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16 Aprile 2019

Torre Maura, le periferie romane e il format della rabbia corta

Monitor
(disegno di julien grosse)
(disegno di julien grosse)

da: Contropiano

Torre Maura, Casalbruciato, prossimamente Casalotti, e prima ancora Pietralata, Trullo, Tiburtino III, Tor Sapienza, Corcolle e altri quartieri della vecchia e nuova periferia romana, da tempo sono oggetto di una puntuale scenografia della “rabbia” degli abitanti dei quartieri popolari contro immigrati e rom.

I ripetuti episodi godono di ampia pubblicità e puntano con particolare attenzione i riflettori sulla presenza dei vari gruppi neofascisti (Casa Pound, Forza Nuova, Fratelli d’Italia), talvolta da soli e talvolta consorziati.

La situazione nelle periferie della capitale da tempo è al limite di rottura sul piano sociale. Il solo quadrante est di Roma presenta tutti gli indicatori di disagio sociale ai livelli massimi, un degrado della vivibilità precipitato a livelli di emergenza e vede per esempio un numero di domande per il reddito di cittadinanza superiore a quello di intere regioni, come l’Abruzzo. Una situazione non sempre riscontrabile nelle periferie di altre aree metropolitane, ma non per questo dissimile.

Ad appesantire il clima, c’è anche la fragilità e la crisi politica della giunta comunale cinquestelle di Virginia Raggi, che sta scatenando voglie di rivalsa (Pd) e di conquista (Lega/Destra) sul governo della città.

Ma la sequenza degli episodi di quella che potremmo definire la “rabbia corta” degli abitanti delle periferie, sembra avere tutte le caratteristiche di una regia ben individuabile. La stretta connessione tra puntualità dei fatti e gestione mediatica degli stessi, ci mette davanti quello che somiglia sempre più a un format, con obiettivi e messaggi ben precisi. Proviamo ad esaminarli:

1) I gruppi neofascisti hanno dentro le istituzioni comunali, in particolare al Dipartimento ai problemi abitativi, delle “gole profonde” che li avvisano per tempo delle situazioni critiche: l’assegnazione a una famiglia di immigrati o rom di una casa popolare che si è liberata, o lo sfratto di una famiglia occupante “italiana” ma abusiva di una casa popolare che è stata assegnata ad un nucleo familiare di immigrati o di rom (magari anche con cittadinanza italiana, ma con origini o colore delle pelle diverse). Una complicità tra istituzioni comunali e fascisti che gli attivisti dell’Asia Usb denunciano da tempo.

In questi anni i fascisti, hanno creato un “marchio” che agisce come in franchising. Hanno creato una rete di attività economiche (pub, locali, negozi di abbigliamento e altre meno “rispettabili”, visto il numero di fascisti coinvolti in storie di droga), che gli consente di avere almeno una trentina di “attivisti a tempo pieno” da mobilitare rapidamente nelle situazioni che lo richiedono. Questo gli consente di essere presenti per tempo e di cominciare ad agitare le acque tra la gente nei caseggiati popolari… in attesa delle telecamere.

2) L’arrivo di fotografi e telecamere confeziona poi la coreografia delle frasi urlate e del razzismo da strada, che viene così diffuso e rilanciato sui mass media e sottoposto – specularmente – alla stigmatizzazione del “mondo di sopra” (la politica istituzionale, i commentatori televisivi, l’insopportabile comitiva che circola intorno al gruppo La Repubblica/L’Espresso) oppure alla legittimazione dall’alto di un atteggiamento che invoca come necessarie le soluzioni escludenti per i “non italiani”.

La medesima attenzione mediatica e politica raramente – per non dire mai – offre la stessa copertura ad altri episodi di conflitto sociale nelle periferie (picchetti antisfratto, assemblee e manifestazioni contro la svendita o per la sanatoria sulle case popolari, lotte contro il degrado dei servizi sociali). Le lotte sociali quotidiane non fanno audience, non sono spendibili come storie individuali, perché spesso sono storie collettive. Sono problemi sociali reali cui nessuno vuol dare risposta. E dunque, soprattutto, non esprimono parole, slogan, contenuti funzionali al format politico/mediatico che si è venuto costruendo.

3) Quale risultato politico produce questo vero e proprio “format”? Produce l’idea che l’unico conflitto sociale producibile o prodotto da questo pezzo di società è quello della guerra tra poveri, un po’ razzista e un po’ plebeo e soprattutto gestito o manipolabile solo dalla destra. Ragione per cui sarebbe inutile perdere tempo, risorse, energie per intervenire tra gli abitanti delle periferie. Quello è un mondo sociale perduto, andato, tendenzialmente ininfluente. Meglio concentrarsi sulla crisi dei “ceti medi” e recuperare quelli che si sono lasciati attrarre dal M5S, per riportarli nelle braccia del Pd, della Cgil o dell’associazionismo collaterale che, con Zingaretti e Landini, adesso è di nuovo in mano alla “Ditta”.

4) Questo format, e le conseguenze che produce, vorrebbe prima di tutto disarmare politicamente le realtà che in queste periferie agiscono, resistono, si battono, affrontano i fascisti, cercano di tenere insieme gli abitanti sulle vertenze e sui problemi concreti. Ma è evidente che questa “quotidianità” e questa continuità, alla lunga, non ha la forza per reggere e vincere sulla demagogia della “rabbia corta”, che è praticata dai gruppi neofascisti, favorita da complicità istituzionali e delle amministrazioni locali, e infine standardizzata come luogo comune nel format, come unica protesta possibile. Non verso le autorità e i possidenti che creano quel malessere, ma contro gli ultimissimi.

Gli abitanti delle periferie vedono le proprie case di edilizia popolare andare nel degrado, vedono i cassonetti dei rifiuti tracimare per giorni, non hanno alcun paracadute di fronte al continuo impoverimento sociale, vedono il quartiere riempirsi di immigrati con i quali non c’è occasione di scambiar parole o condividere qualcosa di positivo, dalla finestra non si affacciano sul Colosseo o su Villa Lazzaroni, ma su un campo rom. Così simile alle baraccopoli da cui i loro genitori provenivano, fin quando le occupazioni di case e qualche amministrazione più intelligente non crearono le condizioni per tirarli fuori e metterli dentro una casa popolare, ma vera.

È una situazione spesso al limite sulla quale non è semplice fare sintesi con un programma generale di rivendicazioni, questa sarebbe “una rabbia consapevole”, totalmente diversa. Da un lato le istituzioni sono ormai del tutto impermeabili o prive delle risorse necessarie per dare soluzioni, dall’altra la dimensione collettiva delle soluzioni si è andata disgregando contestualmente alla disgregazione sociale complessiva. Su questa “area critica” lo starnazzare strumentale dei fascisti ha vita molto più facile. Non hanno il problema della sedimentazione nel territorio. Arrivano perché avvertiti da qualche complice dentro le istituzioni comunali, stanno in zona il tempo di guadagnarsi le prime pagine e poi vanno da un’altra parte, a ripetere il giochino.

Il situazionismo della rivolta “razzista” e “plebea” viene facilitato dal format e dal senso comune che spira sulla società. Se andiamo a vedere i dettagli, le persone in carne ed ossa, alla fine, quelli che si accompagnano ai fascisti si rivelano essere in primo luogo gli spacciatori e i piccoli malavitosi dei quartieri (quelli veri invece temono i casini veri, gli scontri e i riflettori perché disturbano “gli affari”).

Questo è quello che abbiamo davanti. Noi non pensiamo che le periferie siano perdute, al contrario. Metterci le mani senza dover essere costretti a rincorrere le puntate del format appare tutt’altro che semplice. Lì dove ci si è riusciti, i risultati sono stati incoraggianti (Tor Bella Monaca, Tiburtino III), ma occorre un radicale cambiamento di mentalità nell’attivismo politico dei militanti della sinistra “popolare”, occorre concepire e misurarsi un format del tutto diverso e predisporsi sul piano dell’organizzazione adeguata. Il tempo però sarà decisivo, occorre riflettere mentre si agisce e agire mentre si riflette. (sergio cararo)

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