
La vicenda è nota; forse meno per chi è sotto i trent’anni. Il 23 novembre 1993 il tredicenne Giuseppe Di Matteo viene sequestrato da sgherri di Cosa Nostra mentre si trova in un maneggio di Altofonte, vicino Palermo, su ordine di Giovanni Brusca, boss di San Giuseppe Jato allora latitante. Il padre Santino – ex affiliato alla cosca di Totó Riina – si era pentito dopo il suo arresto. Giuseppe fu rapito per costringerlo al silenzio, ma non servì a niente: il padre continuò a collaborare con la giustizia. Dopo 779 giorni di prigionia, quasi al compimento del quindicesimo anno di età, l’11 gennaio 1996, Giuseppe venne strangolato e il suo corpo disciolto nell’acido nitrico. Cosa avrà sentito e pensato durante quei due anni lontano da tutto e tutti?
Sicilian Ghost Story (2017, 122’) di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza prova a rispondere (anche) a questa domanda, e lo fa trascendendo la cronaca attraverso l’aggiunta del personaggio di Luna alla triste parabola di Giuseppe, per provare a riscattare l’oscenità di un crimine arduo da figurarsi. Ispirati dal racconto di Marco Mancassola, che con il libro Non saremo confusi per sempre tenta di restituire dignità a cinque vittime di fatti di cronaca italiani aggiungendo alle loro storie elementi fantastici, gli autori continuano la ricerca formale e di contenuti iniziata con il lungometraggio Salvo (2013, 110’), una lenta ruminazione su un assassino di mafia che scopre quel che in lui resta di umano. Anche questa ghost story siciliana affonda nelle pieghe di esistenze costrette a svelarsi e a svelare il contesto che le circonda sulla spinta di eventi su cui hanno scarso controllo, e lo fa mescolando concretezza del dettaglio e trasfigurazione magica.
È un’opera commovente, che si sarebbe potuta impantanare nei cliché della memoria e che invece racconta un ambiente, dei codici e un trauma individuale e collettivo in modo non scontato, mantenendo la coerenza complessiva attorno al perno dei mondi interiori dei due pre-adolescenti Luna e Giuseppe, strappati al loro amore primigenio da forze più grandi che li avvinghiano e li opprimono (la cupa prassi mafiosa, la grettezza degli adulti, le aporie borghesi). Il loro rapporto si consolida all’inizio del film, poco prima del rapimento che li trasformerà in fantasmi l’uno per l’altra, condannati a una ricerca reciproca perenne, che solo nel sogno potrà risolversi.
Il film è un’esperienza stratificata, salutarmente lontana dall’orazione civile, in cui il fiabesco interagisce con la precisione dei fatti e con la conoscenza del contesto. Il realismo è evitato, anche nelle performance attoriali, a tratti marcate e artificiose. Il vero è piuttosto sensoriale e materico, accentuato da audaci scelte formali di cui gli autori si servono per scandagliare sentimenti di solito difficili da maneggiare senza cadere nel pietismo o nella retorica. Grassadonia e Piazza, invece, non ci fanno impietosire. Seguendo passo passo i protagonisti – letteralmente, spesso vediamo i piedi in cammino di Luna e quelli martoriati di Giuseppe prigioniero – ne percepiamo le emozioni in maniera quasi epidermica, mentre queste sono ignorate dalle famiglie e dal paese. Il rapimento mafioso di Giuseppe, infatti, non scalfisce la superficie del luogo, che cospira per mantenere la questione nell’ambito del privato, mentre Luna chiede conto della loro inerzia ai paesani ammutoliti.
La bruttezza che la realtà trasuda è filtrata attraverso i simboli naturali che popolano i paesaggi atipici della Sicilia illuminata da questa storia. La civetta, la foresta, il lago, i cavalli sono presenze che danno sostanza, e si accordano alla dimensione onirica della ricerca di Luna, rimandando ad ancoraggi di senso metafisici, e che sono a volte un balsamo che aiuta a sopportare con la mitologia l’insensatezza della violenza fisica e psicologica. Sulla scia di un realismo magico siciliano meno cupo e cinico di Ciprí e Maresco, e meno grottesco di Roberta Torre, Grassadonia e Piazza bilanciano narrazione e sensazione, osando un linguaggio che rompe i confini dei generi per andare oltre la mera denuncia o l’esercizio di memoria. Alla fine, solo l’amore ideale tra Luna e Giuseppe non viene battuto, diventando una storia di proporzioni cosmiche.
Il film non consola e non deprime, soprattutto non sciorina giudizi e neppure invita all’azione. Questo resistere all’oblio dell’altro cui assistiamo non conduce alla salvezza, è solo un bisogno insopprimibile e un gesto ovvio per una ragazzina innamorata. Eppure, rappresentare la caparbietà di Luna è forse un modo per riparare, almeno metaforicamente, la coscienza di una società – quella siciliana ma anche italiana – mostrandone crepe, silenzi, ma anche possibili slanci di empatia, attraverso una prospettiva visionaria che possa condurre verso il superamento di traumi indicibili. Come è quello di un ragazzino recluso per due anni e poi sciolto nell’acido. (salvatore de rosa)
Sicilian Ghost Story è stato proiettato al festival CPH PIX di Copenhagen, che dal 2009 porta il cinema di finzione da tutto il mondo nella capitale danese.