È luglio 2014 quando il colosso statunitense degli elettrodomestici Whirlpool corporation rileva la Merloni elettrodomestici, multinazionale italiana proprietaria dei marchi Indesit, Ariston, Hotpoint e Sholtes. Obiettivo del gigante americano è la leadership della multinazionale italiana in due importanti mercati, quello russo e quello europeo, e il controllo delle innumerevoli nicchie connesse. L’acquisizione spinge la multinazionale a una massiccia ristrutturazione che passa attraverso il potenziamento dei suoi impianti nei paesi dell’Europa orientale e in Turchia, e attraverso la chiusura di alcuni stabilimenti in Inghilterra, Germania e Italia. Gli stabilimenti casertani della Indesit Company di proprietà del gruppo sono i primi della lista. È l’aprile del 2015. Alla notizia dei licenziamenti gli 815 operai del sito danno inizio a una lotta che durerà due mesi e mezzo, con picchetti ai cancelli, cortei a Roma e blocchi stradali. A giugno 2015 la corporation annuncia l’abbandono definitivo dell’attività produttiva negli stabilimenti casertani di Teverola e Carinaro poiché non più “economicamente sostenibili”.
Nel maggio 2019 a non essere più “economicamente sostenibile” è lo stabilimento napoletano del gruppo, quello di San Giovanni a Teduccio. La multinazionale ha comunicato in modo unilaterale ai sindacati la volontà di cedere il sito a una società terza. Alla notizia della cessione le 420 tute blu napoletane hanno incrociato le braccia e bloccato la produzione. Alla loro protesta si sono uniti i lavoratori degli altri quattro stabilimenti italiani del gruppo. Si oppongono alla chiusura dello stabilimento napoletano e pretendono il rispetto del piano industriale da 250 milioni d’investimenti per il triennio 2019/21 – diciassette dei quali destinati allo stabilimento di San Giovanni – firmato da azienda e sindacati al ministero dello sviluppo economico il 25 ottobre 2018.
Lunedì 3 giugno
È il terzo giorno di picchetti ai cancelli della fabbrica. «Sono qui da venerdì – dice Pasquale –, sono tornato a casa giusto qualche ora. Sono trentadue anni che lavoro in questa fabbrica, nel reparto verniciatura. Qui negli anni Novanta facevamo un milione e mezzo di lavatrici all’anno. Noi operai abbiamo sempre dato. Adesso non c’è più nulla da dare. Qui si lavora con una saturazione al cento per cento. Tecnicamente significa che se viene stabilito che devi fare 270 pezzi all’ora tu li devi fare punto e basta. Per ogni operazione hai otto-dieci secondi e devi rispettare questi tempi. Qua ci stanno donne che non hanno nemmeno il tempo di andare in bagno. Ora vogliono vendere? Noi non arretriamo. Hanno firmato un accordo l’anno scorso e ora devono rispettarlo. Se chiudono, chi mi dà lavoro a cinquantotto anni? Come fanno le mamme che lavorano qua dentro a mantenere i figli?».
Sono da poco passate le undici di mattina. Sulle scale all’ingresso dello stabilimento si discute dell’assemblea sindacale da poco terminata e delle azioni di lotta previste per i prossimi giorni. A tenere il megafono tra le mani è Silvia Curcio, volto storico della vertenza ex-Iribus di Valle Ufita. È arrivata a via Argine con una delegazione di operai e operaie avellinesi per sostenere la lotta dei metalmeccanici napoletani. Invita gli operai e le operaie a lottare per difendere la fabbrica: «Noi ad Avellino sono sette anni che lottiamo per la nostra fabbrica. Dovete parlare alla gente e la dovete portare dalla vostra parte. Se occorre, anche alle processioni dovete andare per far sentire la vostra voce. Gli operai devono camminare avanti e il sindacato dietro».
Sulle scale ci sono anche gli ex operai Indesit di Teverola e Carinaro. Nel 2015 furono in cento essere trasferiti qui a San Giovanni a seguito dell’accordo firmato da azienda e sindacati nel luglio dello stesso anno. Sulle sedie sparse qua e là per il piazzale sono invece seduti i vecchi operai Whirlpool ora in pensione. Sono venuti per sostenere la lotta di figli e figlie. Nello stabilimento napoletano c’è sempre stata la possibilità di lasciare il posto in fabbrica a un figlio, e gli operai hanno preferito rinunciare a una parte della loro liquidazione pur di garantire ai figli un lavoro duro ma sicuro.
I problemi dello stabilimento di San Giovanni nascono ben prima della ristrutturazione realizzata in Europa dalla multinazionale americana a partire dal 2015. La fabbrica napoletana si è sempre caratterizzata per la produzione di due tipologie di prodotto: una lavatrice a basso contenuto tecnologico e una lavatrice ad alto contenuto tecnologico, la Omnia, che rappresenta l’alto di gamma del gruppo. La lavatrice ha un motore chiamato “zen” a indicare la sua bassa rumorosità. Questo prodotto, su cui il gruppo investe moltissimo, non incontra però il favore del pubblico, sempre più impoverito sotto il profilo del reddito e del consumo. La congiuntura tra “scarso rendimento del prodotto sul mercato” e “acquisizione del marchio Indesit” (avvenuta nel luglio 2014) ha effetti fortemente negativi. Prima dell’acquisizione di Indesit, lo stabilimento napoletano aveva un volume produttivo di 900mila pezzi all’anno con circa 700 addetti. A seguito dell’acquisizione e delle difficoltà incontrate da Omnia sul mercato, i volumi produttivi cominciano a scendere al di sotto dei 500mila pezzi all’anno e a molti operai viene proposto, attraverso un sistema di incentivi, il trasferimento in altri siti produttivi come Varese e Comunanza.
È quasi l’una quando Pasquale mi presenta Stefania, una delle tante operaie che da tre giorni presidiano la fabbrica con figli, mariti e colleghi. «Da nove anni siamo in contratto di solidarietà, lavoriamo tre giorni a settimana per sei ore al giorno. In questi anni solo noi operai abbiamo stretto la cinghia: zero assenteismo, zero malattia, zero infortuni, saturazione al cento per cento. Io sono sulla linea di assemblaggio. Tre giorni a settimana il lavoro è meno faticoso, ma guadagni anche meno. Non si può vivere con 600-700 euro al mese. Noi da qua non ci muoviamo e pretendiamo il rispetto dell’accordo del 25 ottobre. Lo stabilimento non lo lasciamo. Io sono entrata in fabbrica sedici anni fa, prima di me c’erano entrambi i miei genitori. Ho una bambina di sei anni e sto lottando soprattutto per lei. Non ci fermeremo e siamo disposti a tutto per difendere il nostro lavoro, che per noi significa casa, figli, marito, amici. Tutta la nostra vita in poche parole».
Sono le due quando Francesco mi accompagna all’uscita dello stabilimento. A venirci incontro è sua sorella Marica, munita di caffè e sigarette. Il suo sorriso è ancora quello dei tempi dell’università. È stata lei a girarmi il numero di cellulare del fratello. Francesco è ancora sotto shock per la decisione dell’azienda, ma determinato a proseguire la battaglia per la difesa del posto di lavoro: «La settimana scorsa abbiamo ricevuto quattro certificazioni che attestano come la nostra fabbrica sia al vertice in termini di innovazione, produttività ed efficienza. Io ci sono entrato nel 2003, quando qui si produceva un milione di lavatrici all’anno. La crisi ci ha distrutto e nel giro di pochi anni abbiamo perso i volumi produttivi di un tempo. I dirigenti hanno puntato su lavatrici d’alta gamma che costano tanto e che in un periodo di crisi non hanno mercato. Dietro la decisione di venerdì c’è però anche il tentativo da parte del gruppo di liberarsi degli stabilimenti meridionali e tenersi soltanto quelli del nord Italia. In fabbrica la gente è incazzata nera perché ha il marito o la moglie che lavora nella stessa azienda e sarà l’intero reddito familiare a venir meno se la Whirlpool dovesse realmente chiudere i battenti. Stiamo male perché la fabbrica per noi è un luogo di aggregazione e non solo di lavoro. Abbiamo il CRAL dove facciamo teatro e tante altre attività. Tra noi c’è un affetto che va oltre il lavoro e questo rappresenta la nostra forza. Poi qui hanno lavorato molti padri degli attuali operai, è quasi una fabbrica a carattere familiare. Saremo qui a picchettare lo stabilimento fino a quando non ci daranno risposte. L’obiettivo è di ritornare in fabbrica presto e mantenere il posto di lavoro. Intanto domani tutti a Roma al ministero. Saremo più di mille».
Martedì 4 giugno
Al ministero dello sviluppo economico Luigi Di Maio siede al tavolo di fronte al rappresentante della multinazionale e di fianco ai rappresentanti delle principali organizzazioni sindacali e a quelli di Comune e Regione. Sono le otto di sera quando Francesco finalmente risponde: «Domattina alle dieci ci sarà un’assemblea in cui i delegati spiegheranno punto per punto cosa è stato detto al tavolo ministeriale. Stai malato? Vabbuò ti faccio una videochiamata a volo».
Mercoledì 5 giugno
«Il ministro – racconta il delegato mentre Francesco cerca di stabilizzare l’immagine della camera dello smartphone – ha utilizzato toni molto forti verso l’azienda. Ha mostrato loro l’accordo del 25 ottobre in cui si impegnavano a investire diciassette milioni sulla fabbrica di Napoli e a garantire il trasferimento della produzione di alcune lavatrici dalla Polonia a Napoli. Il ministro ha detto che hanno preso in giro tutti. In caso di chiusura chiederanno la restituzione del denaro che il governo italiano ha trasferito alla Whirlpool nel corso degli anni. Sono venticinque milioni in totale, più quelli elargiti in passato».
Il tavolo ministeriale è stata un’occasione per chiarire le posizioni del governo rispetto a tutti gli stabilimenti italiani del gruppo. I sindacati pretendono una risposta certa dall’azienda e un impegno a garantire la produzione e i livelli occupazionali in tutti gli stabilimenti italiani del gruppo. Entro i prossimi sette giorni, il governo convocherà di nuovo azienda e sindacati per un secondo tavolo in cui la corporation dovrà dare risposte concrete sul futuro di Napoli e degli altri siti produttivi sparsi per il paese. Dall’incontro è emersa anche l’indisponibilità da parte di governo e sindacati a qualsiasi proposta di riconversione o reindustrializzazione attraverso l’intervento di società terze. I sindacati vogliono evitare l’errore fatto nel 2015 alla Indesit di Caserta, quando la Whirlpool si impegnò per un processo di reindustrializzazione del sito che ancora oggi, nel 2019, fatica a decollare.
Nell’assemblea si discute anche delle strategie da adottare dinanzi all’eventuale tentativo da parte della corporation di spaccare il fronte di lotta con delle proposte economiche. «Abbiamo stabilito che resteremo uniti e che non ci faremo comprare dall’azienda, anche se si tratta di offerte allettanti. A noi interessa lavorare punto e basta. A noi interessa solo che l’azienda rispetti l’accordo e ci faccia rientrare presto in fabbrica».
Sono le 14 quando decido di chiamare Pasquale. È da ore che non smette di inviare foto e video su WhatsApp. «Mezz’ora fa abbiamo riorganizzato i turni di presidio. In base al proprio turno di lavoro ognuno deve garantire la presenza al picchetto. Ci sono due turni: A e B. Il primo dalle 6 alle 14 e il secondo dalle 14 alle 20. Gli operai devono presidiare lo stabilimento come se lavorassero. Poi c’è una lista di volontari che hanno garantito la loro presenza al presidio notturno dalle 22 alle 6 del mattino. Fino a quando non avremo notizie concrete non ci muoveremo da qui. Il 14 giugno ci sarà uno sciopero nazionale e i sindacati hanno voluto che il corteo si tenesse a Napoli. Saremo alla testa del corteo per difendere il lavoro e la fabbrica. Intanto siamo qui a picchettare fino al 14 giugno. Domani stiamo organizzando una grande mangiata. Fatte veré si stai buon’». (giuseppe d’onofrio)