
Emmanuel Carrère è tornato dietro la macchina da presa adattando per il cinema un libro-inchiesta di grande successo, Le Quai de Ouistreham, di cui è autrice la giornalista di Le Monde, Florence Aubenas.
La protagonista del film è Marienne (Juliette Binoche), una scrittrice che si finge disoccupata per farsi assumere da un’agenzia di pulizie. Il suo obiettivo è quello di vivere l’esperienza “da dentro” così da scrivere con maggiore cognizione le condizioni di vita delle sue colleghe lavoratrici al centro della sua indagine. Marienne, così, compie un viaggio in una realtà di sfruttamento e precariato, fino a terminare la sua esperienza “antropologica” come membro del personale che lavora nei traghetti (siamo a Caen, Normandia, da dove partono le navi per l’Inghilterra), tra cessi luridi da pulire e tempi stakanovisti da rispettare. Passando ogni giorno con loro, Marienne si lega a donne e uomini di condizione sociale molto diversa dalla sua con cui inizia a costruire relazioni fatte di complicità e fiducia.
Il dramma esplode quando le nuove amiche di Marienne scoprono la sua vera identità: lei non è quella che ha dichiarato di essere. Di conseguenza, quando la scrittrice, finito il suo viaggio, torna a casa per presentare il suo libro-inchiesta alcune lavoratrici la ringraziano per aver parlato di loro, altre si rifiuteranno di festeggiare l’uscita del libro; una in particolare, la ragazza madre con cui aveva stabilito il rapporto più stretto, le rimprovererà di appartenere a un mondo altro, lontano, privilegiato.
Il film di Carrère è un ottimo esempio per capire cosa intendiamo noi antropologi quando, attraverso le nostre ricerche, vogliamo raccontare il punto di vista di individui e di gruppi sociali diversi dai nostri; quando ci diamo come compito quello di comprendere il senso che queste persone “altre” da noi danno alle loro pratiche di vita quotidiana. Carrère ci aiuta, in questo senso, complicando le cose: ovvero, volendo fare dell’inchiesta di Aubenas non un documentario, ma una fiction dove a recitare però sono attori non professionisti, proprio a ricordarci come il confine tra ciò che chiamiamo fiction e no fiction, tra lo stesso genere etnografico e romanzesco sia diventato sempre più labile nella contemporaneità.
Ci sono diversi aspetti, però, che rendono il lavoro degli etnografi ancora più traumatico, e di conseguenza più complesso, di quello che Carrère ha svolto negli ultimi anni scrivendo romanzi e raccontando storie di vita “altre” attraverso la telecamera. Tali differenze, tra la migliore scienza sociale e la migliore letteratura di indagine, sono altresì utili per capire su quale territorio ibrido si posiziona sempre più ciò che chiamiamo “inchiesta sociale”.
Innanzitutto, il fatto che il metodo antropologico, ciò che chiamiamo osservazione partecipante, non voglia dire solo “empatizzare”, ma anche cercare quella giusta distanza che ci permette di considerare i protagonisti delle nostre ricerche come soggetti/oggetto dei nostri studi. Proprio ciò, infatti, ci impedisce di trasformare le persone al centro delle ricerche in esseri umani a una sola dimensione; ovvero, ci aiuta a non correre il rischio di descrivere, come fa a tratti Carrère e come succede a molti giornalisti che fanno inchiesta, il proletariato precario (il focus dell’adattamento cinematografico dell’inchiesta di Aubenas) come un “luogo” semplice, allegro, solidale dove ogni relazione è proprio come la vorremmo; come emerge dallo sguardo, per l’appunto molto empatico ma poco analitico, dello scrittore francese.
Non siamo però in un libro di Engels e il tema centrale del film di Carrère non è la condizione della classe operaia francese, ma la difficoltà di due contesti (da cui il titolo della pellicola nella traduzione italiana, Tra due mondi) così diversi di entrare in relazione autentica (chissà se Carrère ha letto Misère du monde di Pierre Bourdeu). Quello che fanno gli antropologi quando sono sul “campo”, quando sono in un mondo lontano, è innanzitutto, proprio al fine di costruire questa relazione, dichiarare chi sono: questo perché se vogliamo che i protagonisti delle nostre ricerche ci raccontino di loro abbiamo bisogno di costruire un rapporto di fiducia, che necessita di tempo e che non va pensato mai come scontato.
Come etnografi, i nostri libri, le nostre ricerche sono dunque sempre opere a più autori: noi, gli scienziati sociali, loro, i protagonisti (che solo una visione scientista e politicamente inaccettabile ci ha portato per anni a chiamare “informatori”). Il problema non è, moralisticamente, raccontare agli “altri” una bugia, ma non comprendere che solo negoziando con loro la nostra identità (ovvero, riconoscendo ed esplicitando le asimmetrie di potere insite in questo rapporto) è possibile far sbocciare questa relazione, far avvenire l’incontro tra due mondi.
Si narra che il più celebre antropologo del Novecento, colui che le leggende della disciplina antropologica descrivono come l’inventore del metodo etnografico, sia stato criticato per avere letto alle volte in modo errato le pratiche culturali del gruppo di essere umani al centro del suo più noto studio (siamo in questo caso in un mondo ancora più lontano e “altro”, ovvero nelle isole del Pacifico occidentale). Più di cinquant’anni dopo, una sua collega è tornata nel campo dove questi aveva fatto ricerca. Dopo aver anche lei pubblicato il suo libro, alcuni colleghi le hanno chiesto se alcune incomprensioni del celebre antropologo fossero dovute alla sua non perfetta comprensione della lingua indigena. “Il problema, come mi hanno detto anche alcuni anziani del posto che hanno conosciuto l’antropologo durante le sue ricerche negli anni Venti, è che loro, quando quest’ultimo capiva male, non conoscevano abbastanza bene l’inglese per correggerlo”, ha risposto l’antropologa ai colleghi. Per costruire una relazione, diremmo a Carrère, bisogna essere in due; e forse questa regola vale anche per tutto quel genere di scrittura e di sguardo letterario che siamo soliti chiamare inchiesta sociale. (giuseppe scandurra)