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recensioni
25 Maggio 2017

Sulla necessità della danza. Un libro di danzatori e filosofi

Francesca Saturnino cronopio, flavio ermini, jena luc nancy, maurizio zanardi, napoli, nuria sala grau, romano gasparotti, sulla danza
(disegno di malov)
(disegno di cyop&kaf)

Di questi tempi, prendersi la briga di curare e pubblicare libri sulle discipline artistiche è una bella fatica. A parte casi sparuti, l’editoria nel campo delle arti performative in Italia non se la passa molto bene. La faccenda si complica se entriamo in ambiti specifici, che magari mettono in connessione diversi piani di pratiche e di pensiero. Da questo punto di vista, è da segnalare la recente uscita di un piccolo volume intitolato Sulla danza, curato dalle edizioni Cronopio. L’operazione ha un certo ardire – il che non sorprende se conosciamo un po’ la storia della casa editrice napoletana – poiché la danza è declinata su un piano teorico/filosofico attraverso gli interventi di danzatori e pensatori quali il francese Jean Luc Nancy, filosofo che ha esteso il suo campo di ricerca anche all’arte e all’estetica; Romano Gasparotti, altro filosofo che in gioventù si avvicinò alla danza; Nuria Sala Grau, danzatrice e coreografa vicina alla pratica del Bharatanatyam, riformulazione stilistica di un’antica danza liturgica indiana; Flavio Ermini, poeta e scrittore; infine Maurizio Zanardi, editore e curatore del libro.

Iniziamo col dire che si tratta di un testo che nel suo cercare di scandagliare e  approfondire alcune questioni pratiche sul piano teorico, può sembrare lontano anni luce dalla fluidità e dalla leggerezza di qualsiasi cosa ognuno di noi intenda per “danza”. Il punto – ci si ritorna, nel testo, a più riprese – è proprio questo: l’impossibilità di arrivare a un punto nella necessità di attraversarne molteplici. Come in ogni buon volume di filosofia, non vengono fornite risposte ma continue interrogazioni. «Non c’è bisogno di ribadire – scrive Gasparotti – che la danza, quindi, non comunica assolutamente nulla»; nel suo «abissale cadere fuori di sé e fuori da tutto» rompe la pretesa di tenersi eretti sulla verticale. Già, perché la danza, scavando e girando intorno, rompe schemi e tabù.

Jean Luc Nancy riflette sulla radice semantica del verbo tedesco ruhren ovvero “muovere”, che indica movimento liquido, onda, risacca, dell’ex-sistere; stare dentro/fuori, attivare, tra le altre cose, il desiderio del contatto stesso. Con sé ma anche col corpo altrui. È propria della danza la ricerca perenne, il naufragare, una sorta di vuoto che sta all’origine del filosofare stesso in quanto pensiero errante che si realizza per frammenti. Ecco che la danza – più di qualsiasi altra disciplina – è l’arte che mostra in maniera evidente come la forma artistica non sia altro che la “figurazione del possibile” attraverso una scansione ritmica che si modifica continuamente in corso d’opera. La danza parte e non arriva da nessuna parte, ma si avvicina a un rito in cui corpo del danzatore è un indumento sacro, un supporto, un diaframma, uno specchio deformante.

Molto interessante – e altrettanto tecnico – l’intervento di Nuria Sala Grau che apre una spaccatura tra l’arte occidentale e orientale, laddove quest’ultima considera il corpo un’alchimia silenziosa. La danza orientale sospende l’ego per entrare nelle emozioni universali. In questa dimensione, la danza crea lo spazio e dilata il tempo, divenendo uno “spazio dell’essere nel tempo”.

Nell’ultimo intervento, Zanardi sposta il discorso un passo più in là, rinsaldando il legame sacrosanto – e oggi verrebbe da dire perduto – tra danza e teatro: “Perché ci sia teatro – scrive –, gesto teatrale, è necessario che l’uomo si riduca a un punto e che ci si abbeveri alla sorgente della vita” che in sé è un dramma, separazione da sé, lacerazione, vibrazione, spinta… in poche parole: danza. Ecco uno degli spunti cruciali di questa lettura. Artaud (che a sua volta guardava alla danza orientale balinese) faceva del teatro una mera conseguenza della danza: la danza senza il teatro può esistere ma non è possibile il contrario. Il teatro puro – che non è spettacolo – deriva in maniera imprescindibile dalla danza, che nella sua natura si presenta plurale, multidisciplinare, differita.

Se applichiamo – e lo faccio io perché il testo in questione si mantiene a debita distanza da un qualsiasi collegamento con il “contemporaneo” – il discorso all’oggi, emergono due dati. Il primo è che danza e teatro appaiono due pratiche separate: deformazione tutta italiana, nonché profonda lacuna del nostro sistema dello spettacolo, poiché la danza, forse più del teatro, ha una funzione potenzialmente rivoluzionaria, multidisciplinare, di erranza nella sua non omologazione e classificazione, e perché senza danza non c’è teatro. In secondo luogo – e questa è una considerazione circoscritta soprattutto a Napoli e al sud – registriamo che la possibilità di fruire di lavori legati alla danza e alla performance sono davvero minime, per non dire inesistenti e, laddove ci sono, esse presentano una qualità di proposta mediamente bassa. Nei teatri stabili di tutta Europa la danza/teatro danza è in stagione come la prosa. Qui si arranca e si affonda e questo, oltre che un peccato, è un problema serio per la famosa e ipotetica “formazione del pubblico”; andare a teatro senza vedere la danza è come iscriversi all’università senza aver fatto le elementari. Ben venga, quindi, la lettura di questo libro. Per riaprire questi e altri discorsi sulla necessità della danza. (francesca saturnino)

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