È scomparsa ieri all’età di novantasei anni Licia Rognini Pinelli, moglie di Giuseppe Pinelli , ferroviere anarchico ingiustamente accusato per la strage fascista di Piazza Fontana e morto il 15 dicembre 1969 nei locali della questura di Milano, durante l’interrogatorio da parte della polizia.
Pubblichiamo in suo ricordo un estratto da Una storia quasi soltanto mia. La breve vita di Giuseppe Pinelli, anarchico, libro scritto da Licia Pinelli e Piero Scaramucci e pubblicato nel 1982.
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Quando ha cominciato a pesarti questa solitudine?
Avevo molto da fare, e poi era una cosa solo mia. Non avevo né voglia né tempo di pensare alla solitudine. Si stava conducendo una battaglia politica.
Battaglia politica sulla diffamazione, sul fatto che la gente capisse. Quando il fatto di Pino era successo da poche ore un amico mi ha portato un giornalista dell’Unità, Wladimiro Greco: “Signora se lei potesse che cosa direbbe?”.
Non so se la risposta ha soddisfatto il giornale perché poi non è uscito niente. Io gli avevo detto: “Lei faccia un appello ai parenti delle vittime di piazza Fontana che non si accontentino della verità ufficiale ma che cerchino la verità, che non sono gli anarchici. E non si accontentino di quello che gli stanno raccontando”. Poi non se n’è fatto niente, logicamente, perché sai come si sono mantenuti cauti.
Pino è stato il granellino di sabbia che ha inceppato un meccanismo. Dopo la bomba di piazza Fontana avevano cominciato la caccia agli anarchici, che erano la parte più debole, e poi sarebbero andati avanti grado a grado contro tutta la sinistra. La morte di Pino è stata un infortunio sul lavoro, per loro sarebbe stato più comodo metterlo in galera con gravi imputazioni e tenerlo dentro per anni, come Valpreda. Invece gli è successo questo infortunio e lì l’opinione pubblica ha cominciato a capire.
Non tutti e non subito.
Non da subitissimo, alcuni dopo qualche giorno hanno cominciato a chiedere di più di una versione ufficiale, ma non su tutti gli anarchici, si sono cominciati a porre delle domande su Pino. C’era un’atmosfera come se fossero attoniti, come se la sinistra fosse stata presa in contropiede, uno sbigottimento.
Poi c’è stato il capovolgimento, le persone più intelligenti si sono poste subito delle domande, le persone più intuitive, alcuni giornalisti, la Cederna, Stajano, Nozza, Nozzoli, l’avvocato Malagugini e tanti altri.
Te lo ricordi come si sono comportati i giornali, le dichiarazioni degli uomini politici?
Vedi, io ricordo e non ricordo. Andavo avanti per la mia strada e non mi importava di niente. Quando mi venivano a dire: “Hai visto che bell’articolo?”. “Benissimo”, era giusto che fosse così. Qualcuno mi pare ha messo “suicidio” con il punto interrogativo. C’è stato un giornale che è uscito così. I miei amici mi toglievano accuratamente i giornali dalle mani, i primi giorni.
Non c’è stato un momento in cui ti sei resa conto che il nome di Pino era diventato una bandiera? Nelle prime ore dopo la strage di piazza Fontana pochissimi hanno reagito contro la tesi della pista anarchica. Quando è morto Pino hanno cominciato gli anarchici, alcuni democratici, qualche gruppo della sinistra extraparlamentare, poi i partiti di sinistra…
Mi ricordo la gente non politica in quei giorni, cioè la reazione di gente comune che mi dava solidarietà. Quelle lettere, quei biglietti che ti dicevo, in portineria, ai primi di gennaio, con pacchi, regali… Persone completamente estranee che mi scrivevano parole di incoraggiamento, di conforto. I vicini che erano sempre per casa ad aiutare, e nessuno di loro ha mai detto ai giornali una parola che non fosse positiva su Pino, sulla famiglia.
Molte volte anche i giornalisti mi vivevano più come una persona che come un caso. C’era Manrico Punzo dell’Avanti! che per la Befana è venuto con due bambole, bellissime, che abbiamo ancora e poi è tornato e mi diceva di suo padre che era stato confinato dai fascisti a Ventotene dove il direttore del carcere era Marcello Guida, proprio lui, il questore di Milano che io avevo denunciato. Un altro era un ragazzo di Stop che mi voleva intervistare ma io preferivo non dare interviste e lui è rimasto lì due ore a parlare e mi ha raccontato tutta la sua vita. Era molto nervoso e gli ho regalato un pacco di tranquillanti che mi aveva portato un amico medico. Io non volevo prenderli. In quei giorni sono venuti anche i socialisti della sezione Torchietto con una colletta e tante lettere, molto a livello umano più che politico.
Era come una carezza avvolgente che mi consolava.
Ti dicevo che pian piano Pino era diventato una bandiera. Sono cominciate assemblee di movimento, di giornalisti democratici, si sono mossi i partiti della sinistra. Anche i magistrati democratici avevano trovato una base di lotta. C’erano manifestazioni contro la strage di Stato, scontri con la polizia, sui muri di Milano centinaia di scritte per Pino e per Valpreda, volantini, articoli, libri alimentati dalla controinformazione che faceva la sinistra. In tutto questo crescere di mobilitazione il nome di Pino era diventato un simbolo, un punto di riferimento per una parte della società. Tu te ne rendevi conto?
Me ne rendevo conto sì, anche se era una cosa al di fuori di me. Io non avevo una visione politica, una esperienza. Il movimento studentesco lo conoscevo per sentito dire, me ne parlavano gli amici: la Statale allora non sapevo nemmeno dove fosse. Sarà stata la mia natura. Non ero abituata, non l’avevo mai fatto.
Io facevo questa cosa strettamente legale. Giravo in macchina da un avvocato all’altro, quella era la mia vita e non vedevo altro attorno.
Non hai mai avuto l’incubo di camminare in un tunnel buio? Cammini lo stesso e vai. Speri di avere qualcuno che ti aiuti, però vai lo stesso, ciecamente.
Perché questa immagine del buio?
È quello che mi è venuto in mente, che andavo così… Vedevo solo quello che volevo fare, solo quello.
Non pensi, oggi, di esserti troppo isolata dal resto del movimento?
Forse se non fossi stata così staccata dalla vita politica avrei fatto delle cose diverse, avrei agito nel collettivo. Ma non posso criticarmi o lodarmi oggi. Sono gli altri che devono giudicare, se questa esperienza può servire a qualcuno.
A gennaio Lotta continua aveva cominciato ad attaccare il commissario Calabresi accusandolo apertamente di avere ucciso Pino. Sono uscite una serie di articoli e le vignette di Roberto Zamarin, ti ricordi quei primi numeri?
Compravamo molti giornali per avere le diverse versioni, ma non conoscevo Lotta continua, più tardi me l’hanno segnalato e ho visto qualche vignetta, con ritardo. Poi naturalmente me ne sono interessata quando c’è stata la prima querela di Calabresi, in maggio. Quello che ricordo è che Calabresi ha dovuto querelare per tre volte Pio Baldelli, che firmava Lotta continua, la magistratura sembrava che non avesse molta voglia di fare il processo. Mi ricordo che ci fu uno scandalo su alcuni giornali, si diceva che il procuratore De Peppo si teneva le denunce nel cassetto, e si arrivò fino a ottobre per avere il processo.
Che ne dicevate nel vostro gruppo?
Non c’era una questione di priorità, l’importante era arrivare in tribunale. Noi nel frattempo avevamo aperto una causa civile, che poi si è trascinata a lungo, non ti dico quanto, perché erano tutti con il fiato sospeso a vedere come andava a finire il processo Calabresi-Lotta continua. Comunque per noi andava bene. Con queste tre querele si andava finalmente in tribunale e quando c’è un dibattimento pubblico qualcosa salta fuori.
Non hai mai avuto paura che uscisse fuori qualcosa contro Pino?
Io ero certa di lui. Gli altri potevano non esserlo. Anzi avevo preso un impegno con gli amici del gruppo di non nascondere niente. Se fosse venuto fuori qualcosa di cui fossi stata all’oscuro avevo preso l’impegno di dirlo e l’avrei mantenuto.
Come potevi essere certa che Pino non avesse per esempio delle conoscenze che gli avessero fatto fare qualche passo falso?
Vedi, la casa era molto piccola, le telefonate le prendevo io, si sentiva tutto attraverso le pareti, leggevo la posta. Pino poi con me era trasparente, magari voleva tacermi qualcosa ma finiva sempre per dirla, le bugie non era in grado di raccontarle perché aveva un suo modo di esprimerle che le capivo subito. Ci capivamo molto. Il trovarsi d’accordo nelle sfumature e nelle risposte da dare agli altri, guardarsi ed essere veramente d’accordo sulla frase che io sto dicendo e lui la sta dicendo nello stesso modo, sulla stessa lunghezza d’onda, con un’occhiata. C’era un quiz in tv: si presentavano due coppie, di ogni coppia uno doveva rispondere a una domanda e l’altro, della stessa coppia, che non sentiva, doveva dare la stessa risposta. Come affinità elettive. Ecco, Pino aveva mandato la domanda di partecipazione, non so se ti ho risposto. Eravamo cresciuti bene insieme.
A ogni modo avevo preso questo impegno e l’avrei mantenuto costasse quel che costasse. Era un rischio da correre. Anche se c’è stata una volta che ho avuto la tentazione di nascondere una cosa. Dopo l’autopsia. Gli avvocati mi hanno detto che c’erano dei segni sulle gambe. Io sapevo che Pino si era fatto male in ferrovia qualche giorno prima ma sul momento sono stata zitta. È durato poco, poi l’ho detto.
Che cosa potevano sembrare quei segni?
Picchiato. La tentazione è stata forte, ma è stata l’unica volta. Anche perché io non volevo nascondere niente, volevo difendere Pino e le sue idee. Perché morire solo per delle opinioni politiche…
Te lo sarai sentita dire, magari con delicatezza perché eri la vedova: se fosse stato tranquillo, se non avesse fatto politica, se non fosse andato in giro…
Senza tanti complimenti me lo sono sentita dire. Per conto mio possono prendere un impiegato di banca, accusarlo di qualsiasi cosa. Cioè il tipo tranquillo, che non fa politica, casa, chiesa, lavoro. Può capitare in qualche cosa che non dovrebbe né vedere né sentire, e diventa un capro espiatorio, è molto facile.
È successo a Pino perché era anarchico, domani può succedere a qualsiasi altro, non importa se fa politica, se ha idee politiche o anche se è senza fede politica. Non è che ci sono sempre gli anarchici, può capitare a tutti. Se la gente riuscisse a capire questo. Perché c’è sempre bisogno di un capro espiatorio quando non si vogliono scoprire i colpevoli e il capro espiatorio diventa il mostro.
Ti ricordi cosa aveva detto mia suocera quella notte: “Licia, vedrà, domani, i giornali, adesso lui diventerà il colpevole di tutto”. “Hanno sbagliato”, le risposi. “Dovevano buttarne giù un altro. Ora faranno i conti con noi”.