
Nel venticinquennale delle Olimpiadi di Barcellona, l’autrice – membro dell’Osservatorio di antropologia del conflitto urbano – evoca l’origine della candidatura olimpica, valutando l’impatto dei Giochi in altre città, e il recente rifiuto di Roma e Barcellona di essere di nuovo anfitrione di un evento così controverso. Per discutere ancora di Barcellona e di trasformazioni urbane controverse, domani e dopodomani verrà presentato a Napoli La città orizzontale. Etnografia di un quartiere ribelle di Barcellona, l’ultima uscita delle edizioni Monitor.
da: www.directa.cat
Lo scorso 15 marzo la commissione del consiglio comunale di Barcellona ha confermato che la città non ospiterà i Giochi olimpici invernali del 2026. Non è stata scartata la possibilità di ripensarci in futuro: la possibilità di trasformare di nuovo Barcellona in una città olimpica, come nel 1992, rimane aperta. Per adesso, in ogni caso, il rifiuto è una nuova prova di quanto sia sempre più diffusa la coscienza, sia tra i cittadini che tra le città, le regioni, i gruppi politici e addirittura gli stati, che essere anfitrioni delle Olimpiadi non vale la pena.
Senza andare troppo lontano: la sindaca di Roma Virginia Raggi, lo scorso settembre, ha dato il suo no definitivo alla celebrazione delle Olimpiadi del 2024 nella capitale italiana. La ragione della decisione, molto discussa, sono stati i tredici miliardi di euro ancora non finiti di pagare dei prestiti necessari alla celebrazione dei Giochi passati, quelli del 1960. L’anno scorso, a Rio de Janeiro, anche se alla fine il grande evento è stato celebrato, alcune ore prima che la torcia olimpica entrasse nello stadio Maracanà, la città è stata scenario di grandi manifestazioni di protesta contro il collasso sociale del paese. Venticinque anni fa la Barcellona del 1992 non poteva immaginare (o forse sì?) quali disastri avrebbe riservato ai barcellonesi la candidatura olimpica: disastri dei quali solo adesso ci stiamo rendendo conto, e che hanno comportato riscatti economici e tagli ai diritti sociali. Al contrario, le notizie sul successo internazionale dell’operazione Barcellona ’92 sono arrivate così lontano da risultare interessanti per gli stessi abitanti della città.
Sappiamo anche che quella Olimpiade, che aveva l’obiettivo di offrire un’immagine di modernizzazione e favorire la promozione internazionale della città, ha dato origine a una forte speculazione urbanistica e finanziaria, e a un rafforzato controllo sociale, ora simbolico ora poliziesco. Per convertire l’antica città industriale nell’attuale sede turistico-commerciale internazionalmente riconosciuta, è stato necessario consegnarla a un’intensa attività urbanistica, iniziata anni prima dell’inaugurazione ufficiale dei Giochi. Essa ha avuto inizio sin da quando l’ex sindaco Narcís Serra e l’architetto Oriol Bohigas flirtarono con l’allora presidente del Comitato Olimpico internazionale, Joan Samaranch, sulla possibilità di candidare la città alle Olimpiadi. L’evento sarebbe stato un pretesto per la grande trasformazione che avevano in mente, un’operazione di rammendo delle parti che presentavano le peggiori cuciture. Grazie a questi intrecci, la riforma urbana avrebbe trovato le risorse necessarie per mettersi in moto. In seguito, con l’elezione a sindaco di Pasqual Maragall, il progetto elaborato da Serra e sostenuto dal Comitato olimpico internazionale è cresciuto con maggior forza, fino alla sua perpetuazione. Da allora, Barcellona sarà conosciuta e riconosciuta soprattutto per il suo valore urbanistico e architettonico, grandi motori della promozione economica, culturale e internazionale della città. Divisa in progetti, Barcellona è stata divisa tra vari architetti, che avevano il compito di creare un’immagine abbastanza seducente da poter poi essere sfruttata a dovere.
Basta osservare l’anello olimpico: Bofill, Calatrava, Miyawaki, Arata, Isozaki, ecc., sono state le archistar che hanno immaginato il grande spiazzo che oggi si riempie solo quando ci sono concerti o gare. Il resto del tempo la percorrono quattro turisti sperduti che cercano il famoso giardino botanico. O l’attuale Nova Icària, un nome che nasconde il cinismo di un intervento che ha spezzato alla radice tutta la vita degli antichi quartieri industriali. Stavolta la torta se la sono spartita gli architetti che avevano già vinto un premio FAD. Vilaplana, Piñón, Siza, Correa, Bofill e Miralles, tra gli altri, sono stati scelti per portare a termine un intervento che implicava l’espulsione di tutto ciò che – o di tutti coloro che – non fossero pertinenti in uno “spazio pubblico di qualità”. Oggi sappiamo che la Vila Olímpica e Nova Icària sono degli anti-quartiere, luoghi di transito dove ciò che è veramente urbano non trova nessuno stimolo per svilupparsi.
E cosa possiamo dire dell’area olimpica della Vall d’Hebron, anch’essa composta di progetti di architetti riconosciuti, come il duo Espinet/Ubach, Tusquets, Ferrater, Sunyer, Miralles e Pinós. Questi ultimi, a cui in pieno anno olimpico il Comune consegnò il Premio di Architettura Città di Barcellona, sono responsabili della sorte dell’antico stabilimento di tiro dell’arco (1991), un complesso creativo, bello e singolare, in cemento con lampioni, che si trova attualmente smontato e ammucchiato tra i rovi, accanto agli stabilimenti sportivi.
Non sono una novità, le grandi rigenerazioni urbane delle città che aspirano a candidarsi ai Giochi Olimpici. Non lo è neanche che le trasformazioni urbanistiche, lo stimolo dello sport o la crescita del turismo vengano superate dalla preoccupazione per il prezzo da pagare e per l’uso futuro che si farà delle grandi infrastrutture. Pochi mesi dopo l’evento, alcuni degli impianti dei Giochi di Rio sono già abbandonati, e lo stesso è avvenuto a Sotxi nel 2014, ad Atene nel 2004 o a Sarajevo nel 1984, dove esistono delle vere e proprie rovine olimpiche. Uno studio dell’Università di Oxford, pubblicato a luglio scorso, sostiene che i Giochi di Barcellona sono costati il 266% in più del previsto, e li segnala come i terzi più dispendiosi in tutta la storia olimpica.
Il prossimo luglio si festeggeranno le nozze d’argento del suicidio finanziario e sociale a cui si è sottoposta Barcellona per arrivare ai Giochi del ’92. Evidentemente, non c’è niente da celebrare. È stata solo una grande illusione, per creare spazi pubblici “di qualità” – non meno illusori – che sono diventati, oggi, degli spazi morti. (dolors garcía torra, traduzione di stefano portelli)