
«Proprio non capisco cosa avranno contro i tornelli». Questa frase, con qualche variante, negli ultimi giorni è stata pronunciata da tanti bolognesi, è stata scritta sui giornali ed è comparsa su tante bacheche di Facebook. Su questa frase si è giocata una settimana di vita politica a Bologna; questa frase apre forse una finestra sui cambiamenti di una città. I tornelli di cui si parla sono quelli che gli studenti dell’ateneo bolognese la mattina del 23 gennaio si sono trovati all’ingresso della biblioteca di italianistica, luogo che con questo nome non dice molto, ma basta chiamarlo “il 36”, dal numero civico che lo individua su via Zamboni, per renderlo subito familiare a chi ha studiato a Bologna dai primi anni Novanta a oggi. Il montaggio di questo dispositivo meccanico di controllo degli accessi alla biblioteca era stato stabilito dal governo dell’università perché facesse il suo lavoro: selezionare gli utenti. Chi non esibisce il tesserino universitario non può entrare.
La decisione non è piaciuta agli studenti, soprattutto a quelli del Collettivo Universitario Autonomo, il CUA, che hanno rimosso i tornelli e hanno occupato la biblioteca. A questo punto è stato il rettore Ubertini, al quale il CUA ha consegnato simbolicamente pezzi della struttura rimossa, a non prenderla sportivamente: ordina lo sgombero e la questura non si fa pregare. Celerini, con caschi, scudi e manganelli, entrano nei locali occupati e colpiscono chiunque, CUA e non CUA. Volano libri, sedie, tavoli.
Una carica della polizia dentro l’università non è un fatto inedito in assoluto, ma lo è per questa epoca. Mentre la città si prepara a celebrare i quarant’anni del ’77, la polizia (e il governo universitario) mette in scena un sinistro revival, una fiction distopica come un episodio di Black Mirror. Ma le manganellate sono reali, così come i provvedimenti restrittivi che seguono agli scontri generati da un corteo di risposta del collettivo.
Perché tanto clamore per un tornello? Per provare a dare una risposta è necessario fare alcuni graduali passi indietro. Furti, spaccio, molestie (grave l’episodio di un ragazzo che eiacula sulle gamba di una ragazza, entrambi studenti): la biblioteca che negli ultimi tempi aveva prolungato l’apertura fino a mezzanotte non era considerato un luogo sicuro da utenti e lavoratori. Il rettore Ubertini ha dichiarato che consentire l’ingresso solo agli studenti muniti di badge avrebbe tutelato la sicurezza di chi utilizza e lavora nella biblioteca. Un provvedimento drastico, di stampo securitario ma, a quanto pare, giustificato da una situazione critica. Tutto sembrerebbe filare, ma se continuiamo ad allargare lo sguardo al passato e al contesto urbano in cui il 36 si colloca, l’architettura comincia a scricchiolare.
Il rapporto del movimento studentesco con quello spazio di studio non nasce ora. I collettivi che escono vivi dalle mobilitazioni della Pantera del ‘90 a Bologna, pongono il loro quartier generale proprio al 36, facendone una sala studio autogestita. Apertura totale, sia in termini di orario e di utenza, sia di attività svolte. Non solo le liturgiche interminabili assemblee di movimento, ma anche concerti, mostre, feste di autofinanziamento e iniziative pubbliche; insomma al 36, dopo la dissolvenza delle occupazioni della Pantera, si tengono vive le pratiche di autorganizzazione degli spazi sociali che poi avrebbero aperto la stagione dei centri sociali in tutto il paese. E non si può non ricordare che nel paradigma di quell’agire politico trovava un posto di rilievo la lotta, anche militare, allo spaccio (di eroina soprattutto) e per il consumo consapevole di droghe. Tutto questo si perde non nel ciclo fisiologico di crescita e riflusso dei movimenti, ma soprattutto a causa di una dura controffensiva verso le esperienze di autogestione che il comune di Bologna muove nell’estate del 1996, quando, oltre al 36, cadono le occupazioni storiche di via del Pratello.
Nella seconda metà degli anni Novanta si consolida e diventa visibile il fenomeno che ancora oggi fa tremare il placido provincialismo felsineo: l’arrivo dei migranti. Prima dal Nord Africa, poi dalla Romania e dall’Europa dell’est, infine i rifugiati dall’Africa subsahariana. La socialdemocrazia emiliana non è capace di rispondere a uno scenario sociale in mutamento, i migranti a Bologna non trovano un’accoglienza tanto diversa dal resto delle città italiane, per loro si aprono le porte di strutture ghetto nell’estrema periferia e finiscono per ingrossare le fila dei socialmente esclusi. Questa incapacità si traduce in politica con la folle rincorsa alle posizioni securitarie della destra. Il sindaco del Pds Walter Vitali vuole rispondere al disorientamento dei bolognesi mostrandosi altrettanto capace di avere il pugno duro. La zona universitaria, territorio di uno spaccio mai controllato da organizzazioni criminali, è permeata da lumpen migranti che si cimentano nell’autoimprenditorialità della vendita illegale di sostanze; sincronicamente, l’affermarsi delle tecno-tribe e della pratica dei “rave illegali” produce nella stessa area urbana una nuova figura sociale che si ergerà a protagonista della narrazione del degrado urbano, il punkabbestia. Per Bologna è troppo, una decisa ondata di sgomberi è una buona bandiera da sventolare in vista delle prossime elezioni amministrative. Che il Pci-Ds-Pds clamorosamente perderà.
Sfilare il mattoncino dell’egemonia dei collettivi contribuisce a rendere l’equilibrio della zona universitaria molto precario. Piazza Verdi e via Zamboni si punteggiano di bar dall’aperitivo facile, da negozi di frutta e verdura (e birre) gestiti da migranti del continente indo-asiatico (i cosiddetti pakistani); lo spaccio dilaga più o meno incontrollato; comitati di cittadini, spesso mossi più dall’isteria che da un’osservazione del territorio, assediano le istituzioni comunali regalando a una stampa compiacente cronache da girone infernale. L’ansia securitaria dell’amministrazione comunale, che ritorna al centro-sinistra dopo l’inedita parentesi Guazzaloca, finisce per autorigenerarsi dopo ogni fallimento di progetti anti-degrado sempre abbozzati e balbettanti.
Questo scenario si cristallizza per vent’anni, fino ad arrivare all’installazione dei tornelli alla biblioteca del civico 36, l’ennesimo tentativo maldestro di risolvere un problema sociale, complesso, ma ancora risibile se paragonato alle difficoltà e alla vastità di aree metropolitane del paese, con un rozzo dispositivo di controllo. Al di là dei tornelli, in piazza Verdi, in tutta la zona universitaria, è evidente la grande difficoltà di convivenza di gruppi sociali portatori di diversi bisogni, aspettative e fragilità, sui quali manca un investimento di analisi e luoghi di confronto e progettazione da parte degli enti che ne hanno la titolarità, in primis ateneo e comune. Ancora una volta il tentativo di prendere scorciatoie, come quella di selezionare gli ingressi a una biblioteca per migliorarne la sicurezza, si sta rivelando un boomerang. Dopo le polemiche scatenate dalle azioni del CUA e il tentativo di tracciare una linea tra buoni e cattivi nelle aggregazioni studentesche, si sono viste assemblee e cortei con una partecipazione altissima dove il movimento è parso ricompattato. Non solo, il disagio dei lavoratori della biblioteca di italianistica si sta specchiando in quello dei colleghi di altre biblioteche cittadine che vedono il loro lavoro svilito e messo a rischio da una esplicita volontà del comune di esternalizzare il servizio. Nelle prossime settimane queste mobilitazioni potrebbero intrecciarsi tra loro e con un’altra grande vertenza che si sta aprendo in Bolognina (storico quartiere operaio oggi fortemente multietnico) e che riguarda la resistenza del centro sociale XM24 contro un progetto di riqualificazione del territorio. Per rispettare il copione si sta preferendo la via più breve con una nota grottesca in più: con un vero coupe de teatre il sindaco Merola ha ventilato la possibilità di costruire una caserma dei carabinieri nella sede del centro sociale.
Due note finali.
Nel dibattito pubblico, su stampa e social network, le parole “tossici” e “barboni” sono rimbalzate di tastiera in tastiera, mai accompagnate da considerazioni sul disagio sociale e sulle falle del sistema di welfare che evidentemente porta queste persone a trovare in una biblioteca un luogo di ricovero. Non male per una città che ha avuto nel suo dna la sperimentazione di pratiche di accoglienza e riduzione del danno.
Oltre a scontrarsi con le forze dell’ordine il CUA si era proposto per un servizio di vigilanza autogestito nelle ore di apertura serale della biblioteca. Non ha ricevuto risposta. Intanto, qualcuno sta pagando più di tutti questa incapacità di ascolto reciproco: sono Sara e Orlando, due studenti agli arresti domiciliari per gli scontri di piazza. (leonardo tancredi)