Sono passati sedici anni dalla strage di Castel Volturno del 18 settembre del 2008. Quella notte un commando armato guidato da Giuseppe Setola, luogotenente del clan dei Casalesi, fece irruzione in un piazzale della Domiziana, su cui si affacciava una sartoria gestita da un uomo ghanese dove si ritrovavano molti suoi connazionali. Il commando sparò in modo indiscriminato sui presenti uccidendo sei immigrati.
La ferocia di quell’atto criminale, che poteva essere riconducibile solo alla camorra locale, insieme all’impossibilità di concepire un qualsiasi movente se non l’odio profondo per gli immigrati, e quindi la paura di essere tutti dei bersagli indifesi, portarono il giorno dopo migliaia di immigrati in strada per manifestare contro soprusi e razzismo, e per chiedere giustizia per i fratelli morti.
Io arrivai a Castel Volturno nel tardo pomeriggio, quando la protesta rabbiosa, a tratti violenta, era terminata da alcune ore. Il cielo plumbeo, che illuminava la Domiziana deserta e bagnata da una fitta pioggia, con i cassonetti della spazzatura rovesciati e i pali della segnaletica divelti, sembrava testimoniare la drammaticità delle ore appena passate.
Nei giorni successivi percorsi spesso la Domiziana, che era tornata ad assumere le sembianze di strada di commercio e di collegamento tra i vari agglomerati di case sorti abusivamente lungo la costa di Castel Volturno. Durante quel girovagare, mi capitava di soffermarmi a guardare i giornalisti intenti a riprendere ora un luogo ora un altro, oppure a intervistare amici delle vittime e residenti della zona.
Allora non conoscevo a fondo quei luoghi e ignoravo la vita e la storia degli abitanti, italiani e stranieri, che si erano trasferiti a vivere nelle seconde case a mare realizzate negli anni Sessanta e Settanta e quasi subito abbandonate da coloro che le avevano costruite. Fu proprio scrutando i comportamenti di quei cronisti e quelli della gente che si raggruppava intorno a loro, ascoltando i dialoghi e le voci sovrapposte dei presenti, che iniziai a raccogliere le prime notizie sulla strage e le testimonianze di qualche connazionale delle vittime.
L’occasione di trasformare questa esigenza in qualcosa di concreto arrivò qualche mese dopo quando Luca Rossomando mi propose di scrivere insieme un racconto sulla strage di Castel Volturno da pubblicare nell’annuario del mensile Napoli Monitor.
Prima di iniziare andammo al centro sociale Ex Canapificio di Caserta a incontrare Mimma, un’attivista da anni impegnata nella lotta per i diritti dei migranti, che aveva partecipato alla manifestazione del giorno dopo e stava battendosi, insieme ad amici e connazionali delle vittime, per chiedere giustizia. Mimma ci spiegò che conosceva alcuni di loro perché in passato si erano rivolti allo sportello legale del centro sociale e ci suggerì di contattare Peter, un ragazzo ghanese che avrebbe potuto accompagnarci in giro a raccogliere testimonianze sulle vite delle vittime.
Incontrammo Peter una sera a Castel Volturno. Era un ragazzo alto e robusto, con occhi vivaci e un sorriso allegro. Abitava al secondo piano di una palazzina che affacciava sulla via Domiziana, a pochi passi dal ponte dei Regi Lagni. Ci disse di conoscere bene le persone uccise e che ci avrebbe portato volentieri nelle case in cui abitavano, presentandoci familiari e amici.
Iniziai così ad andare con regolarità a Castel Volturno trascorrendo molte ore con Peter, spostandoci da un posto all’altro, entrando nelle case di molte donne, nigeriane o ghanesi, che avevano dei piccoli spacci e offrivano da bere e da mangiare ai propri connazionali che, di ritorno dal lavoro, avevano l’abitudine di fermarsi lì prima di rientrare a casa. In quelle malandate villette, ancora arredate con i mobili degli anni Ottanta appartenuti ai vecchi proprietari italiani, mi trattenevo a lungo. Osservavo le donne mentre servivano in modo brusco i clienti, con loro provavo a scambiare qualche parola sulle loro vite e sulla strage, di cui però molti non volevano parlare per diffidenza o paura.
Conclusa l’inchiesta sulle vittime dell’eccidio, i cui colpevoli erano stati prontamente arrestati e poi condannati all’ergastolo per “strage aggravata dall’odio razziale”, continuai a frequentare Castel Volturno. A volte girovagavo da solo inoltrandomi in zone sconosciute oppure andavo a trovare le donne che avevo conosciuto, a casa della quali trascorrevo lunghissime ore bevendo e chiacchierando con gli altri ospiti. Altre volte invece seguivo Peter nelle sue giornate piene di impegni. Di lui apprezzavo l’allegria, la leggerezza, ma soprattutto la capacità di stare in quei luoghi pieni di contraddizioni dialogando con tutti, italiani e africani, mostrando di conoscere bene le regole non scritte che ne governavano le relazioni.
Più avanti decisi anche di andare a vivere a Torre di Pescopagano, una località al confine tra i comuni di Castel Volturno e Mondragone, nota per essere abitata prevalentemente e in modo stabile da ghanesi e nigeriani. Quella esperienza mi diede la possibilità di cambiare ancora una volta il modo di stare sul campo, passando da ricercatore a volontario che segue le persone immigrate più anziane e fragili e le aiuta a orientarsi accedendo ai servizi sociali e sanitari.
IL SALONE DI BETTY
In tutti questi anni trascorsi a Castel Volturno mi è accaduto raramente di tornare a parlare della strage o di ascoltare dei ricordi di qualcuno che era presente in quei giorni, come se – per la gran parte delle persone immigrate – fosse stato necessario mettere da parte la storia di quei fratelli morti, e solo così poter continuare a vivere senza la paura di diventare un giorno a loro volta bersagli della camorra.
Nei mesi successivi alla strage, gli immigrati scelsero di essere meno visibili spostandosi in zone più periferiche e isolate ed evitando di frequentare i luoghi di ritrovo all’aperto a favore delle case private, dove la vita continuava più chiusa e protetta di prima. Da allora, questa iniziale prudenza è cresciuta trasformandosi in un modo di vivere sempre più isolato, come se le vite dei bianchi e dei neri dovessero proseguire separatamente, distinte l’una dall’altra, pur restando nel medesimo territorio.
Non è neppure un caso che in occasione dell’anniversario della strage, una commemorazione organizzata tutti gli anni dall’Ex Canapificio insieme ad altre realtà locali, quando ci si ritrova sul luogo dell’eccidio non siano presenti amici, familiari e connazionali delle vittime, se si escludono i rappresentati della comunità islamica e coloro che sono già attivi nel volontariato o in percorsi di lotta e di rivendicazione dei diritti.
Cosa c’è dunque nel profondo dei loro animi? Cosa custodiscono di così intimo da volerlo proteggere con il silenzio? Sono davvero distaccati, inerti e cinici come vogliono far intendere quando si chiede loro della strage oppure questo è solo l’ennesimo modo di porre una barriera tra noi e loro? Quella forza, quella determinazione, quella rabbia con cui manifestarono il giorno dopo la strage è ancora presente? La discriminazione, il razzismo, il sopruso segnano le loro vite come accadeva nel passato? La camorra continua a imporre il suo dominio?
Con queste domande, nel mese di settembre, quindici anni dopo la strage, ho deciso di trascorrere alcuni giorni a Castel Volturno, tornare a visitare i luoghi e incontrare le persone che allora mi aiutarono nella ricerca. Sapevo che alcuni di loro ci avevano lasciato per sempre, morti di stenti, sofferenze e malattie mal curate; altri invece si erano trasferiti altrove, ma chissà dove, forse in Germania o in Francia, forse in altri paesi europei, e di loro avevo perso le tracce.
Sono andato dunque a Castel Volturno pochi giorni prima del quindicesimo anniversario della strage, e ho cominciato questo personale viaggio tra passato e presente visitando il luogo dell’eccidio: un piccolo piazzale ai bordi della via Domiziana, in località Ischitella, su cui affaccia una palazzina di un piano con un porticato profondo al di sotto del quale ci sono tre locali commerciali. Uno di questi era occupato da un barbiere e un altro dalla sartoria Ob Ob Exotic Fashion, ritrovo di molti ghanesi che abitavano nella zona e per questo motivo bersaglio del commando criminale che sparò contro tutti coloro che si trovavano all’esterno e all’interno della sartoria.
Dopo la strage, sulla serranda della sartoria fu disegnata un’ampolla, simile a quella che conserva il sangue di San Gennaro, il cui “miracolo” si rinnova ogni anno il 19 settembre; il sangue però oltre a liquefarsi fuoriusciva dall’ampolla, circondata da sei spine nere e una bianca in ricordo delle vittime e dell’unico sopravvissuto. Oggi quella serranda appare simile a tante altre, l’insegna della vecchia sartoria è stata rimossa, e quel disegno è stato coperto da una vernice grigio antracite uniforme e anonima. A ricordare la strage c’è invece una stele realizzata dal Movimento dei migranti e dei rifugiati di Caserta, composta da due tubi metallici, uno bianco e uno nero, che si intrecciano e sorreggono una targa con la data della strage e i nomi delle vittime.
Scorrendo quei nomi penso a quanto sia stato importante, nei giorni successivi la strage, l’impegno degli attivisti dell’Ex Canapificio nel dare dignità a quei morti ricostruendo le identità di ciascuno e dando visibilità alle loro storie, in contrapposizione alle cronache dei quotidiani locali e nazionali, che dedicavano ampio spazio ai carnefici e ipotizzavano come movente della strage un conflitto tra bande criminali: da un lato la camorra e dall’altro la mafia nera.
Di fianco alla sartoria c’era allora, e c’è ancora oggi, il salone di Betty, una donna ghanese che ebbe la fortuna, la sera della strage, di chiudere prima di quanto abitualmente facesse per accompagnare la figlia all’incontro del coro della chiesa pentecostale che frequentavano. Qualche mese dopo, Betty tornò a vivere al primo piano di quella palazzina e riaprì il salone dove lavorava come parrucchiera. Lo fece contro l’opinione di molti suoi connazionali che le consigliavano di non tornare più in quel luogo. Lei ribatteva di non avere paura perché non aveva fatto nulla di male, che la vita continuava e aveva bisogno di lavorare. Io la conobbi quando cercavo di raccogliere informazioni sulle vittime della strage e un tardo pomeriggio entrai nel suo negozio per chiederle una testimonianza. Lei mi parlò delle premonizioni che aveva avuto quella sera, che l’avevano portata a chiudere in anticipo il salone e allontanarsi. Da allora sono tornato periodicamente a trovarla, trascorrendo del tempo con lei e osservandola mentre faceva le treccine o le estensioni. Consuetudine che ho mantenuto anche nei giorni che hanno preceduto quest’ultimo anniversario, ma a differenza del passato, stavolta ho pensato di ripercorrere con lei quei giorni e di chiederle se il ricordo di quella strage fosse ancora vivo tra gli immigrati di Castel Volturno.
Quando le ho detto che erano passati quindici anni, lei ha reagito incredula: «Davvero? Mamma mia! Come passano gli anni!». Le ho chiesto allora cosa restava di quella strage e Betty mi ha spiegato che bisognava fare una differenza tra chi è arrivato dopo e chi era già a Castel Volturno. «Quelli che c’erano in quei giorni non dimenticheranno mai. Ora molti di loro sono andati via, qui sono rimasti in pochi. Se non vengono alla commemorazione e non ne parlano volentieri è perché non vogliono arrabbiarsi, continuare la “guerra”. Ancora oggi, nessuno sa spiegarsi perché sono stati uccisi. Molti italiani dicono il razzismo, dicono che agli italiani non piacciono gli africani. Boh! Se qualcuno di loro ha fatto qualcosa di male perché non se la sono presi solo con lui?».
Questi di Betty sono interrogativi che ho sentito spesso, come se nessun immigrato riesca ad accettare le motivazioni che hanno accompagnano le sentenze della magistratura. Come se ci sia ancora qualcosa da chiarire o che semplicemente non sia possibile spiegare, ed è forse questa difficoltà che genera la paura di cui molti parlano. Di nuovo, però, ascoltando questi discorsi, a tratti distaccati, percepisco una specie di rassegnazione, come se prevalga quasi sempre la volontà di dimenticare, o ancora peggio, di riportare a una dimensione privata quella rabbia che era esplosa collettivamente il giorno dopo la strage e che aveva fatto dire ad alcuni osservatori che per la prima volta in Italia ci si era ribellati alla camorra.
Ho salutato Betty con addosso quella frustrazione tipica di chi cerca una risposta che non trova e forse non troverà mai, e ho percorso la Domiziana fino all’abitazione di uno dei ragazzi uccisi: una villetta, ora abbandonata, ben visibile dalla strada, che mi capita di guardare ogni volta che ci passo davanti e che mi rimanda indietro nel tempo. Allora l’avevo visitata accompagnato da un amico della vittima, un ragazzo giovane, alto e magro, con un viso serio e triste, il quale mi aveva parlato del suo fratello morto, mostrandomi una foto che lo ritraeva seduto su un muretto, sereno e sorridente, e mi aveva regalato una maglietta con le immagini delle sei persone uccise con su scritto: “Our beloving brothers rest in peace”.
Invece di proseguire, come mi accade di solito, questa volta ho parcheggiato l’auto in una stradina secondaria e dal retro della villetta sono entrato all’interno: gli infissi erano in parte divelti, alcune camere erano stracolme di spazzatura, altre erano arredate con i mobili che avevo visto molti anni prima, adesso vuoti e rovinati; una stanza invece aveva un letto matrimoniale sfatto e sudicio che faceva immaginare che in quel luogo si rifugiasse ogni tanto qualcuno per la notte. Ho perlustrato le stanze senza saperne il motivo, continuando a mettere in relazione quanto vedevo ora con quanto avevo visto all’epoca della strage, e ripensando alla figura triste ma viva che mi aveva guidato allora. Non è forse questo abbandono, questa indifferenza, questa presenza di anime disperate la strage che continua?
A quel punto ho ripreso l’auto e ho percorso un altro tratto di Domiziana fin quasi al nucleo storico di Castel Volturno, e poco prima della stazione dei carabinieri ho svoltato a sinistra in un viale privato. Ho fermato l’auto davanti a un alto cancello bianco da cui si intravedeva un ampio cortile pavimentato e una casa molto simile a un’abitazione mobile. Un luogo, ora deserto e disabitato, anch’esso bersaglio del gruppo criminale guidato da Setola che, qualche mese prima della strage, aveva fatto irruzione in questa stradina e dall’esterno del cancello aveva sparato verso l’abitazione abitata allora dalla famiglia di Teddy, il presidente di un’associazione nigeriana che dichiarava di battersi contro la prostituzione; fortunatamente le armi si erano inceppate quasi subito e l’agguato era fallito. Ero tornato altre volte su questa scena del crimine, che era rimasta uguale nel tempo, e guardando il recinto, il cancello, il cortile vuoto e la casa chiusa avevo provato a immaginare quell’agguato fallito, l’incredulità e la paura delle persone che in quel momento erano nella casa, sopravvissute a quei colpi sparati a raffica.
Dopo la villetta di Teddy ho percorso in senso contrario la Domiziana e raggiunto Varcaturo, una località costiera nel comune di Giugliano. Ero alla ricerca di una palazzina abitata da immigrati che aveva ospitato tra l’altro alcune delle vittime, dove c’era anche una piccola moschea e per questo motivo era il ritrovo di molti ghanesi di fede musulmana. La casa era chiamata Shaolin House perché negli anni passati aveva accolto tanti immigrati che arrivavano di continuo, e in gran numero, proprio come i monaci Shaolin nei combattimenti dei film di arti marziali. La palazzina era più fatiscente del solito e abitata da molte meno persone. Mi sono fermato a parlare con alcuni di loro. Uno era tornato da poche settimane per rinnovare i documenti e presto sarebbe tornato in Germania, dove si era trasferito da alcuni anni. Un altro era arrivato lì da qualche mese, stava preparando del cibo in una cucina buia e maltenuta. All’interno vi erano altre persone, una di queste era seduta al tavolo e mangiava una zuppa di carne. Non conoscevo nessuno di loro. Dopo essermi presentato, ho chiesto se c’era qualche abitante storico, mi hanno risposto di no, ho fatto allora qualche altra domanda ottenendo solo risposte elusive: nessuno di loro si fidava di un misterioso bianco apparso all’improvviso. Sono andato così sul retro della palazzina dove c’era uno stabile più piccolo adibito a moschea. Mi sono affacciato nella sala di preghiera e ho visto un uomo a torso nudo: era l’imam. Si ricordava di me e mi ha salutato cordialmente. Abbiamo parlato di alcuni amici in comune e del fatto che ora lì abitavano molte meno persone. Gli ho chiesto se avrebbe partecipato alla commemorazione che si sarebbe tenuta la settimana successiva. Mi ha risposto di no. Gli ho domandato come mai non lo riteneva importante. Mi ha detto che per i musulmani c’era un diverso modo di celebrare i morti, ma non mi ha spiegato quale. Ho fatto qualche altra domanda, ma sempre meno convinta, ottenendo risposte via via più vaghe, seguite da lunghi silenzi.
LA STRAGE CONTINUA
Deluso da quei primi incontri, decisi che nei giorni seguenti avrei proseguito il giro a Torre di Pescopagano e a Destra Volturno dove avevo familiarità con più persone, le quali – ne ero certo – sarebbero state più aperte nel confidarmi i loro ricordi e sentimenti. Andai quindi a Pescopagano a trovare Abram e Patricia, una coppia ghanese che conoscevo da oltre dieci anni e che nell’ultimo periodo sentivo regolarmente per informarmi sulle condizioni di salute di Patricia, gravemente ammalata. Appena varcai la soglia di casa, Abram mi raccontò che Patricia aveva avuto dei forti dolori addominali e ogni qualvolta mangiava vomitava. Conoscevo bene la malattia di Patricia per averla accompagnata all’ospedale di Caserta più di una volta e aver visto i referti medici. Poco dopo anche lei mi venne incontro con un volto pieno di sofferenza. Mi spiegò che la dottoressa che la seguiva aveva cambiato la cura, ma il suo corpo, piccolo e magro, non sembrava reagire bene: la pancia si gonfiava, aveva nausea e vomito.
Ascoltai a lungo i loro racconti e poi, prima di salutarli, gli chiesi se il giorno successivo avrebbero voluto accompagnarmi in giro. Mi dissero subito di sì e aggiunsero che avrebbero voluto farmi conoscere delle persone. L’indomani andai a prenderli alle 10 di mattina. Ci fermammo prima da Doris, un’anziana piccola e magra, con un volto serio, gli occhi languidi e spauriti. Aveva il capo coperto da un pezzo di stoffa rossa e blu e alle orecchie portava due cerchi dorati e un piccolo crocifisso. Avevo conosciuto Doris alla parrocchia di San Gaetano Thiene, sapevo che aveva il diabete, una malattia molto diffusa tra gli africani di Castel Volturno, e che si curava male e in modo saltuario. Anche stavolta mi disse che aveva bisogno di aiuto: avrebbe dovuto rinnovare la tessera sanitaria e chiedere una nuova ricetta, ma le era difficile raggiungere l’Asl a piedi. Le chiesi se aveva contattato Emergency che svolge un servizio di assistenza a domicilio, mi disse che non l’aveva fatto e non sapeva chi chiamare. Telefonammo insieme e prenotammo un appuntamento.
Dopo la visita a Doris, ci spostammo a Destra Volturno. Salimmo al primo piano di una palazzina all’apparenza abbandonata. La porta dell’appartamento era aperta, entrammo e vidi un uomo seduto al tavolo da pranzo e una donna minuta stesa su un vecchio divano con addosso delle pesanti coperte di lana. Ci accomodammo intorno al divano, la donna con fatica si tolse le coperte di dosso e si mise a sedere. Aveva il volto coperto di macchie, gli occhi spenti e assenti. Provammo a chiederle come stava, prima io in italiano e in inglese, poi Patricia in ghanese. Capimmo molto poco delle sue risposte, perché parlava poco e in modo confuso. Ci raggiunse un altro uomo che abitava con lei, spiegandoci che stava male da giorni, era stata portata diverse volte al pronto soccorso ma poco dopo riaccompagnata a casa. Le chiedemmo se aveva dei referti e se seguiva una cura. Cercò tra i documenti che conservava sotto il cuscino ma non trovò nulla. Le dissi di cercare con calma che sarei tornato il giorno dopo, ma quando passai di nuovo la trovai nello stesso stato e potei solo starle accanto per qualche ora. Uscii da quella casa con la consapevolezza che non avrei potuto fare molto per quella donna e che la sua fine era vicina.
Risalimmo in auto e, senza dire nulla su quanto avevamo visto, tornammo a Pescopagano dove ci aspettava un’altra visita. Ci fermammo davanti a un altro edificio malridotto, con gli infissi chiusi e arrugginiti, l’intonaco divelto, le tegole spaccate e i fili di ferro a vista. Sembrava anche questo chiuso e disabitato da tempo. Patricia urlò più volte un nome, ma non rispose nessuno; provò allora con il telefono e seppe che la persona che cercavamo era all’interno. Aprimmo il cancello ed entrammo nell’appartamento al piano terra. La cucina fu la prima stanza che vidi, buia e arredata con mobili usurati dal tempo, alcuni senza ante, altri aperti e vuoti. Da una porta usci l’uomo che cercavamo, camminava lentamente e a fatica, la parte sinistra del corpo era offesa e una fascia gli sorreggeva il braccio. Dalla cucina ci spostammo nel soggiorno, illuminato da una luce fioca, con arredi logori disposti in modo disordinato. Seduti intorno a un tavolo di plastica, l’uomo ci raccontò che aveva avuto un ictus e che era tornato a casa da poco tempo dopo un lungo ricovero in un ospedale napoletano. Gli chiesi se stava facendo una terapia di riabilitazione, mi disse di no e mi spiegò che trascorreva il suo tempo in quella casa dove abitava insieme ad altri amici che lo aiutavano con il cibo. Mi sembrò sereno, ma rassegnato a vivere in quella condizione di infermo. Parlammo allora della sua vita, del tempo che aveva trascorso a Castel Volturno e anche della strage: ricordava i nomi di tutte le vittime.
Durante quelle giornate in giro con Abram e Patricia incontrai altre persone, la gran parte di loro povere, malate e abbandonate al proprio destino, con accanto solo qualche connazionale, amico o semplice conoscente, che si prendeva cura di loro, ben consapevole di non poter fare molto per alleviare quel malessere, che non era solo fisico, ma economico e morale. Chissà se la lezione, consapevole o meno, di Abram e Patricia era stata quella di mostrarmi l’indigenza degli immigrati per farmi capire che l’odio e il razzismo che avevano armato i criminali continuavano ad agire in una forma sotterranea ma altrettanto feroce. Davanti a quelle vite perse non c’era bisogno di alcuna parola, non era necessario ricordare il passato, bastavano i loro corpi, malati e sofferenti, a testimoniare che la strage è ancora in corso. (salvatore porcaro)
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