Quando entro nel cortile dell’Oratorio di Santa Maria della Fede, il sole è alto e scalda il selciato, le colonne del porticato sono ancora in ombra. Vedo un tavolo con alcune sedie attorno e Cecilia mi saluta, con un sorriso mi fa cenno di visitare la mostra che ha allestito in un’ala del piano terra. «Quando ho tempo, rimango qui per parlare con i visitatori. Che senso ha esporre le proprie opere e andarsene?». Vicino a noi alcune ragazze provano passi di danza su un palco improvvisato, in un angolo una lastra recita: “Vico Pallonetto a Santa Chiara”.
«Questo era un convento – mi dice Cecilia Battimelli –, poi divenne un luogo di reclusione e ricovero per donne. Tempo fa è stato dimenticato ed è rimasto a lungo in abbandono». Due anni fa un comitato di cittadini ha occupato l’Oratorio. «Ora la Santa Fede Liberata accoglie iniziative e progetti come la mia mostra. C’è un’assemblea ogni domenica mattina». Cecilia scosta un tendaggio e davanti a me si aprono tre sale comunicanti, intorno s’espande un rumore di fondale marino.
Da vent’anni Cecilia riflette sui morti in mare tra l’Africa e la Sicilia. Nel 1996 un barcone affondò al largo di Porto Palo e trascinò centinaia di vite in fondo alle acque. «Allora non si diede importanza alla notizia. Il mio lavoro è un tentativo di contrastare questa indifferenza». Negli anni i pescatori hanno ritrovato i resti della tragedia impigliati nelle reti: la ricerca di Cecilia s’origina da questa emersione improvvisa del rimosso. Come se il mare fosse una tomba d’oblio e al contempo una corrente che trascina le tracce e i ricordi a galla.
Osservo le foto – spuma di mare, occhi vitrei di pesci, barche contro il tramonto – già esposte in una installazione del 2004, Mare Nostro. «In quell’occasione esposi le mie opere nelle sale di Castel dell’Ovo». Era un tentativo di affrontare il naufragio tra il silenzio delle antiche prigioni e il mormorio del mare. In occasione di Mare Nostro Cecilia appese trasparenti sacchetti d’acqua con fotografie trattenute all’interno. «Ho recuperato alcune immagini di allora e le ho inglobate nelle pitture a tempera della terza sala». La mostra procede per stratificazioni di materiali artistici passati.
Mentre cammino per le stanze getto uno sguardo fuori dalla finestra e vedo le ragazze danzare, mi sembra un contrappunto di vita che s’intona al malessere. «Sono contenta di esporre qui, l’altro pomeriggio era così calmo intorno e mi sono addormentata in un angolo sotto il sole». Cecilia mi invita a esplorare le stanze dei piani superiori. Al primo piano i muri scrostati accolgono materiali di scena e un teatro delle guarattelle, ai piani superiori le pareti sono ancora più ruvide e mostrano strani volti disegnati. «Quando sei in alto, affacciati al balcone e guarda verso Santa Chiara, vedrai il nuovo edificio in costruzione, dicono in giro che diverrà una beauty farm». Sotto la luce che abbaglia ho visto un complesso di cubi rosa sovrapposti, impalcature e due operai in riposo. Il tetto della basilica spuntava appena oltre l’edificio che cresce.
Infin che il mar fu sovra noi rinchiuso, è il titolo della mostra. Eppure “noi” – l’artista, gli spettatori –, noi non siamo i sommersi. E nemmeno siamo i salvati, gli scampati al mare. Noto che alcune immagini mostrano volti e corpi di migranti giunti su questa nostra riva: ritratti di coloro che oggi abitano con noi la città. Cecilia vuole portare testimonianza dei naufraghi inghiottiti e dei viventi che ci hanno raggiunto. Poiché non sappiamo bene chi siamo, noi testimoni, in ogni stanza è disposto uno specchio che ci ritrae.
Credo che la questione più urgente, per chi è nato al di qua del mare, sia la regolazione dello sguardo, o “fuoco attenzionale”. Per questo nelle stanze appaiono tanti occhi spalancati. In un angolo c’è una scatola magica, parente della favolosa lanterna magica. Lo spettatore che avvicina la pupilla al visore può osservare, in basso, un quieto fondale marino con croce mortuaria. Ma proprio di fronte a sé l’occhio s’accorge di essere osservato da un altro occhio identico: se stesso nell’atto di scrutare la tomba sottomarina. (francesco migliaccio)
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