La spiaggia di largo Sermoneta, che si estende su uno degli ultimi tratti di costa di Mergellina, è piccola e affollata. La sua conformazione a imbuto permette alle persone di occupare lo spazio quasi per tutta la sua lunghezza, ma solo nei pressi della riva, in larghezza. Da un lato è delimitata da un muretto dove i ragazzini, come atleti olimpici, si cimentano in gare di tuffi. Dall’altro è chiusa da una lunga scogliera, circondata da una recinzione metallica, innalzata da uno stabilimento balneare pare senza nessun permesso (proprio stamattina, 9 agosto, mentre l’articolo viene pubblicato, riceviamo notizia che la Capitaneria di porto sta rimuovendo queste barriere!). Alla fine della spiaggia c’è una vecchia costruzione in legno: apparteneva alla famiglia Di Pinto, la cui attività di riparazione delle barche è cessata solo un anno fa.
Fa molto caldo e i bagnanti cercano il modo più comodo per affrontare la calura, trascinando le sedie di plastica dall’ombrellone al mare, e fermandosi solo in acqua. Peppe – uno degli storici frequentatori della spiaggia – ci invita a prendere posto lungo il “marciapiede” a ridosso del muro, nel punto in cui c’è scritto, un po’ scolorito, il suo nome. Non c’è solo il suo, in realtà. Sulle pietre nere sono annotati i nomi di tutti gli altri frequentatori di vecchia data, che come dei custodi informali si occupano dell’area. Un altro di questi abbronzati signori dai capelli bianchi, al nostro fianco, richiude ombrelloni e sedie, rimettendole al proprio posto con l’aiuto di qualche suo amico e di un paio di “giovinotti”. Più tardi Peppe ci spiegherà il passato recente di questa spiaggetta, da chi è vissuta, e di come siano soprattutto i frequentatori storici a tenerla pulita: chi cambia le buste dell’immondizia dai cestini, chi rimette in ordine le poche attrezzature, chi ripulisce il marciapiede.
Una volta accomodati, introdotti da sua nipote Federica, Peppe inizia però a raccontarci anche la sua, di storia, una storia di appartenenza, mare e lavoro che dura da ottantacinque anni.
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Sono nato a Pozzuoli ma già da molto piccolo ho abitato ai Quartieri Spagnoli, mentre ora vivo un poco dopo il tunnel di Piedigrotta. Negli anni in cui sono stato sui Quartieri li ho visti cambiare tanto, se devo fare un paragone con quello che c’era decenni fa, oggi ci sono più attività, e molte persone che si sono tirate fuori da giri loschi. A scuola mi sono fermato al quarto anno delle superiori. Avevo una professoressa di francese insopportabile, che veniva dal nord Italia. Offendeva continuamente Napoli e i napoletani, un giorno non ce la feci più, la presi e la sedetti di forza sulla scrivania. All’epoca ancora più di allora si sentiva di settentrionali che offendevano noi meridionali, non ce la facevo più.
Subito dopo, a diciassette anni, sono entrato nell’Italsider di Bagnoli. Erano gli anni, tra i Cinquanta e Sessanta, in cui c’era grande bisogno di mano d’opera, non si andava tanto per il sottile, non era come ora che si faceva il contratto in regola e tutto. Sono entrato come tornitore meccanico ma lavoravo in una ditta, solo dopo sono passato all’Italsider. Ho lavorato trentacinque anni lì dentro: ho fatto il manovratore di carroponti alla cosiddetta Quarta linea, che era una linea di scarico di minerali, ferro, acciaio, che partiva dalla piazza e arrivava alla ciminiera. Ho lavorato sul carroponte, poi ho fatto il tornitore meccanico e infine il capo-forno, sono arrivato fino al Sesto livello. Ma sono contento di aver vissuto questi trent’anni fuori la fabbrica, e di essermi salvato dall’amianto e dalle altre malattie.
Il primo maggio del 1990 sono andato in pensione, con dieci anni di anticipo, vista la crisi dell’azienda. Ma quei dieci anni in meno li benedico: il lavoro era pericoloso, l’Italsider assicurava otto morti al giorno, chi moriva sulla corrente, sugli altoforni, per la poca lucidità… si facevano turni di dodici, persino sedici ore, soprattutto chi aveva bisogno di fare straordinari per mantenere la famiglia. Ho visto parecchi amici che il Padreterno se li è chiamati direttamente da lì dentro.
La fabbrica era un ambiente difficile, ma ti insegnava tanto. Abbiamo combattuto sempre il padrone, io ero in prima linea. Abbiamo fatto le lotte per tutto, perché se non lottavi niente di davano. Per il latte, di cui avevamo bisogno, si diceva, per l’esposizione a gas nocivi. Negli anni Ottanta abbiamo fatto sei mesi di sciopero per tutti gli operai anche delle altre fabbriche, bloccavamo la produzione. Abbiamo avuto un rapporto con gli studenti, che molte volte ci aiutavano, come aiutavamo noi a loro. Facevamo fermare le scuole e facevamo venire gli studenti con noi, così da fargli capire cosa significa la lotta.
La famosa riconversione industriale in realtà non interessava a nessuno. Il sindacato non ha fatto niente per aiutarci a scegliere le soluzioni migliori, anzi si sono schierati con i padroni. In pochi anni hanno chiuso tutte le fabbriche della zona e dell’hinterland, poi si lamentano che i napoletani passano la giornata per strada. Noi invece in quegli anni abbiamo dato un’immagine di Napoli diversa, operaia e lavoratrice. Dall’Italsider uscivano due milioni di tonnellate di acciaio, occupava con l’indotto diciassettemila persone.
Da sempre, da quando ero ragazzo, ma oggi ancora di più, vivo di mare. Io sto qui dal primo gennaio al 31 dicembre. Prima di stabilirmi su questa spiaggia frequentavo quella di Marechiaro, ti parlo di almeno trent’anni fa. Ci vengo tutti i giorni, prima facevo anche le cozze, ora sto qua, chiacchieriamo con gli amici, nuoto, mi rilasso. Siamo tutte persone che amano il mare, ci rispettiamo e ci sappiamo aiutare uno con l’altro.
Fino a qualche anno fa lungo il muro, dove stiamo ora, c’erano delle vecchie baracche di pescatori abbandonate. Finalmente ora le hanno tolte e abbiamo guadagnato altro spazio perché i Di Pinto se ne sono andati. Tra l’altro pure quell’attività, che comunque è storica, ci stava da sempre, non faceva benissimo al mare e alla spiaggia. Si riparavano e ridipingevano le barche, si usavano le vernici che rilasciavano sostanze sulla sabbia.
Qui affianco c’è un circolo privato. Questa persona si è allargata piano piano, si è appropriata di uno spazio pubblico, è arrivato fino alla scogliera, una zona demaniale, e addirittura ha fatto mettere pavimenti, cancellate, ci sta una roba giudiziaria pure in piedi, ma al di là di come va a finire non si capisce come gliel’abbiano potuto far fare. Per quanto riguarda la spiaggia ce ne prendiamo cura noi, abbiamo scritto pure i nostri nomi sui muri per gioco, naturalmente ognuno mette le sue cose dove vuole, è un posto di tutti. Ce la puliamo pure, perché tanto sappiamo che nessuno lo viene a fare. Ogni tanto si affacciano gli impiegati comunali, fanno la foto per far vedere che sta pulita e che loro sono intervenuti, e se ne vanno. Ma va bene così, perché questo posto è casa nostra. (a cura di angelo della ragione)
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