Nella stagione della Bella Epoque, Napoli è interessata da radicali processi di modernizzazione a cui non corrisponde una riduzione delle gravi condizioni di povertà e di sofferenza che investono larghi strati sociali. Il colera del 1884 è stato un ulteriore, duro colpo alla città, ma questa realtà così tragica non trova un’adeguata attenzione, né da parte delle istituzioni, né da una classe dirigente locale sempre più corrotta e legata ai poteri criminali. Narrazioni sociologiche di scrittori come Mastriani e Serao, sono i primi segnali di un altro modo di interrogare i mutamenti, ma saranno le Lettere meridionali di Pasquale Villari, nel 1875, a svelarci tutto il dramma meridionale post-unitario, con la prevedibile conseguenza dell’accusa allo storico di scrivere cose non vere.
A questi sguardi su Napoli, si accompagna un vivace dibattito sulla funzione dell’arte e della letteratura; dibattito che coinvolge, in polemiche talvolta aspre, gli scrittori che osservano quel mondo dall’interno e gli studiosi che ritengono errato trasformare l’arte in uno strumento di analisi sociale. In questo scontro, un ruolo di primo piano lo assume Ferdinando Russo, giornalista, poeta e scrittore napoletano, fedele ai Borbone (ma iscritto al partito repubblicano dal 1882), autore – oltre che di un bel romanzo, Memorie di un ladro, e di una commedia, Luciella Catena. Due atti napoletani – di indimenticabili canzoni napoletane come Scetate e Quando tramonta ‘o sole. Russo è anche il fondatore, agli inizi del Novecento, della rivista Vela latina, che apre a futuristi come Francesco Cangiullo, originale autore di poesia visiva.
L’esperienza intellettuale e umana del poeta di Cantastorie e Gente ‘e mala vita – sul cui mancato riconoscimento in campo letterario pesò non poco il severo giudizio critico di Benedetto Croce – può apparire a un primo sguardo segnata da un innocuo conservatorismo nostalgico; soprattutto se si pensa a liriche come ‘O luciano do re ‘, dedicata a Ferdinando II, e non si tiene abbastanza conto della chiara denunzia, contenuta in diversi suoi testi, della politica governativa che aveva messo in ginocchio la città. Né va dimenticato, al riguardo, che quando gli operai e le fasce più deboli scendono in piazza ribellandosi – come accade nel 1893 e nel 1898 per il rincaro del pane – in risposta ricevono la più brutale e sanguinosa delle repressioni.
Lo sguardo poetico del Russo è dentro questa storia di esclusione del sottoproletariato napoletano; e se, da un lato, mira a farsi specchio dell’identità di un popolo attraverso il recupero della tradizione lirica seicentesca (soprattutto quella di Giulio Cesare Cortese, a cui dedica un saggio di notevole spessore critico), dall’altro tende a illuminare quei mondi oscuri, periferici, che – come direbbe Pasolini, suo estimatore – non sono riusciti a stare al passo con la modernità.
È per questa “irregolarità”, dell’uomo e del poeta, che abbiamo letto con piacere un piccolo – ma molto originale – volume di Elio Serino, Ferdinando Russo. Folklore e personaggi napoletani (Alessandro Polidoro Editore). Curiosa è innanzitutto l’idea da cui nasce questa pubblicazione. Due librai antiquari, Nicola Violante e Bruno Balzano, trovano tra le loro vecchie collezioni di cose rare delle cartoline illustrate, con foto in bianco e nero, del 1925. Le immagini, un po’ sbiadite, raffigurano personaggi, usi e costumi della vita napoletana tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. La particolarità è che ognuna di esse è firmata da Ferdinando Russo e riporta i versi di alcune tra le sue poesie più note. Si è pensato così di editarle, arricchendo il volume con una prefazione di Serino – in realtà un racconto immaginario intorno alla vita del poeta, scritto con umana partecipazione e leggerezza – e acute sue analisi ai versi che accompagnano le immagini.
L’autore immagina che un giornalista del Messaggero, Leopoldo Mastrilli, inviato a intervistarlo a Napoli dal suo direttore, lo incontri al vecchio Caffè Diodato di piazza Dante, dove si trattiene ogni giorno a un tavolino, immerso nei suoni della Napoli popolare; altri scrittori, pittori e poeti come Salvatore Di Giacomo – col quale non ha mai smesso di polemizzare sul modo di concepire il rapporto tra poesia e mondo popolare – hanno invece fatto altre scelte, trasferendosi da qualche tempo al Caffè Gambrinus, divenuto simbolo della ascesa di una nuova classe sociale.
Attraverso il dialogo immaginario col poeta, Serino ci guida alla scoperta dei tratti salienti della sua lirica. A cominciare da quel desiderio di documentare, attraverso un dialetto gergale, la vita del sottoproletariato napoletano con le sue più stridenti contraddizioni, ma “senza atteggiarsi a giudice”. È la premessa al crudo realismo di Raffaele Viviani. L’esempio più tipico del suo sguardo è nel rapporto con la camorra. La convinzione di alcuni suoi critici è che egli – che alla morte di Ciccio Cappuccio, detto ‘o signurino, osannato in città come “guappo gentiluomo”, scrisse una poesia in suo ricordo – abbia in qualche modo fiancheggiato la criminalità; tesi che sarebbe confermata dal nomignolo di guappettiello, che “gli era stato affibbiato – precisa però l’autore – per aver picchiato un camorrista che importunava la sua ragazza”.
La questione solleva alcune considerazioni sul rapporto tra artificio letterario, realtà e contesto storico di riferimento. Russo, seguendo le orme dell’estetica verista – secondo Paolo Ricci, tra i suoi più attenti studiosi – è “convinto assertore della poesia come trance de vie, come documento, ma per sua e nostra fortuna molto spesso il suo documento è vivificato dal soffio della creazione poetica, dall’immagine”. È per il tramite di questa trasfigurazione lirica che i suoi versi ci consentono di intercettare le ombre: soprattutto quella infanzia abbandonata al suo destino, che “non può far altro che diventare gente ‘e mala vita”. La tragedia di questa città, secondo il poeta, inizia da qui, dall’infanzia. In questa prospettiva, che fonde etica ed estetica, ‘E scugnizze è in assoluto tra le opere più intense della nostra poesia dialettale. Lo conferma la cartolina riprodotta in questo volume: due bambini, laceri, poveri e scalzi, sono abbracciati, stretti l’uno all’altro, per difendersi dal freddo all’angolo di un portone. Sembra una foto degli ultimi della terra di Sebastiao Salgado; o un’immagine rubata dai barconi che giungono ogni giorno a Lampedusa dall’inferno mediorientale. I primi versi recitano: “Arruvugliate, agliummerute, astrinte, ‘e vide durmì ‘a notte a nu puntune. Chiove? E che fa? Quanne nun stanne dinte, ‘a meglia casa è sotto a nu bancone”. Russo è convinto che le radici della camorra siano da ricercare qui, nei diritti negati a questi bambini – svelati in tutta la loro vitalità e malinconica bellezza dai ritratti di artisti come Gemito, Mancini, Migliaro – che si aggirano affamati a migliaia nelle strade di Napoli.
Molte poesie, come San Francisco e ‘O basista – ispirate rispettivamente al carcere napoletano e al processo Cuocolo – documentano fedelmente la vita e i riti d’iniziazione della camorra. L’intenzione è quella di mostrarci uno spaccato di vita popolare in una metropoli che appare sempre più sospesa tra corruzione della politica (l’inchiesta Saredo è del 1901), violenza criminale, abbandono sociale, parassitismo, primi tentativi di sviluppo produttivo; emblematica in tal senso è Pascale e’ belle; una poesia che in pochi versi racconta la carriera di un camorrista, indissolubilmente intrecciata al potere politico. A contraddire ancora l’immagine giunta fino a noi di un poeta che accetta passivamente l’ideologia mafiosa, va considerato anche un breve racconto sulle Donne dei camorristi; testo che è, insieme, decisa condanna di quella barbarie criminale e un inno alla bellezza e intelligenza delle donne napoletane, che “sono vittime di questa pittoresca canaglia e sono sfruttate brutalmente in tutte le maniere”. È per questa profonda conoscenza della vita popolare napoletana, che Zola, in visita alla città, chiede solo a lui di accompagnarlo in quei vicoli bui, illuminati solo dallo sguardo fiero delle giovani popolane, che sono in grado – osserva Serino – di tenere testa da sole agli uomini e di gestire la difficile vita quotidiana napoletana in uno dei momenti più drammatici della sua storia. (antonio grieco)
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