
Non di rado, nel teatro come nell’arte, per scoprire eventi che ci raccontano il mondo con uno sguardo inedito sul nostro tempo, occorre allontanarsi dagli spazi ufficiali. Allora può accadere che in un giardino, in un centro sociale, in una chiesa sconsacrata, sulla terrazza di una torre o in una masseria di un piccolo centro agricolo, si venga coinvolti in esperienze che ci fanno sentire parte di un processo creativo collettivo di gran lunga più vitale delle manifestazioni dei festival (spesso deludenti e ammorbati da squallide lotte di potere, come quello nazionale a Napoli) o della solita e triste programmazione istituzionale.
Qualcosa del genere è accaduto a Milano nei giorni scorsi con lo spettacolo Vite di scarto, che Loredana Putignani – regista e autrice, oltre che docente di teatro all’Accademia di Brera – sta portando da tempo in scena (in spazi che incantano per l’indiscutibile fascino legato alla nostra storia), dopo un lungo percorso multidisciplinare con un gruppo di giovani allievi – artisti, musicisti, performer – provenienti da ogni angolo del mondo: dalla Siria al Pakistan, e poi Atene, Cipro, Istanbul, Belgrado, fino ai paesi dell’Africa che si affacciano sul Mediterraneo.
L’allestimento del nucleo performativo dei giovani è stato scelto da Marina Abramovic. Questa volta la regista ha pensato di metterlo in scena nell’ex chiesa San Carpoforo a Brera. E l’evento, che ha visto un’attenta ed entusiasta partecipazione di giovani, si è rivelato ancora una volta di straordinaria forza visionaria; un’originale espressione poetica da ricondurre all’intima relazione che in Putignani lega da sempre la dimensione dell’arte al proprio vissuto, alle proprie scelte di vita.
Lo spettacolo in realtà è l’approdo di un discorso drammaturgico che viene da lontano: dal lavoro con i rom a Bologna (che la regista coinvolse, alla fine degli anni Novanta, in un intenso spettacolo al Teatro Nuovo di Napoli); al rapporto artistico, oltre che umano, che stabilì con un gruppo di extra-comunitari e ragazze nigeriane, protagonisti a Napoli di pièce che anticiparono i temi dello sradicamento dei popoli migranti, dell’identità perduta, del rapporto e dell’incontro con l’Altro. Difficile dimenticare, a questo proposito, il monologo di Youssef Tayamoun, compagno d’arte e di vita della regista, quando in Materiali di isolamento, andato in scena a Napoli, ci parlava della sua vita da clandestino, della luce e dei deserti della sua Africa, di un mondo sottratto alla vita e alla speranza; uno struggente sentimento del tempo che nasce dall’idea di un teatro come territorio delle origini in cui ogni uomo possa ritrovare se stesso, la sua memoria e la sua identità e, nello stesso tempo, come ponte per unire mondi e culture diverse.
Questo teatro di resistenza a ogni forma di omologazione, in fondo, inizia negli anni Ottanta con Antonio Neiwiller, attraverso una sperimentazione che, a partire dall’attività di laboratorio, era attenta, sulle tracce della poetica pasoliniana, alla marginalità sociale, alla fondazione di comunità aperte e alla dimensione del corpo in uno spazio scenico povero, denudato. Senza più velario. Vite di scarto ha un legame imprescindibile con tutto questo, con il tentativo della regista di intercettare – come ha scritto Braucci nel bel catalogo che accompagna lo spettacolo – quell’incrocio di vissuti giunti fino a noi con il loro carico di esperienze e linguaggi, da osservare e sentire come spiragli di realtà complesse, tragiche e combattive. In Vite di scarto questo mondo viene portato alla luce dai giovani e bravi performer riattraversando – come sottolinea Putignani – la poetica corporea neiwilleriana del Teatro dei Mutamenti; una corporeità che trasforma lo spazio scenico in spazio poetico, dove i gesti degli attori e i segni alludono a lontane periferie del mondo, a spazi immaginifici, a un’umanità alla ricerca di un altrove che ci liberi da ogni sorta di oppressione e crudeltà del mondo.
In molte azioni si avvertono echi dei grandi maestri del Novecento: soprattutto Kantor e Beuys, che ispirò il teatro di Neiwiller e le stesse drammaturgie della Putignani. Vite di scarto evoca La Natura indifferente, spettacolo indimenticabile di Neiwiller dedicato a Joseph Beuys, l’artista tedesco che considerava la creatività uno strumento di liberazione umana. Altri elementi drammaturgici – il ritmo rapsodico delle azioni, le ombre e le luci che tagliano i corpi, i materiali poveri della scena – rinviano all’immaginario kantoriano.
Vite di scarto è soprattutto, per dirla con Leo De Berardinis – con cui la regista ha condiviso una parte significativa della sua esperienza artistica –, spazio della memoria, non ricordo fossile di un mondo remoto, ma memoria attiva che cerca di superare lo schermo mimetico della rappresentazione per trasformare il luogo dell’azione in uno spazio di vita con la comunità degli spettatori. Attraverso le azioni dei performer, si ha infine chiara la sensazione che lo spazio scenico pensato da Putignani sia nient’altro che un luogo dell’Essere: un “non luogo” dove tutto contribuisce a fondare un altrove, una trama dell’esistenza fatta d’immaginazione e poesia che ci fa ascoltare il battito e il respiro dell’Altro. (antonio grieco)