
Lo stato della città. Napoli e la sua area metropolitana è un volume collettivo curato da Luca Rossomando e pubblicato dalle edizioni Monitor nell’aprile 2016. Il libro è scritto da sessantotto autori e conta ottantasei interventi tra articoli, saggi, grafici e tabelle. All’interno di ogni sezione ci sono anche interviste e storie di vita. Abbiamo deciso di pubblicarne una parte durante questo mese d’agosto.
* * *
Il tassista sudamericano
«Io, quello che volevo veramente nella vita, era di portarmi il pane a casa lavorando. Facendo qualcosa che sapevo fare. E sapevo guidare. Imparai con mio padre che faceva il trasportatore per Napoli e pure per fuori. Arrivava fino a Frosinone, oppure in Calabria, visto che si trattava di frutta, verdura e qualche altra cosa sempre nel campo alimentare. Stava sotto un padroncino che metteva i furgoni e i camion, e a mio padre gli passava la mesata. Che poi molto non era, ma neanche poco. Comunque mi ha tirato su bene, mi ha dato sempre quello che volevo, anche se quando facevo qualche stronzata mi toccavano i paccheri: forti, secchi, a mano smerza. Per me e anche per mia sorella che è più piccola di tre anni.
«Da piccolo, con la mia famiglia vivevamo in provincia; per via del terremoto ci sfrattarono da casa nostra e ci mandarono nelle zone di Melito, quando lì ancora ci stava la frutta coltivata e la fabbrica della Kimbo. Pure mio padre, per un periodo, lavorò alla fabbrica del caffè. Da noi il caffè non mancava mai, semmai non c’era zucchero perché papà era diabetico e anche noi dovevamo bere tutto senza zucchero. Là ci siamo rimasti fino a che ho avuto quindici anni, l’epoca di Cernobìl, quell’anno che fecero buttare via tutta la verdura, che tragedia, nessuno voleva mangiare niente e mio padre, che trasportava ai Mercati Generali, non lavorava più. Però avemmo la fortuna che ritornammo al centro perché ci ristrutturarono la casa. E grazie al comune tornammo al terzo piano.
«A me la casa del centro mi era sempre piaciuta di più, forse perché me la ricordo fino da quando sono nato, anche se non mi ricordo niente. Neanche il terremoto mi ricordo bene, soltanto il casino, l’emergenza, tutti che gridavano, ma io non ero ancora niente, poi dopo sì che mi ricordo. E la casa di Melito, pure se era più grande, se ne cadeva a pezzi; anche se era più nuova, però a me sembrava che si squagliasse. Era come se qualche cosa se la stava mangiando, si consumava lei da sola. A mia mamma dicevo sempre che le macchie che comparivano sui muri erano fatte dai Visitors. Anche le case dei miei compagni erano come la mia, forse sarà stato che eravamo tutta gente che veniva da fuori, gente dei Quartieri, dei Banchi Nuovi, dei Miracoli. Mio padre diceva che lui si ricordava i baraccati della marina di tanti anni fa e si incazzava quando ci chiamavano terremotati. A scuola ci mandavano lontano perché le scuole di Melito bastavano solo per i figli di Melito. Mia sorella le elementari le ha fatte a Capodimonte, che ci voleva un’ora per arrivarci. Mia sorella l’hanno massacrata con questa storia dei terremotati. Pure a me, però io sono stato a Secondigliano a scuola, e là avevano poco che dire, a vedere come stavano combinati tutti. Comunque quando ritornammo al terzo piano fui felice, però non trovai nessuno che conoscevo, forse perché li conoscevo da piccolo, e nessuno mi conosceva a me da grande.
«Quando finiva la scuola – ho fatto fino alla terza media -, mio padre mi portava con lui per farsi tenere compagnia, dal momento che nella ditta facevano viaggiare a uno solo per risparmiare. Così papà mi faceva alzare alle cinque della mattina e facevamo tutta la giornata avanti e dietro. All’inizio mi divertivo perché lui mi metteva il volante in mano, ci fermavamo ai bar, qualche volta capitava che restavamo a dormire in un albergo per la notte. Poi mano a mano che sono cresciuto mi annoiavo. Tenevo più genio di seguire i compagni miei, prima il pallone, poi le ragazze oppure per arrangiare qualcosa. Mio padre lo capiva, anche perché un giorno, con la terza media in mano, mi ha detto: “Mo’ ti devi mettere a faticare. Veditela tu”. Non è stata una cattiveria, soltanto una necessità, altrimenti – come si dice? – sei ricco senza rischiare.
«Il problema all’inizio è stato che sapevo guidare, ma non potevo prendere la patente perché ero troppo giovane. E, a guidare così, va a finire che prendi tre articolo 80 e la patente te la devi soltanto scordare. Allora ho cominciato a lavorare in un negozio a fare le consegne. Mi pagavano una miseria, o per lo meno a me sembrava una miseria, perché non riuscivo a farci niente con i quattro spiccioli che si degnavano di darmi.
«Dopo il negozio mi sono messo con un meccanico, mi portò mio padre, ché questo gli doveva fare una cortesia. Era già il tempo in cui papà si era ammalato… tanto dal sangue amaro che si era fatto nella vita. Tutto quello che ha dovuto buttare giù, tutte le calate di capa sono diventate il suo veleno. Comunque dal meccanico ho imparato un mestiere, mo’ so smontare e rimontare un motore a occhi chiusi, e per lo meno è un bel risparmio.
«All’officina c’erano parecchi clienti che erano tassisti, i taxi erano ancora gialli, poi piano piano tutti se lo sono dovuti fare bianco. Spesso restavano in officina per aspettare la riparazione, e tra un caffè e una scopa mi parlavano del lavoro, dei clienti, delle zone, di certi trucchi per guadagnare di più. Era tutto un mondo per me, e soprattutto mi piaceva che stavano sempre in mezzo alla via, vedevano un sacco di gente e per me che stavo sempre chiuso nell’officina era bello, mi attraeva. La difficoltà principale, però, era che ci voleva la licenza, che non è una cosa semplice. Prima cosa devi pagare, e pagare tanto e non solo allo stato, ma anche a chi la licenza te la fa prendere… l’amico dentro la cooperativa. Poi ti devi comprare la macchina, perché la maggior parte dei tassisti hanno il taxi di proprietà, e io tutti questi soldi non ce li avevo. Tutto quello che c’avevamo se n’era andato appresso a mio padre e alla sua malattia e io stavo ancora con mia madre e mia sorella a casa. Io però con il tassì mi ero fissato. Lo volevo, volevo svoltare. E mi guardai in giro…
«L’unica cosa che mi permetteva di fare bei soldi, e tutti quanti assieme, era di rivolgermi al Sistema, che da noi continua ad avere una certa importanza. Gli amici che tenevo, chi era andato a fare una cosa, chi un’altra… tra questi alcuni mi potevano inserire in un bel giro. La prima cosa che mi dissero era quella di farmi fare un prestito. Io ci pensai e ci ripensai ma alla fine decisi di no, perché altrimenti avrei dovuto dargli il tassì sano, visto che i soldi per restituire non li avrei mai fatti. E così mi proposi per fare qualche lavoro, per portare le macchine, oppure fare dei viaggi, perché tra una cosa e un’altra mi ero preso la patente, e senza comprarla, perché guidare è cosa mia.
«Coi primi due viaggi mi guadagnai cinque milioni: andai a fare la staffetta a certi tir di merce che dovevano salire al nord. Mi dovevo mantenere dieci chilometri avanti a loro e nel caso che vedevo la stradale oppure un posto di blocco dovevo avvisare. La verità è che in questi viaggi non è successo proprio niente, anzi nella macchina avevo pure lo stereo e, una volta arrivati, mi hanno pagato pure l’albergo. Però io, con cinque milioni non ci facevo niente, anche perché tre li diedi a mia madre, che prendeva solo la pensione di mio padre. Allora chiesi di fare qualcosa di più importante perché mi volevo comprare questa licenza e farmi regolare. Mi proposero di fare un viaggio, lungo, in aereo, me la fecero facile. Dovevo andare a Caracas con un altro tipo e restare due giorni ad aspettare una borsa che mi dovevo riportare indietro. L’andata era da Milano ma il ritorno, invece, doveva finire in qualche aeroporto più piccolo tipo Pisa, Catania, con un volo non dal Venezuela ma dalla Spagna. Con un solo viaggio mi compravo la licenza. Mi chiesero quanto mi serviva e dissero: “Fai questo e ti metti a posto”. E io l’ho fatto e mi sono inguaiato per sempre.
«L’aereo non l’avevo mai preso, quindi all’inizio sembravo un cretino e il mio compagno mi disse di non farmi notare troppo. Il volo fu lungo, io mi vidi dieci film perché da seduto non riesco a dormire e poi non ti facevano neanche fumare, e alle gocce per dormire non ci avevo pensato. Una volta arrivati, pioveva così forte che sembrava un muro di acqua, non si poteva uscire dall’aeroporto che ti infracicavi dalla testa ai piedi. Dopo poco però finì e uscì il sole; così, in cinque minuti. Mai vista una cosa simile. Ci facemmo portare all’indirizzo di un albergo che ci avevano dato e lì restammo nelle stanze per un po’ ma nessuno venne a dire niente e io mi preoccupai perché il ritorno ce l’avevo due giorni dopo e non potevo tornare a mani vuote… Un po’ di soldi ce li avevano dati, anche se li teneva il mio masto di viaggio che si comportò bene, mi pagò da bere, da mangiare e da chiavare. Io non mi sono mai più chiavato femmine del genere. Anche quando le pagavi sembrava che gli piacesse pure a loro… Dopo il primo giorno e la prima notte sono arrivati i nostri contatti. Si sono presentati con cinque valigie: due uomini e due donne. In ogni valigia c’era un doppiofondo molto capiente e ci spiegarono come fare la mattina dopo all’aeroporto: io ero il capogruppo, quello che doveva aprire la catena. Eravamo su due aerei diversi, a tre a tre, il mio masto era la coda che controllava se tutto andava per il verso giusto. Io passai le mie cose nella valigia nuova e chiesi: “Ma siamo d’accordo con la dogana? Mica poi ci trovo i cani?”. E quelli: “Buena onda amigo. No problema”. E mi fidai.
«Ci credevo perché era il Sistema di Napoli che mi aveva mandato, la gente mia, del mio quartiere. Erano stati loro a darmi la possibilità di svoltare, era come un finanziamento, un’occasione, e io non la volevo perdere. La sera prima del viaggio, infatti, mi andai a cercare un’ultima femmina, perché pensavo: “E quando ci torno più in questo paradiso?”.
«Alla mattina andammo con due macchine all’aeroporto che pioveva di nuovo. Facemmo i biglietti e poi ci avviammo all’entrata degli aerei tutti separati, il mio compagno napoletano mi disse: “Vai, vai che a te non ti uccide nessuno”. In poche parole, quando misi la valigia nella macchina per controllare, questi sapevano già tutto. Neanche il tempo di passare dall’altro lato che cinque guardie vestite di verde mi presero e mi portarono in una stanzetta dove aprirono la valigia. Non cercarono neanche un minuto, squarciarono direttamente il doppiofondo e tirarono fuori cinque buste per un totale di due chili e mezzo di coca. Io mi squagliai, quasi svenivo, io che la coca non l’avevo mai provata. Loro invece ridevano, mi chiamavano italiano, tano, e ridevano ancora di più. Mi misero le manette e mi portarono fuori. Mentre uscivamo notai il mio masto che stava passando, mi venne da urlargli: “Oh, salvami, portami via”, ma quello si girò soltanto una volta con il dito sul naso come per dirmi: “Statti zitto”. E io zitto sono rimasto. Per cinque anni. Zitto con il consolato, zitto con la polizia, zitto con i miei compagni di galera che erano diavoli d’inferno, gente che da noi non c’è, cattivi per miseria, per fame. Fame nera in galera e fuori.
«All’inizio non ci volevo credere. Non pensavo che la mia gente mi avesse fatto questo, io volevo soltanto la licenza del tassì. Poi mi fecero il processo e mi diedero sette anni per traffico internazionale. Mia mamma lo seppe da qualcuno che si presentò a casa con cinque milioni e disse: “Ci dispiace, ma il figlio vostro ha voluto fare di testa sua ed è successo questo”. Non so a Napoli come fecero a sapere il mio indirizzo ma dopo qualche mese mi iniziarono ad arrivare delle cartoline e delle lettere di mia madre e mia sorella. Solo loro. In cinque anni nessuno ha trovato il tempo di scrivermi, nessuno dei miei amici, nessuno del Sistema, nessuno dell’officina. Sono uscito prima perché mi hanno dato l’espulsione, cioè fatti i tre quarti della pena ti buttano fuori dal paese.
«Quando sono tornato al terzo piano, mia madre mi ha fatto gli spaghetti con le vongole, sono venuti a salutarmi, e uno si è presentato con duemila euro come regalo. Io me li sono tenuti quei soldi, perché era tutto cambiato in città, pure i soldi e io non ci stavo tanto dietro. Però ho capito che era vero che mi avevano fatto fare ‘a capa ‘e lignamme, l’ho capito quando ho incontrato quello che si era fatto il viaggio con me e non ha avuto il coraggio di guardarmi in faccia, ha girato gli occhi e si è quasi messo a correre. Io al momento lo volevo uccidere perché lui ha sempre saputo tutto, sapeva già come doveva andare a finire. Lo sapevano che il tassì me lo sarei sempre sognato, e infatti me lo sogno ancora oggi, ma tanto non ci riuscirò mai. Caso mai mi faccio dare i soldi e apro un bel negozio per il Sistema, una bella bottega di panni, oppure l’elettricista delle televisioni, mi metto a montare le antenne satellitari e mi sento i programmi in spagnolo, perché mo’ so parlare spagnolo e inglese, solo che non posso viaggiare, perché un fesso come me, oggi, per la legge è un trafficante. Sono diventato come Pablo Escobar, senza ville però, senza coca, senza niente. Alla fine non tengo manco il tassì, maledetto tassì». (marcello anselmo)