«Made in Italy? Shame in Italy!». È l’urlo che sabato 26 ottobre si è alzato davanti ai negozi Montblanc di dodici città: Firenze, Milano, Napoli, Roma, Bologna, Torino, Verona, Ginevra, Basilea, Zurigo, Berlino, Lione. Una convergenza europea a cui hanno partecipato sindacati, associazioni, partiti e abitanti dei territori, lanciata dall’assemblea territoriale di Prato e Firenze del sindacato Sudd Cobas per denunciare “le condizioni di sfruttamento all’interno delle filiere dei grandi brand del lusso”. A Firenze, già il giorno precedente, il sindacato aveva indetto uno sciopero generale e gli operai di oltre quaranta aziende erano confluiti nelle vie del lusso cittadino, con un corteo improvvisato dalla stazione. Un fiume di gilet gialli e arancioni con la scritta 8×5 ha attraversato la città e, arrivati davanti al negozio, hanno montato tende e gazebo. Uno dei lavoratori in sciopero mi ha indicato una borsa esposta in vetrina, poi mi ha mostrato video e fotografie di quando lavorava a quello stesso modello e mi ha raccontato le condizioni di lavoro in cui è rimasto per anni. Quella borsa è simbolo di sfruttamento.
La campagna Shame in Italy lanciata dal sindacato vuole mostrare quello che c’è dietro al Made in Italy e al suo immaginario mistificante. Siamo stati abituati, infatti, a pensare lo sfruttamento solo nella fast fashion e in luoghi lontani. Il Sudd Cobas negli ultimi sei anni ha portato avanti decine di scioperi e intercettato centinaia di operai, constatando come non importi chi sia il committente, la logica è la stessa: lucrare fin dove è possibile, anche a costo di uno sfruttamento disumanizzante. Nel distretto tessile-abbigliamento migliaia di aziende producono per committenze da tutta Europa: dai venditori dei mercati alle grandi catene di negozi, passando per i brand del lusso, le condizioni di lavoro sono le stesse. Migliaia di operai provenienti dalla Cina, dal Pakistan, dal Bangladesh e dal Nord Africa sono costretti a turni di dodici ore al giorno, per sei o sette giorni a settimana, senza malattia o ferie, con paghe orarie degradanti.
Gli operai di Z Production ed Eurotaglio (due aziende che appartengono allo stesso proprietario e sono all’interno dello stesso stabilimento), per anni hanno lavorato alle borse di Montblanc, per oltre settanta ore settimanali a due-tre euro l’ora. Ma l’intero sistema moda è così strutturato. I brand non producono le merci che vendono, o lo fanno solamente in minima parte: si rivolgono a dei fornitori, generalmente aziende di buona reputazione, a cui impongono prezzi e tempi insostenibili. A loro volta, i fornitori si rivolgono a dei sub-fornitori, alimentando una discesa a cascata fino all’ultimo livello, dove le condizioni di lavoro sono prive di dignità. Un sistema che permette ai brand di non sporcarsi le mani: quegli operai non sono loro dipendenti e la colpa ricade sui fornitori, che anzi aggirerebbero i codici di condotta imposti dal brand. In tal modo, chi più di tutti ricava profitto dallo sfruttamento ne esce pulito, se non addirittura vittima (sta a chi denuncia, l’onere di dimostrare che il brand era a conoscenza dello sfruttamento).
Questa retorica trova sponda in una legislazione deficitaria: nella moda non si parla formalmente di appalti, ma di lavoro per conto-terzi. Mentre nella logistica il sistema degli appalti, per quanto infernale, prevede delle tutele per i lavoratori (la cui applicazione ha richiesto negli ultimi anni continue lotte), nel caso del lavoro per conto-terzi queste sono meno certe: i brand si comportano come clienti che, se non soddisfatti del prodotto, possono agilmente spostare le proprie commesse verso un’altra azienda, senza interessarsi dei destini dei lavoratori. È ciò che Montblanc ha fatto con lo stabilimento di Z Production ed Eurotaglio, dopo che a febbraio 2023 i lavoratori iscritti al Sudd Cobas avevano ottenuto l’applicazione del contratto nazionale di settore. A quel punto ciò che producevano non era più di interesse del brand, nonostante la professionalità raggiunta negli anni di lavoro. A poche settimane dall’accordo sindacale, però, il gruppo Richemont, a cui Montblanc appartiene, ha annunciato la revoca delle commesse, senza sentire la necessità di dare spiegazioni, che appaiono in ogni caso chiare: con la vittoria sindacale, il lavoro regolare ha fatto aumentare i costi di produzione delle borse, da settanta a cento euro per pezzo (borse che vengono vendute in negozio a prezzi esorbitanti, intorno ai mille e cinquecento euro). Il fondo finanziario, che ha registrato due miliardi di utili nel 2023, ha ritenuto di non potersi permettere i il costo della legalità, optando per spostare la produzione là dove il sindacato non è presente e lo sfruttamento è ancora possibile. Solo tra Prato e Firenze d’altronde ci sono centinaia di aziende che possono rispondere a questa domanda. Eppure, agli occhi dei consumatori, la produzione in Toscana è ancora garanzia di qualità e diritti.
Z Production ed Eurotaglio lavoravano in mono-committenza per Montblanc e la perdita delle commesse le ha spinte verso la chiusura. A marzo i lavoratori sono entrati in cassa integrazione per due mesi; poi, con la mediazione della regione Toscana, hanno firmato un contratto di solidarietà, con cui per alcuni mesi gli è stato garantito lo stipendio, pagato per il 90% dalla regione e per il 10% dalle aziende (un pagamento quest’ultimo mai automatico e puntuale). I lavoratori erano disposti a utilizzare questo tempo per ore di formazione, così da essere pronti a nuovi tipi di lavoro da fare in azienda, ma il proprietario non è sembrato interessato. Così come non è sembrato interessato a rinnovare il contratto di solidarietà, scaduto il 19 settembre: il suo obiettivo è evidentemente quello di liberarsi della presenza dei lavoratori sindacalizzati e tornare a un regime di sfruttamento. Sta cercando, così, di sfiancare gli operai consegnando buste paga in cui risultano zero ore e a cui, quindi, non corrisponde alcun pagamento. Un’irregolarità, in quanto gli operai sono disponibili al lavoro ed è il capo a non volerli richiamare: una situazione in cui la legge prevede la piena retribuzione.
Il tavolo con l’unità di crisi della regione Toscana è intanto aperto da un anno e mezzo, ma la Regione non ha ancora convocato chi davvero potrebbe risolvere la situazione, avendola determinata: il gruppo Richemont. In generale, le istituzioni sono sempre remissive e benevole verso i brand: portano ricchezza e lavoro, non importa a chi e a quali condizioni. Dopo mesi di mobilitazioni, Richemont ha rilasciato a Reuters una dichiarazione in cui spiega che la revoca delle commesse è motivata dal mancato rispetto dei codici etici del gruppo. I lavoratori hanno per questo consegnato una lettera al presidente della regione Eugenio Giani, in cui si legge: “In fabbrica insieme a noi, c’era un uomo di Richemont a supervisionare il lavoro, e ogni sera, quando se ne andava a casa, ci lasciava in fabbrica. La mattina dopo, quando tornava, nuove centinaia di borse erano apparse sui tavoli e nelle scatole. L’uomo di Richemont, che decide a marzo 2023 di revocare le commesse, deve aver pensato ogni giorno, per tutti gli anni precedenti, che durante la notte alla Z Production e alla Eurotaglio succedevano incredibili magie”.
Per il sindacato questa situazione comporta un pericoloso precedente: i risultati di una vittoria sindacale sono stati annullati dallo strapotere di Richemont. Il Sudd Cobas rivendica la necessità di una clausola sociale, che obblighi i brand a mantenere il posto di lavoro e i diritti acquisiti dagli operai nel momento in cui decidono di spostare le commesse, come avviene negli appalti della logistica. Una sfida difficile e al tempo stesso fondamentale. Se perdono, i brand continueranno a imporre le condizioni che vogliono, sicuri che nessuno farà nulla. Se vincono, invece, compiono un allargamento importante negli orizzonti di ciò che è sindacalizzabile. Un passo ulteriore in un percorso iniziato sei anni fa e che negli ultimi mesi avanza veloce, grazie alla forza accumulata: solo un mese fa, con lo Strike day, il sindacato aveva mostrato di poter entrare e vincere anche nei capannoni dei piccoli pronto-moda a conduzione cinese, aziende con solo una manciata di lavoratori. Vincere anche contro Montblanc vorrebbe dire dimostrare di poter stare nelle filiere produttive a ogni livello.
Ma come colpire un brand, se può facilmente e velocemente spostare la produzione? Colpendo ciò che non fa produrre ad altri, ciò che davvero il brand crea: ovvero il marchio stesso, la sua immagine. La campagna Shame in Italy vuole fare esattamente questo: la stella di Montblanc deve diventare un simbolo di sfruttamento. Il momento in effetti è propizio: lo sfruttamento nelle filiere del lusso comincia ad essere sotto i riflettori. A Milano i pm Storari e Bollone hanno cominciato a indagare su questo sistema e a porre sotto amministrazione giudiziaria per un anno società dell’alta moda: Alviero Martini, Armani, Dior, ed è possibile che ne seguano altre nei prossimi mesi. Le aziende sono state giudicate incapaci di prevenire e arginare fenomeni di sfruttamento lavorativo nell’ambito del ciclo produttivo, per cui l’amministrazione giudiziaria deve servire a “sanare” la filiera. Non è chiaro, tuttavia, cosa accadrà ai lavoratori lungamente sfruttati delle ditte in appalto. Ci si limiterà a tagliare i rapporti con le aziende ritenute irregolari, o si spingerà verso una loro regolarizzazione? Questo è il punto che il Sudd Cobas solleva. Negli ultimi due mesi ci sono stati picchetti davanti al negozio, alle aziende fornitrici, alla pelletteria Richemont, un talk pubblico davanti ai cancelli delle aziende. Il sindacato è andato a Ginevra a manifestare sotto la lussuosissima sede centrale: uno shock per il fondo finanziario, non abituato a essere contestato e di certo non da quegli operai razzializzati che sfrutta e che vede solo come numeri. La polizia è intervenuta duramente e velocemente. Ma una grande solidarietà è giunta dai sindacati svizzeri, e i media anche internazionali hanno cominciato a mostrare interesse. Questo ha permesso di tessere legami e costruire l’importante giornata di convergenza europea del 26 ottobre.
La campagna prosegue, la strada è lunga e gli operai senza stipendio hanno bisogno di un sostegno concreto (è attivo un crowdfunding sulle pagine social Sudd Cobas Prato e Firenze). Ma non sono soli: possono contare sul sostegno di una comunità di centinaia di lavoratori che in questi anni hanno già ottenuto con gli scioperi i propri diritti e che sono consapevoli dell’importanza di questa lotta per tutto il sistema moda. (marco ravasio)