Da più di una settimana la città di Zarzis, al sud della Tunisia, è attraversata da movimenti di protesta che pretendono la verità dalle istituzioni sulla scomparsa di diciotto concittadini in mare.
Il 21 settembre scorso quindici ragazzi, due ragazze e una bambina di un anno e due mesi, tutte di Zarzis, prendono il mare per entrare nella zona europea. Dopo alcuni giorni senza informazioni, le famiglie e l’associazione dei pescatori di Zarzis iniziano autonomamente le ricerche dopo aver sollecitato le autorità tunisine, quelle italiane e le Ong presenti nelle acque internazionali. Secondo Mejid Amor, portavoce dell’associazione dei pescatori, il 26 settembre le ricerche dell’associazione si stoppano in seguito alla notizia, messa in circolazione dal procuratore di Medenine, per cui la barca sarebbe stata intercettata dalla guardia costiera libica e bisognava iniziare le trattative per la loro liberazione. La notizia regge – e con essa il sollievo delle famiglie – fino a quando, il 2 ottobre, iniziano a circolare le immagini di un corpo ritrovato sulla vicina isola di Djerba. Dalle immagini e da un braccialetto al polso, la famiglia ne riconosce l’identità: è il corpo di Malek e il suo ritrovamento riapre l’ipotesi del naufragio. Altre due spedizioni dei pescatori monitorano tutte le coste tra Zarzis e Djerba. Il 9 ottobre, durante la seconda giornata di ricerche, la foto di un corpo ritrovato in mare il 26 settembre scorso viene riconosciuto dalla famiglia dai pantaloncini indossati; fino a prova contraria, è quello di Aymen. La domanda che ci si pone a quel punto è: dov’è il corpo ritrovato il 26 settembre? E dove sono tutti gli altri corpi segnalati durante le ricerche dei pescatori? La trama di retoriche e comunicazioni contraddittorie si strappa l’11 ottobre, in occasione di un incontro ufficiale con il governatore di Medenine, il delegato del prefetto, il vicesindaco e le forze dell’ordine. Al sospetto che i corpi siano stati interrati nel cimitero degli stranieri senza test del Dna, le famiglie pretendono la riesumazione dei cadaveri interrati negli ultimi giorni. È nel cimitero Jardin d’Afrique che si ritrova il corpo della foto riconosciuta dalla famiglia il 9 ottobre e ritrovato dai pescatori il 26 settembre e che la famiglia è convinta fosse Aymen.
Non è stato il mare bensì lo Stato a strappare figli e figlie al sacro gesto della sepoltura. Mercoledì 12 ottobre gli studenti liceali attraversano la città durante tutta la giornata; i blocchi stradali si riproducono nei punti nevralgici di Zarzis; gli uffici comunali e della delegazione occupati dalle famiglie e dalla popolazione. Nelle strade e negli spazi pubblici si creano cerchi o semicerchi di gente in cui la rabbia viene trasmessa in diretta streaming.
Quello che succede a Zarzis spacca il sentimento di vergogna che normalmente accompagna le famiglie di chi è scomparso e che alimenta le accuse alle famiglie degli harraga. Karim vive da venti anni in Italia e sulla barca partita il 21 settembre aveva sua moglie, Mouna Aouyda, e sua figlia, Sajda Nasr, di un anno e due mesi. Prima del 21 settembre avevano ricevuto vari rifiuti alla domanda di congiungimento familiare. Durante il blocco stradale fatto nel suo quartiere, a Souihel, dice: «È tutto quello che mi resta da fare, tanto qui non ti ascolta nessuno, la giustizia dobbiamo cercarla da soli… Sono due giorni che la strada è bloccata e nessuno è venuto a parlarmi, nessuno ci dice niente».
In una dichiarazione al giornale Nawaat fatta il 14 ottobre, dopo tre giorni dalla riesumazione dei corpi sepolti senza Dna, il delegato del prefetto, Ezzedine Khelifi, afferma che dal 21 settembre, “quattro corpi sono stati interrati nel cimitero degli stranieri senza test del Dna. Le autorità non hanno proceduto al test per identificare i corpi dal momento che le famiglie pensavano che i loro figli fossero ancora vivi. Avevano elementi capaci di provare la presenza delle diciotto persone in Libia, per questo i test del Dna non sono stati reputati necessari”.
«Ma non è questione di essere necessario o meno, il test del Dna per la sepoltura di corpi non riconosciuti è e deve essere obbligatoria – afferma Chamseddine Marzouk, a lungo volontario nel cimitero degli ignoti e poi allontanato dalla municipalità –. In una regolare sepoltura di un corpo non identificato, la guardia costiera deve comunicare alla municipalità e al procuratore della Repubblica (che per Zarzis ha sede a Medenine). Il corpo, sotto la responsabilità della municipalità, viene portato all’ospedale dove viene fatto il test del Dna e comunicato al procuratore che dà l’autorizzazione alla municipalità di seppellirlo. Ma è inutile risalire la scala delle responsabilità verso l’alto, piuttosto bisogna discenderla verso il basso: nella pratica più passaggi saltano o non sono veramente rispettati. Spesso le cose si risolvono con delle disattente telefonate o per fax. La municipalità e la guardia costiera lavorano sporco, ci sono stati dei momenti in cui non sapevano dove interrare i corpi o come sbarazzarsene».
“Dignità per tutti e test del Dna su tutti i corpi ritrovati”, è anche il messaggio portato dagli studenti liceali di Zarzis. L’interramento di corpi senza test del Dna attraversa tutte le sponde del Mediterraneo centrale da decenni, a esserne testimone – in parte – è la lotta portata avanti dalle famiglie dei dispersi in mare riunitesi proprio a Zarzis agli inizi dello scorso settembre e che, sollecitando più volte diverse istituzioni tra europee e italiane, non ha mai trovato né risposte né collaborazione.
Poter ricollocare un corpo in una rete di affetti è un atto di dignità personale e collettiva. Le responsabilità delle istituzioni tunisine tradiscono il razzismo che da decenni viola questa dignità e fa da matrice alle pratiche di controllo frontaliero in Europa e nel Mediterraneo: il ritardare le operazioni di soccorso in mare usato come strategia politica, i pushing-back degli harraga con ogni mezzo necessario, il disincentivare il movimento di persone senza documenti al costo della loro vita ne sono un esempio da anni. È anche a questa montagna di pratiche razziste che le mobilitazioni sono reazione e quello che succede a Zarzis non riguarda solo Zarzis.
Nel momento in cui si scrive a Malek, Mouna, Mohammed Ali e Seifddine è stata data degna sepoltura, mentre tredici sono le persone ancora disperse e una è stata riconosciuta dopo la pressione fatta dalle famiglie all’ospedale di Zarzis. Una comunicazione ufficiale della presidenza della Repubblica garantisce le attività di ricerca lungo la costa e sottolinea, in chiusura, che la scomparsa dei corpi è il rischio che si corre facendo harraga e che la responsabilità è di chi decide di farlo. Nel pomeriggio dello stesso giorno l’associazione dei pescatori di Zarzis, le famiglie, gli attivisti locali e la popolazione in solidarietà hanno chiesto ai sindacati di indire uno sciopero generale. Lunedì 17 o martedì 18 ottobre. L’obiettivo del movimento a Zarzis è chiaro: sepoltura per tutte le diciotto vittime. (felice rosa)