
È scomparso ieri a Taranto, all’età di novantasei anni, Cataldo Portacci, maestro d’ascia, operaio, sindacalista, militante comunista.
Nel 2014 l’abbiamo intervistato più volte per Timoni al vento. Alcune storie della Città vecchia raccontate da chi le ha vissute, una breve pubblicazione che accompagnava le fotografie dei disegni e le riflessioni fatte da cyop&kaf nel corso del loro lavoro nella “città dei due mari”, pubblicati poi in Taranto, un anno in Città vecchia.
Ricordiamo Portacci ripubblicando oggi, a distanza di quasi dieci anni, alcuni estratti di quelle interviste.
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Il rione Tamburi è il più grande quartiere della parte nord-occidentale della città. L’area, in cui cresceva rigogliosa una vegetazione di pini e ulivi, fu scelta agli inizi del Novecento per ospitare le famiglie dei dipendenti delle ferrovie. Successivamente, con la nascita e lo sviluppo delle acciaierie, con cui il rione confina, il quartiere divenne la principale destinazione abitativa per la manovalanza dello stabilimento. Ancora oggi i Tamburi mantengono la conformazione di un vecchio quartiere operaio. Le case popolari, sebbene ingrigite dal tempo, sono differenti dagli enormi palazzi delle periferie; i giardini davanti agli ingressi sono curati; le strade larghe e abbastanza pulite.
Tamburi – assieme a Paolo VI e al Borgo – è il quartiere con la più alta percentuale di decessi per malattie tumorali legate alle produzioni dell’Ilva. Nel solo rione Tamburi si registrano oltre il 40% in più di tumori maligni e oltre il 60% in più di malattie dell’apparato respiratorio rispetto alle stime basate sui dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Cataldo Portacci abita al secondo piano della palazzina SI di via Massimo D’Azeglio. Ci sediamo attorno al tavolo del suo salotto. Alle sue spalle sua moglie rimane a braccia conserte accanto alla finestra, animandosi ogni tanto per offrirci un tè freddo o per completare gli aneddoti raccontati dal marito. Cataldo si ferma per bere una lunga sorsata d’acqua, poi ricomincia con un tono di voce regolare e perentorio, ignorando il caldo provocato dal clima di scirocco. Nei giorni successivi ci incontreremo altre volte, sempre nel suo salotto, a ricostruire i pezzi più importanti della sua vita, a volte con l’aiuto di vecchie fotografie, testi di poesie dialettali, libri, quadri e oggetti disseminati nella stanza, a cominciare da una vecchia bambola, ricordo della spedizione di una delegazione del consiglio comunale tarantino a Donetsk, Ucraina, Unione Sovietica.
«Allora, andiamo alle origini… La nostra identità, attraverso gli anni, i secoli, si è fortemente modificata. Io mi definisco tarantino verace… Ho fatto una ricerca nell’archivio storico comunale, in quello di stato e in quello arcivescovile. Ho consultato documenti che scrivevano con la penna dell’oca e sono arrivato attraverso questa mia modesta ricerca, perché poi ci vuole del tempo e delle persone che ti aiutano… sono arrivato quasi alla fine del Settecento. I miei antenati provengono tutti da Città vecchia, ceppo di pescatori e gente di mare. I Portacci sono una razza antichissima, certi studiosi dicono di provenienza greca. Una parte erano intellettuali: abbiamo avuto sindaci, amministratori, poeti; e poi c’è il ceppo marinaro; io appartengo al secondo, quello marinaro. Il mio nonno paterno, Portacci Cataldo Antonio, era capobarca dei mitilicoltori, una specie di caporale… perché non solo nelle campagne, ma anche nel mare c’erano i caporali. Prima di lui c’era Nicola… Nicola fu prima pescatore di anguille, quelle di Taranto, le migliori del mondo, poi fece anche il mitilicoltore. Nicola era figlio di Francesco, e arriviamo ai primi dell’Ottocento. Poi c’era Portacci Donato, l’ultimo che conosco, della fine del Settecento. Dopo di lui non ho trovato più nulla, i documenti non parlano, non mi aiutano più…
Io sono nato nella Città vecchia, dove adesso c’è la statua di Paisiello, lì c’era un rione che fu abbattuto nel 1935 dal regime fascista. Sono nato a vico Vasto numero 11, casa del mio nonno materno, Cataldo Albano, guardiano delle acque, un corpo che ha un’origine antica, sciolto nel ’29 quando i guardiani entrarono a far parte delle guardie municipali… Quando demolirono le case avevo dieci anni. Ci trasferirono nelle case popolari di Porta Napoli e siccome mio padre era maestro d’ascia e lì aveva la bottega dove costruiva le barche, a lui il trasferimento convenne. Il regime fascista fece uno scempio, uno stupro… Mi ricordo che ero attratto dal modo in cui demolivano le case. Attaccavano un cavo d’acciaio, prima demolivano con i picconi e poi trascinavano il resto. I tufi ancora buoni venivano accatastati e messi da parte. Gli abitanti di quella zona, che si erano comprati le case nel corso degli anni, che le avevano riparate, piangevano e agitavano i fazzoletti; per quelle case i loro antenati avevano fatto grandi sacrifici… Mio nonno materno abitava verso la chiesa di San Giuseppe, in largo San Vito. Una casetta con tre stanze senza servizi. La nonna mia era malata e non si rese conto quando la buttarono giù, ma altre donne sì, piangevano e imprecavano contro il fascismo…
Mio padre era il più piccolo di cinque fratelli, quattro maschi e una donna, tutti ceto di mare. Cominciò a frequentare le botteghe dei maestri d’ascia ai primi del Novecento. Dopo la prima guerra mondiale fece il maestro d’ascia nella cooperativa dei combattenti, ostricoltori e mitilicoltori. Quando fu sciolta la cooperativa si fece il piccolo cantiere per conto suo, ma prestava la sua opera anche nei cantieri navali… Io fino all’età di tredici anni sono andato a scuola. L’avrei continuata, mio padre sarebbe stato contento, però eravamo una famiglia numerosa e mio padre aveva bisogno di aiuto nel piccolo cantiere. Ho imparato là e mi trovo contento di aver imparato l’arte da mio padre, di aver ereditato da lui il rispetto del mestiere, dell’orario di lavoro… Ho conosciuto i maestri. Ho lavorato in tutti i cantieri navali di Taranto. Alcuni erano botteghe che lavoravano in proprio, altri per l’Arsenale.
All’epoca tutta la costruzione di media e piccola stazza era in legno, la plastica non c’era proprio… Nel nostro cantiere eravamo io, i miei fratelli e mio padre, poi i miei fratelli andarono a lavorare in Arsenale oppure con il cosiddetto siderurgico. Mio padre si era fatto anziano e io da solo non ce la facevo a portare avanti un cantiere, le barche erano sempre più grandi, così andai a lavorare nell’officina dell’Arsenale, mi occupavo della riparazione delle navi da guerra e delle navi mercantili. Sono stato ventitré anni in quell’officina, però quando uscivamo dall’Arsenale io e i miei fratelli andavamo sempre in bottega, abbiamo fatto delle barche, tenevamo sempre la bandiera e il nome alto…
La mia formazione è avvenuta nella Città vecchia degli anni Trenta. Quel periodo ha influenzato il mio modo di vedere il mondo e la politica. Quando andavo alla scuola elementare c’era la guerra d’Etiopia. I professori dicevano che le nostre truppe andavano a portare civiltà e progresso. C’era una grande carta geografica e su ogni città aggredita si metteva la bandierina… I lavoratori portuali a Taranto erano sempre stati sfruttati, non quelli fissi che lavoravano con le compagnie, ma gli occasionali, quelli che venivano reclutati a giornata quando arrivavano i bastimenti con le merci da scaricare, in dialetto tarantino si chiamavano vastasi de puerte…
Da ragazzo ho conosciuto uno di questi, si chiamava Emanuele. Asciutto, snello, con l’aspetto dignitoso, scaricava le navi di carbone. Viveva alla giornata. Aveva quattro o cinque figli, di cui alcuni più grandi che lavoravano nel vicolo. All’epoca il fascismo aveva l’Ovra, gli sbirri, e quindi nella vita di tutti i giorni la gente veniva controllata da questi fascisti, gente di bassa lega, caporali, scagnozzi. Emanuele veniva preso di mira perché era un ribelle. Ogni volta che veniva a Taranto un gerarca fascista, tutti questi sospettati venivano arrestati preventivamente. E per il vicolo correva la voce: “Stonn’ arrèstene le sovversive…”. Li trattenevano anche dieci giorni. Allora, siccome il capofamiglia era la principale fonte di reddito, entrava in gioco la solidarietà del vicolo: un piatto di minestra, pane e peperoni, le mamme davano le cose, nasceva questa solidarietà con la famiglia che aveva il padre in galera…
Uno dei personaggi caratteristici era Barbarossa. Si chiamava Salvatore Morrone: pescatore, analfabeta ma molto intelligente, loquace. Lo chiamavano Barbarossa perché aveva i capelli rossicci; però aveva anche un altro soprannome: San Giuanne. Con questo soprannome si era creato un ascendente nella marineria, lo chiamavano tutti “compare”, che poi sarebbe chi ti battezza, e in questo modo si riferivano al battesimo di Gesù Cristo… Ma Barbarossa era anche un antifascista. I pescatori non volevano subire angherie, erano obbligati a consegnare il pescato, ci fu una ribellione di cui Barbarossa era alla testa. Nel 1931 tirarono a secco le barche a via Garibaldi, presidiarono i vicoli, le forze di polizia non riuscirono a scompigliare la situazione. I pescatori non andarono a mare per una settimana… Alla fine vinsero, ma Barbarossa fu costretto a fuggire a Metaponto. Rientrò perché la famiglia aveva bisogno di sostentamento, fu arrestato, percosso. Io l’ho conosciuto dopo il fascismo, era stato anche lui al confino di polizia come tanti. Rientrò dal confino e continuò a frequentare gli antifascisti. Riparava la barca nel nostro piccolo cantiere e raccontava ai giovani quello che aveva passato. Non si politicizzò mai, rimase un personaggio semplice.
Lì sulla discesa Vasto ho conosciuto anche altri ritenuti sovversivi, che lavoravano all’Arsenale o ai cantieri navali. Ho conosciuto Renzulli, Nino D’Ippolito. C’era una rete, c’erano cellule segrete. Dopo la guerra, la prima sezione del Pci dei Tamburi, la sezione Migliarese, fu costituita nel ’45 dai compagni portuali, di cui ricordo Sardella. E quando cominciai a frequentare il partito mi alternavo tra la sezione di Città vecchia e quella dei Tamburi. Andare alla sezione tutte le sere era una cosa importante. Solo in Città vecchia ce n’erano quattro o cinque. La chiamavano “la piccola Stalingrado”.
La prima esperienza nelle istituzioni l’ho fatta nei consigli di circoscrizione. Sono stato per dodici anni in questi consigli. Nel 1980 al comune di Taranto sono stato eletto con ottocentocinquanta voti solo ai Tamburi, in tutta Taranto milletrecento voti. Poi ho fatto il delegato sindacale. Stavo in mezzo alla gente, sono stato diffusore de l’Unità, anche davanti alla fabbrica. Una volta, negli anni Settanta, nella villa Peripato venne il balletto dell’esercito rosso dell’Unione Sovietica. Io ero caposquadra dei pavimentisti del palco…
Con Peppe Cannata ci siamo conosciuti quando lui era segretario della Fgci di Taranto. Io sono del ’27, lui del ’30. Quando era segretario della federazione, io facevo il segretario di circolo, poi entrai a far parte della segreteria provinciale, lui divenne membro del comitato centrale, e poi sindaco… Fu un’esperienza positiva. All’epoca vigeva non solo il paternalismo ma anche il clientelismo, ma Cannata non si piegò mai a queste cose. Fu sindaco in un periodo difficile, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta…
La classe operaia era una grande forza a Taranto. Quando costruirono l’Italsider si vedeva in questo nucleo la forza propulsiva per la rinascita del Mezzogiorno. Gli avvenimenti non sono andati come speravamo. Poi il tempo cambia, il tempo modella e cancella, le generazioni che hanno vissuto l’amministrazione Cannata, le lotte operaie, la “vertenza Taranto”, il piano di risanamento per la Città vecchia, ormai sono invecchiate o scomparse…». (a cura di riccardo rosa e luca rossomando)