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italia
19 Febbraio 2025

Università e precariato. Le prospettive della mobilitazione contro la riforma Bernini

Flora Molettieri
(disegno di escif)

A partire dallo scorso autunno, in molte città d’Italia si sono costituite decine di assemblee, formate da precari e precarie della ricerca, studentesse e studenti, docenti e personale tecnico-amministrativo, in netta opposizione al Ddl Bernini, riforma che accelera lo smantellamento dell’università pubblica e si inserisce in un processo di lunga durata di precarizzazione e privatizzazione di didattica e ricerca. A questi primi provvedimenti che consistono nell’introduzione di nuovi contratti precari (borse junior, senior, professore aggiunto) e tagli di circa settecento milioni nel prossimo triennio, che si sommano al mezzo miliardo del 2024, seguirà una riforma strutturale della governance universitaria che si sta preparando a porte chiuse e riguarderà l’intero sistema universitario.

Dietro aule, uffici e laboratori si cela una realtà spesso ignorata, quella di chi, pur essendo il motore della didattica, della ricerca e dei servizi, lavora con contratti a termine, senza prospettive di stabilità o garanzie di rinnovo. Dottorandi, assegnisti, ricercatori, docenti a contratto e personale tecnico-amministrativo, sono tutti vittime di un sistema fatto di incertezza e sfruttamento.

A fronte dell’attuale prospettiva, per chi entra nel circuito della ricerca, di anni e anni di precariato prima di arrivare, forse, alla stabilizzazione, la ministra introduce nuove figure intermedie, ancora una volta prive di dignità e diritti, ancora una volta ferme in una zona burocraticamente grigia che non le riconosce come lavoratrici. Le precarie e i precari della ricerca, però, lavorano eccome: mandano avanti progetti e didattica, integrano le attività dei docenti strutturati, e spesso li sostituiscono. La ministra a parole chiama all’unità nazionale, definendo la ricerca italiana come “settore d’eccellenza” ma di fatto contribuisce a normalizzare il precariato che da tempo immemore affligge l’università pubblica.

Nel frattempo, i tagli al Fondo di finanziamento ordinario rafforzano un sistema in cui la ricerca dipende da fondi straordinari e progetti europei e internazionali (Marie-Curie, Erc grants, ecc.) estremamente competitivi, incentivando una logica produttivista che soffoca la libertà di ricerca e di insegnamento. Dispositivi come i Vqr (Valutazioni della qualità della ricerca) dell’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca) assegnano i fondi sulla base del numero di pubblicazioni dell’ateneo, numero di grants europei vinti, valutazione media degli studenti e delle studentesse, progressioni di carriera, ma anche qualità delle strutture, digitalizzazione e altri criteri basati su logiche premiali e non sul bisogno, concentrando la gran parte dei finanziamenti in grandi poli e pochi settori che rispondono alle esigenze di mercato. In questo senso, la retorica meritocratica che si cela dietro i parametri di premialità, eccellenza e autonomia è in realtà un sistema viziato a monte che esacerba le diseguaglianze territoriali e mette a rischio l’esistenza stessa delle università considerate di “serie B”, lontane dalle grandi metropoli universitarie.

Il discorso del merito e della premialità vincola anche l’assegnazione di alloggi e borse in una logica competitiva che discrimina in base alle condizioni socio-economiche di partenza, svantaggiando chi deve conciliare lo studio con un lavoro esterno e le persone, molto spesso donne, su cui grava il peso del lavoro di cura.

Mentre l’università pubblica viene de-finanziata, il sistema formativo privato e telematico si rafforza, presentandosi come unica alternativa a chi non può permettersi la mobilità. Parallelamente, i finanziamenti seguono logiche di mercato: le tematiche di ricerca sono sempre più dettate da finanziatori privati, direttive europee orientate all’industria e interessi legati al riarmo. Questo meccanismo riduce la ricerca, anche quella dell’università pubblica, a un ingranaggio della macchina produttiva, subordinandola alle esigenze delle grandi aziende e del complesso militare-industriale. Il caso delle collaborazioni con aziende come Leonardo o Eni, coinvolte per giunta nel genocidio del popolo palestinese, mostra come il sapere venga sempre più piegato a interessi economici e geopolitici. Nel medesimo processo di militarizzazione dell’università è coinvolto anche il Ddl sicurezza 1236, firmato dai ministri Nordio, Piantedosi e Crosetto che all’articolo 31 prevede l’obbligo di collaborazione e assistenza di enti pubblici, compresi quelli di formazione, con i servizi segreti nazionali, mettendo in serio pericolo la libertà di ricerca, di insegnamento e la privacy di studenti e lavoratori.

Alla luce di tutto ciò, nel fine settimana tra l’8 e il 9 febbraio, le varie assemblee precarie, insieme a collettivi e sindacati, si sono date appuntamento a Bologna. La sede di via Zamboni 38 dell’università, è stata raggiunta da oltre quattrocento persone provenienti da tutta Italia. Sono stati due giorni di rabbia e di elaborazione, di scambio di pratiche ed esperienze di lotta contro i tagli, la riforma del pre-ruolo e le logiche premiali di assegnazione di fondi agli atenei, di borse di studio e di ricerca.

Da novembre 2024, esiste anche a Napoli un’assemblea precaria, che lavora incessantemente dentro e oltre l’università, attraverso momenti pubblici di discussione e proposte di mozioni all’interno degli organi istituzionali degli atenei, nonché organizzando la mobilitazione per un rigetto secco del decreto Bernini, dei tagli che impone e del modello di università entro cui si inserisce, per la realizzazione di un sistema formativo pubblico democratico, finanziato e partecipato. A Bologna, l’assemblea precaria napoletana ha portato la prospettiva di chi vive le università del Sud, marginali e periferiche per definizione, penalizzate dai meccanismi premiali dei finanziamenti, e sempre più dipendenti da investimenti di privati che in questo modo hanno il potere di influenzare didattica e ricerca.

Le assemblee precarie che da mesi lavorano tra Napoli, Pisa, Firenze, Roma, Palermo, Salerno e tante altre città, a Bologna non si sono riunite solo per opporsi a riforme e tagli, ma si sono proposte di ripensare l’intero sistema universitario e si sono date una piattaforma rivendicativa chiara e condivisa: stabilizzazione del precariato dalla ricerca e del personale tecnico-amministrativo, rigetto della riforma Bernini, raddoppio del fondo di finanziamento ordinario, abolizione dell’Anvur, rescissione di ogni accordo e partnership con imprese che alimentano e sostengono guerre e massacri, affermazione del diritto ad alloggi e borse di studio svincolato dalla performance universitaria e dai criteri di premialità, pretesa di una ricerca autonoma e libera, che non sia piegata all’interesse del mercato.

È un’esperienza, quella di Bologna, che invita a costruire una mobilitazione ampia e trasversale capace di affermare con forza che questo modello non è sostenibile né equo: non c’è niente da difendere del sistema universitario pubblico vigente, ma tutto da costruire, immaginare e ripensare.

Precarie e precari dell’università, insieme alla componente studentesca, hanno capito di essere centrali e rivendicano il loro protagonismo, ribadendo la necessità di organizzarsi e lottare insieme per un modello nuovo, che garantisca tutele e prospettive e che sia capace di assolvere ai bisogni di tutte e tutti.

La mobilitazione è appena iniziata e continuerà in tutte le città in cui le assemblee precarie sono presenti e operano dentro e fuori l’università. L’obiettivo è quello di costruire uno sciopero che coinvolga tutte le componenti sfruttate e precarie della formazione. (flora molettieri)

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