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recensioni
21 Maggio 2021

“Sopravvivere all’America”. Nomadland racconta i nuovi Hobo

Luigi Romano
(disegno di resli)

Qualcosa si spezza nella vita di Fern quando la città scompare e si dissolve con la fine della miniera, quando quella storia di fatica travolge anche suo marito. Non hanno avuto figli con Bo, è una donna di mezz’età e deve impacchettare tutta una vita con la povertà che improvvisamente si abbatte su di lei e su quel ciclo di storie cresciute ai piedi del giacimento di Empire. Anche se fuori le vite scorrono frenetiche nelle metropoli, il tempo dentro di lei procede con ritmi diversi. Raccoglie le cose più importanti per mettersi in viaggio e prendere distanza dagli schemi che ordinano la vita di tutti. L’unico legame con la “terra ferma” è il lavoro: come stagionale nelle catene di montaggio di Amazon a chiudere pacchi, a pulire i cessi di un campeggio, a lavorare nelle industrie di ortaggi. Lavoro precario e sfruttato, ma è quello che le permette di avere una riserva per la lunga traversata.

La regista di Nomadland, Chloè Zhao, attraverso gli occhi di Fern, offre uno spaccato delle miserie che si stringono intorno alla gola di chi sopravvive. Qualcuno la rincontra dopo tempo e le mostra un certo pietismo, ma Fern con la dignità nello sguardo e la delicatezza nelle parole fa capire che non ci sono soluzioni e anche se trasporta un vuoto ingombrante è serena. «No, non sono una senza tetto, sono una senza casa. È diverso, giusto?». Ha soltanto bisogno di allontanarsi.

Sembra un viaggio solitario e individuale, invece, sulle strade che percorre con il suo furgone dal Nebraska all’Arizona, incontra altri che come lei si trovano senza punti fermi. La sua scelta la accomuna a una collettività estesa, meticcia, di uomini e donne che si sono ritrovati ai margini. Un’intera generazione espulsa dai meccanismi del lavoro. Ognuno per motivi diversi ha deciso di dissociarsi coscientemente dall’esistente. Quella comunità, che si riunisce come i gruppi di autocoscienza intorno al fuoco, è raccontata in modo grottesco, ma la narrazione sottile colpisce l’illusione dello sviluppo progressivo del sistema economico. “Sopravvivere all’America del ventunesimo secolo”, sembra l’unica risposta al disordine.

I dialoghi sono brevi negli spazi “chiusi”, le inquadrature delle distese enormi rendono l’idea di un viaggio eroico. Le coste occidentali dell’America, la natura indomita dei fiumi e del deserto accompagnano Fern. Lei è consapevole delle difficoltà ma deve perdersi e prendersi il suo tempo. Nel percorso stringerà dei legami, che ritroverà poi lungo la strada, delle “guide” con cui scambierà riflessioni intime: «Mio padre diceva: ciò che viene ricordato vive. Forse ho passato troppo tempo della mia vita solo a ricordare», mentre attende il bucato di una lavanderia a gettoni o rivernicia un furgone. Ogni saluto potrebbe essere l’ultimo e a volte è così, ma i nomadi si ripetono: «Ci rivedremo sulla strada».

Sembra aver trovato un equilibrio in questa dimensione, slegata dalla gravità che attrae ognuno di noi verso le certezze del “tetto” e delle relazioni familiari. Ogni tentativo di rallentare il viaggio diventa frustrante perché l’intimità delle relazioni riesce a sentirla solo quando è in movimento.

La vicenda raccontata da Zhao si ispira e si interseca con una questione sociale ormai diventata pesante per gli Stati Uniti, documentata dalla giornalista Jessica Bruder con un articolo su Harper’s Magazine, poi diventato un libro da poco tradotto in Italia, Nomadland. Un racconto d’inchiesta (Edizioni Clichy, 2020). Anche se il film restituisce soltanto alcuni tratti della complessità del nuovo nomadismo americano, si scorge ai margini della storia principale un mondo quasi distopico, di milioni di persone che non riescono più a vivere della sola pensione, che sono in affanno per tutto e non hanno altro se non il proprio van. Vite “normali”, ex programmatori di software, impiegati, tassisti, operaie, all’improvviso deragliate in uno dei paesi più ricchi dell’Occidente.

“Rami o vertebre sorreggono / case pazientemente costruite / ogni giorno navi marcite nel gorgo del tempo si perdono”, scriveva Michele Sovente, evocando la voragine generata dentro e fuori di noi dalle fratture del tempo. A questo vuoto tenta di rispondere il nomadismo di Fern, con il coraggio di chi cerca una deviazione della storia, attraverso altre rotte, riannodando i fili, seguendo altri orizzonti. (luigi romano)

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