
«Ho fatto il parrucchiere per quarant’anni. Lavoravo fino a sera nel negozio e poi anche a casa delle signore dopo l’orario di chiusura. Ho guadagnato bene e così ho potuto far studiare le mie figlie e fare l’assicurazione sanitaria a tutta la famiglia. Questa è stata la cosa più importante perché ci ha permesso di affrontare i problemi che abbiamo avuto. Operazioni, terapie, riabilitazione. Ho speso una fortuna per la salute della mia famiglia». Sal è originario di Serre, quattromila abitanti alle pendici degli Alburni. Torna a casa più spesso adesso che è in pensione, dopo quasi cinquant’anni a Charleston, South Carolina. Nel gruppo di emigranti che tornano a casa per le vacanze, il tema della sanità in America è uno dei principali argomenti di dibattito, per la grande partita che si gioca tra le compagnie assicurative e i pochi sostenitori dell’intervento pubblico. Concetta gestisce un minimarket a sud di Charleston, in un’enclave italiana che ha formato in quella regione una comunità molto coesa. «Abbiamo un buon lavoro e grazie a Dio non ci è mai mancato niente, però la famiglia è grande e non possiamo fare un’assicurazione completa a tutti quanti. Nelle polizze ci manca sempre qualche malattia o qualche intervento che potresti dover fare. Se c’è un problema torniamo a casa, ci costa di meno l’aereo. L’Italia ci cura anche se abitiamo negli Stati Uniti. Due anni fa mi sono operata a Pozzuoli e non ho speso niente».
Tra i cavalli di battaglia di Donald Trump per le presidenziali, l’attacco all’Obamacare è stato tra quelli di maggior rilievo. Ci è tornato ultimamente sull’Economist, in un’intervista in cui dichiara che se al Congresso passerà la legge sulla sanità, il governo americano risparmierà dai quattrocento ai novecento miliardi di dollari. Cifre enormi che produrrebbero altrettanto rilevanti effetti sulla popolazione americana.
Firmata da Barack Obama nel 2010, la Obamacare è indubbiamente una delle principali riforme della storia del sistema sanitario americano, caratterizzato da squilibri indegni di un paese civile. Proprio su quelle diseguaglianze intendeva incidere la riforma, sostenuta in campagna elettorale dalla Clinton e forse uno degli elementi decisivi della sua sconfitta. L’allargamento della tutela sanitaria a oltre trenta milioni di cittadini, insieme a una serie di altri provvedimenti, non poteva che provocare uno scontro frontale con le compagnie assicurative. Nel testo della legge che Trump intende sostituire, infatti, contrariamente al passato le compagnie stesse non hanno più la facoltà di negare assicurazioni per determinate patologie o sulla base di preesistenti condizioni di salute e i datori di lavoro con più di cinquanta dipendenti devono contribuire alle spese per le assicurazioni sanitarie dei lavoratori. A questo si affianca la possibilità, per i giovani a carico della famiglia, di utilizzare l’assicurazione dei genitori, misura che avrebbe sicuramente sollevato il parrucchiere di Charleston e milioni di altri americani da un incubo, oltre a un ampliamento della copertura del programma d’intervento pubblico Medicaid.
Questa politica sanitaria, sicuramente parziale e non priva di elementi critici, ha provocato una forte scossa dentro il sistema americano, applicando un principio semplice e, peraltro, compatibile con l’attuale status quo in quanto non metteva in discussione la supremazia dei grandi gruppi privati che investono nella sanità, ma provava a garantire la salute di una più ampia fetta di popolazione, ovviamente producendo un aumento della spesa pubblica.
Il sistema sanitario statunitense è in mano a strutture private, a parte due programmi di assistenza pubblica, il Medicare, diretto agli ultrasessantacinquenni e Medicaid, gestito dai singoli stati, finanziato per il sessanta per cento dal governo federale e rivolto alla popolazione a basso reddito. Gli alti costi delle polizze e le politiche spietate delle compagnie assicurative hanno generato un contesto feroce, in cui l’accesso alle cure è una sfida che premia solo i più forti o i più fortunati. Carmelina, per esempio, partita da Monte di Procida negli anni Cinquanta alla volta della Pennsylvania, a causa del suo diabete non è riuscita a ottenere una polizza che la garantisse in caso di determinati interventi chirurgici. Per le compagnie Carmelina è una cliente poco conveniente, in grado di sostenere una spesa media ma con richieste potenziali costose e probabili; per questo la colecisti l’ha asportata in Italia, dove ha affrontato anche un’operazione agli occhi.
Contro situazioni come questa il Patient Protection and Affordable Care Act di Obama aveva posto un argine concreto per quanto parziale, come pure sull’impegno per un ampliamento di copertura sanitaria per una fetta consistente della popolazione che non è in grado di pagare una polizza. Tredici milioni di persone che oggi possono accedere all’assistenza e che con la riforma Trump rischiano di tornare nel Medio Evo. A questi soggetti si aggiungono circa otto milioni che hanno potuto migliorare la propria polizza e un’espansione del Medicaid: complessivamente trentuno milioni di cittadini coinvolti.
Quale sarà il futuro di questa massa enorme di persone non è dato saperlo, negli USA rappresentano il dieci per cento circa della popolazione, in un paese in cui comunque la metà degli abitanti ha un’assicurazione e l’aumento delle tasse sembra inquietarli molto più della salute di milioni di poveri. Perché pagare anche per loro? In questa atroce dinamica dei rapporti di classe, si va delineando un profilo sempre più polarizzato all’interno del quale chi non possiede un reddito o un lavoro fisso è destinato a una qualità di vita nettamente inferiore a quella delle classi abbienti.
Il sistema statunitense ha grandi eccellenze e un sistema di ricerca scientifica con pochi eguali, ma a disposizione solo di chi può permetterselo; oltre a una quota di assistenza pubblica, che Trump vuole tagliare al più presto, in grado di garantire un’offerta che non è comparabile a quella del sistema privato, decretando una netta divisione della società in blocchi con diritti diseguali.
Franco è il primario di un ospedale napoletano che ha assaggiato la sanità americana nei suoi due aspetti, la grande qualità nell’assistenza e i suoi costi.«Gli Stati Uniti mi hanno salvato, e in fondo mi dispiace dover ammettere che è solo perché ero un bianco ricco e ben vestito. Qualche anno fa mentre ero in vacanza a Brooklyn ebbi un infarto. Ricordo poche cose, l’arrivo dell’ambulanza, qualche rumore durante il trasporto, poi il risveglio. Un ragazzo molto giovane venne a salutarmi, aveva saputo che ero un primario di un ospedale italiano ed era venuto a presentarsi. Ero arrivato al Maimonides Hospital in pochi minuti, e subito portato in sala operatoria dove quel ragazzo mi aveva stappato le arterie. Dal primo momento ebbi l’esatta percezione che se fossi stato un afroamericano o un messicano, senza il mio completo di taglio italiano, difficilmente mi avrebbero portato in quel posto. Me ne sono accorto anche quando sono tornato a casa. Ho dovuto fare un mutuo per pagarmi quell’avventura».
I problemi di salute, statisticamente più presenti nelle classi sociali meno abbienti, diventano negli USA un vero inferno per chi non ha un reddito fisso, colpendo spesso anche famiglie agiate che dopo una malattia si ritrovano povere e insicure. Essendo le polizze assicurative legate al contratto di lavoro, perdere la propria occupazione vuol dire entrare in un baratro dal quale è difficile uscire, e dentro il quale ammalarsi vuol dire affrontare una tragedia nella quale le persone sono sole contro un sistema che le respinge. È la contraddizione principale in un paese in cui la Costituzione non garantisce il diritto alla salute e che, nonostante una delle più elevate spese sanitarie al mondo – pari a circa novanta miliardi di euro all’anno –, fa registrare dati di mortalità generali più elevati e un’aspettativa di vita inferiore di circa cinque anni rispetto agli altri paesi dell’OCSE. Secondo il rapporto del Dipartimento Sanitario Federale, redatto in collaborazione con il National Institute of Health, tale aspettativa è di circa settantacinque anni per i maschi e ottanta per le femmine. Il nostro disastrato sistema sanitario, giusto per avere un’idea, riesce a garantire dati più confortanti, con un aumento medio dell’aspettativa di vita di circa tre anni per i maschi e quattro per le femmine. Secondo il rapporto, inoltre, la differenza negativa rispetto al resto dell’OCSE è aumentata negli ultimi trent’anni, con un incremento significativo dell’incidenza di patologie sessualmente trasmesse.
La riforma Trump interviene in un simile contesto sospinta dal consenso di una società insicura che sostiene con le proprie tasse una serie di interventi militari in giro per il mondo. Al di là delle questioni interne alla società statunitense, tuttavia, quanto accade al loro sistema sanitario dovrebbe essere tema di dibattito anche da noi, dove forti sono le pressioni che dalla difficile situazione della sanità pubblica vorrebbero trarre l’occasione per cominciare a parlare di privatizzazione. La proposta di un salto nel buio per liquidare una sanità dotata di grandi professionalità e uno spirito universalistico che sopravvive ai disastri quotidiani provocati dalla pessima gestione politico-amministrativa, in un paese che ha visto negli ultimi anni la spesa sanitaria privata degli italiani lievitare a quasi quaranta miliardi, con il cinque per cento delle famiglie che abbandonano le cure mediche per indisponibilità economica. Una sanità pubblica a due facce, quella di operatori che garantiscono prestazioni di qualità in condizioni di estrema difficoltà e quella delle enormi inefficienze e sprechi ma che nonostante tutto riesce a garantire assistenza in maniera orizzontale, anche alla signora Carmelina che può curarsi gli occhi in Campania al costo di un volo aereo. (antonio bove)