientifici, che – pur con un grave ritardo – sono stati resi noti dai media mainstream in queste ore. La scuola è uno dei luoghi pubblici più sicuri, e a dirlo non sono professori, associazioni di volontari o genitori, ma l’evidenza dei dati, raccolti dal ministero dell’istruzione e incrociati con quelli delle aziende sanitarie e della Protezione civile. Eppure l’evidenza è annebbiata da mesi di decisioni istituzionali fuori da ogni buon senso, da una campagna di comunicazione indegna, da un bombardamento continuo di menzogne mascherate da notiziole dell’ultima ora, che spingono verso l’unica fede verso un unico Dio Vaccino.
Una mia collega ha un figlio di cinque anni a cui è stato consentito di frequentare l’asilo tutti i giorni per mezza giornata. Questa volta il dpcm è stato scritto con più senno, mi ha detto in una pausa caffè. Lo pensano in molti, ma non è vero, è un’altra presa in giro, un’altra trappola in cui stiamo cadendo con tutte le scarpe, ormai sommersi da questa broda distopica che intorpidisce il cervello. C’è un’altra tipologia di genitori che invece ha gettato la spugna: «Vabbè, tanto se devono frequentare una scuola disastrosa, è meglio che se ne stiano a casa. Ormai arriviamo a giugno e buonanotte». L’ultimo stadio dell’esasperazione. Personalmente, ho avuto cura della mia rabbia e oggi sono ancora lucida per poter sostenere con forza che le scuole devono riaprire, per tutti, perché tutti i bambini e tutti i ragazzi hanno bisogni educativi speciali, dopo quasi un anno di questa tragedia collettiva.
Mentre scrivo queste righe ricevo la richiesta indignata di una mamma, per chiedere che mia figlia e altri compagni la smettano di disturbare usando la chat durante l’ora di lezione online. È una delle mamme che non accetterebbe mai di mandare la figlia in classe, se i docenti organizzassero gruppi in presenza. Ma che la usino pure, questa benedetta chat, anzi, mi rallegro che abbiano ancora voglia di giocare e divertirsi.
In quest’epoca tragica una delle pochissime cose che mi fa sorridere è la prolifica produzione della fabbrica di neologismi, tra tutti ce n’è uno molto in voga: “mutare”. Un predicato che non vuol dire più cambiare, evolvere, trasformare, ma mettere a tacere, togliere la possibilità di parola. Chi ha avuto a che fare con la Dad lo conosce bene: «Non mutate i vostri compagni!», lo ripetono gli insegnanti esasperati, ogni volta che qualcuno si diverte a disinnescare il microfono di qualche amico. Forse conviene, a noi “grandi”, che le nuove generazioni “si mutino”, perché se dovessero prendere realmente in considerazione il loro diritto di parola non avrebbero frasi dolci per questi adulti che stanno penosamente rovinando le loro esistenze. (marzia coronati)