
A black ghetto is the place to study the defects of white society.
(Bernard Marchand)
Alla stazione di Metaponto non arriva né parte nessun treno. Tutte le linee (quella per Taranto, quella per Napoli e quella per Reggio Calabria) per un motivo o per l’altro non sono in funzione, sostituite provvisoriamente (o forse per sempre) da autobus. Eppure la stazione di Metaponto continua a essere il centro nevralgico intorno al quale si sviluppa questo borgo di case costruite in tempi relativamente recenti, prodotto dalla bonifica e dalla riforma.
È al bar della stazione che mi dà appuntamento Pino Passarelli. Con il suo strabordante spirito di iniziativa, Pino, un uomo intorno alla sessantina, è l’anima di Migranti Tutti. L’associazione nasce perché un giorno di alcuni anni fa Maria, titolare di un internet point a Metaponto, lo chiama al telefono. I suoi clienti sono ormai quasi solo migranti: egiziani, tunisini, gambiani, sudanesi, eritrei, senegalesi, camerunesi, bengalesi, pakistani… Alcuni appena sbarcati, in generale tutti un po’ inguaiati, come dice Pino, ovvero poveri, precari, sfruttati. Pino sta tranquillo seduto su una panchina a leggere il giornale quando Maria lo chiama (o almeno così lui la racconta): dopo una vita spesa per cause sociali, nel nome dell’amore per la sua terra, a quell’epoca aveva ormai rinunciato a ogni lotta. Eppure quel giorno la telefonata di Maria riesce a smuoverlo: “Pino, questi ragazzi hanno bisogno che qualcuno gli insegni l’italiano… ma non ci sono corsi di italiano per loro?”.
Come tanti paesi in Basilicata, Metaponto si sta spopolando. Le poche speranze nel turismo estivo, del tutto ragionevoli vista la vicinanza al mare, sono state distrutte dalla costruzione del porto di Pisticci: le correnti marine sono state deviate, e hanno iniziato a mangiarsi poco a poco la spiaggia di Metaponto. Questo borgo è così diventato uno dei pochi centri sulla costa jonica senza vocazione al turismo balneare. Oggi chi affitta una casa a Metaponto ha praticamente un solo bacino di utenza: gli immigrati, la maggior parte dei quali lavora in agricoltura. In questo piccolo centro abitato soggetto a spopolamento e praticamente sprovvisto di negozi, ci sono oggi ben due mini-market di prodotti africani e asiatici.
La costruzione del porto di Pisticci non è l’unica sventura di Metaponto. È a pochi chilometri dal paese che sorge il complesso industriale della Felandina, costruito tra il 2003 e il 2008 e mai utilizzato: una gigantesca truffa ai danni dello stato per un valore di quindici milioni di euro. Costruiti su settanta ettari di terreno ancora oggi sotto sequestro, negli ultimi anni i capannoni vuoti sono diventati dimora di alcune centinaia di immigrati – la maggior parte dei quali braccianti agricoli – fino al loro sgombero, nel 2019, in seguito a un incendio nel quale una donna nigeriana perse la vita.
Un’altra ragione dietro alla decadenza così vistosa di questo territorio sta nella carenza di una vera e propria amministrazione locale: Metaponto, infatti, non è un comune a sé stante, bensì una frazione di Bernalda. Dai racconti di Pino pare di capire che ai sindaci di Bernalda importi ben poco delle sorti di Metaponto. Per quanto riguarda la presenza dei migranti, in particolare, si comportano tutti allo stesso modo: «Vanno bene per lavorare, principalmente in agricoltura, ma poi devono rendersi invisibili». Pino illustra la sua affermazione con un racconto eloquente: «Una quindicina di anni fa il professor La Guardia, dell’Università L’Orientale di Napoli, aveva individuato un edificio proprio qui di fianco alla stazione, una vecchia scuola ormai abbandonata, come sede ideale per un progetto denominato la Casa del Migrante, destinata a ospitare attività per migranti, residenti, docenti universitari. Non un euro a carico del Comune. La risposta del sindaco fu quella di farla murare».
La storia della Casa del Migrante mai realizzata è la seconda che Pino mi racconta dopo quella dell’ex dormitorio per ferrovieri, anch’esso abbandonato, identificato da Pino come una struttura perfetta per ospitare quei pochi migranti (una cinquantina) che tuttora dormono in edifici abbandonati fatiscenti nei paraggi dopo essere stati sgomberati dalla Felandina. Migranti Tutti ha anche individuato validi partner per il progetto, come l’associazione Universitari Costruttori: fondata nel 1966 da un parroco e un gruppo di studenti di Padova, l’associazione offre manodopera volontaria e gratuita per lavori di ristrutturazione a quegli enti che operano nel sociale che non hanno le capacità economiche per sostenere tali interventi. In altre parole Pino aveva già trovato manodopera gratuita per rimettere a posto il vecchio dormitorio abbandonato e coinvolto anche gli scout di Bernalda e la Caritas Diocesana, che aveva dato la disponibilità per la richiesta dell’immobile; all’ora dei fatti, tuttavia, la Caritas si è defilata e a oggi l’ex dormitorio è ancora murato.
In assenza di risposte istituzionali al loro problema abitativo, gli sgomberati della Felandina vivono oggi sparsi qua e là, nelle strutture abbandonate che abbondano nei paraggi: nell’ex palazzetto dello sport, nell’ex vivaio della Forestale, alcuni sotto a un cavalcavia. Prima, in momenti diversi, sono stati nell’ex falegnameria e nelle villette destinate ai turisti, la cui costruzione non è mai stata completata. Il tour che mi fa fare Pino in macchina è una carrellata su una lunga serie di porte e finestre murate. “Sgomberare e murare” è l’unica risposta che i sindaci e i prefetti hanno saputo dare negli ultimi trent’anni, con poche eccezioni¹. Le villette turistiche, per esempio, sono state murate tre volte negli ultimi due anni, ma il sindaco e il prefetto si vantano del fatto che non c’è stato nessuno sgombero. In effetti, si è trattato di uno sgombero per il quale non è stata firmata nessuna ordinanza, visto che chi aveva occupato quelle case era così ‘nguaiato che è stato sufficiente che si alternassero le forze dell’ordine (vigili urbani, polizia e carabinieri) intimando di lasciare quegli edifici. Per chi si trova in posizione di subalternità, è chiaro che allontanarsi spontaneamente è preferibile che correre il rischio di una denuncia, che potrebbe avere conseguenze negative sul rinnovo del permesso di soggiorno.
Non tutti sono così ‘nguaiati, per fortuna. «La maggior parte di loro un po’ di soldi ce li ha: lavorano. La maggior parte può pagare un affitto qui in paese, molti prendono la patente appena possono. Il problema è che diversi proprietari gli fanno gli affitti in nero, e cosi devono pagare altri per fare delle residenze fittizie, perché senza residenza non possono rinnovare il permesso di soggiorno. Quanta gente ci mangia su di loro, non se ne ha idea…».
La pessima amministrazione pubblica non si manifesta solo nella gestione del problema dei senza tetto a base di murature. Mentre passiamo in macchina Pino mi mostra un capannone industriale di mattoni scalcinati, costruito dall’Ente Sviluppo negli anni Cinquanta per la lavorazione dei prodotti agricoli. Chiuso tra l’85 e l’86, qualche anno dopo una cooperativa di produttori, confluita successivamente in una tra le più grandi organizzazioni di produttori locali, Apofruit, chiese di utilizzarlo. Gli venne risposto di no. «Quelli andarono a Castellaneta, dove c’era un altro capannone abbandonato. Il sindaco di Castellaneta ovviamente gli disse di sì; anzi gli disse proprio “non dovete pagare niente, basta che assumete cinquanta persone del posto”. Oggi Apofruit si è ingrandito e ha trovato strutture più adatte a Scanzano Jonico. Ci lavorano centocinquanta persone, molte proprio da Metaponto. Ma qui è tutto così: Metaponto negli anni Settanta era l’avanguardia nella lavorazione della fragola, ora tutto l’indotto si è spostato a Policoro. Siamo poveri, e quello che abbiamo lo boicottiamo. Credimi, qui il problema non sono i caporali».
Con la macchina ripassiamo ancora una volta davanti ai capannoni sotto sequestro della Felandina. «Anche qui, per dire – continua Pino –, questi hanno fatto una truffa, no? Una truffa da quindici milioni di euro. Se tu sei un amministratore locale, ci vuole tanto a dire a un industriale “vieni qui, puoi usare i capannoni gratis per tot anni, in cambio però devi assumere un po’ di gente del paese?” Qui ci dovevano lavorare seicento operai. L’unica volta che ci sono stati seicento persone in questi capannoni, è stato quando c’erano i braccianti africani».
Dopo la telefonata di Maria, è nata l’associazione Migranti Tutti, che ha sede in un garage in paese. L’associazione si dedica, tra le varie cose, a fare da tramite per le iscrizioni ai corsi di italiano per adulti del Provveditorato all’istruzione e distribuire alimenti ai braccianti più ‘nguaiati. Pino, Maria, insieme a pochi altri in paese, risolvono magagne varie che si presentano di giorno in giorno e immaginano futuri possibili e paesaggi meno distopici di quelli attuali, in cui gli edifici cadenti stinti dal sole possano essere la casa di chi lavora nei campi e dà vita al borgo altrimenti spopolato.
Ci volevano le menti di due abitanti del paese per rendersi conto che bisognava indirizzare gli immigrati ai corsi serali pubblici del Provveditorato? Nessuno di loro si dedica al sociale per lavoro. Pino fa il guardiano notturno in un villaggio nei mesi estivi, e da gennaio a maggio, quando ci sono le fragole, fa il carrellista in un magazzino ortofrutticolo. Con l’avvento degli smartphone Maria ha riconvertito l’internet point a un servizio di fotocopie con un unico computer per l’accesso a internet, e integrato l’attività con una serie di distributori di cibo e bevande h24. La maggior parte dei suoi clienti sono i braccianti agricoli immigrati, specialmente al pomeriggio, a cui si aggiungono gli adolescenti del paese, soprattutto la sera. Le signore del paese preferiscono andare a prendere il caffè da un’altra parte, mi racconta, ma i loro figli adolescenti vengono da lei la sera a bere birre e fumare. Uno degli immigrati che lei ha aiutato è sparito per un po’ ed è da poco ritornato. «Prima stava bene – mi racconta –, ma dopo che è tornato… deve essere stato in un CIE o qualcosa del genere… era impazzito. Parlava da solo, sputava tutto il tempo. Finché mi ha spaccato un vetro. Ora io mi ritrovo con una vetrina spaccata. Sono dovute venire cinque macchine dei carabinieri, talmente ero incazzata…». (cecilia vergnano)
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¹ Pino ci tiene a riscattare la figura del penultimo prefetto di Matera, che si è distinto dagli altri per uno sgombero effettuato solo in presenza di una soluzione abitativa alternativa, a costo di lasciare gli edifici occupati anche durante la stagione estiva. In questo senso, il suo operato si distingue da quello degli altri prefetti che tendono a sgomberare principalmente in primavera nel nome del “decoro” con cui il paese si deve mostrare ai villeggianti durante l’estate.