Il libro di Angelo Montella, La vita è una partita doppia. Storia di Angelo e del Teatro Nuovo di Napoli (Liguori, 2021), ha già avuto diverse buone recensioni che hanno sottolineato la rilevante esperienza che, con Igina di Napoli, per trenta anni, Angelo ha offerto per il teatro di ricerca a Napoli. Come sottolinea Goffredo Fofi nella postfazione, si tratta di una parte importante della storia della ricerca culturale e teatrale della città, dove sono passati nella prima fase della loro spesso brillante carriera molti protagonisti della scena nazionale. Questo perché la scena del Teatro Nuovo prima e della Sala Assoli dopo, è stata offerta a tanti giovani che hanno potuto mostrare il loro lavoro, meritando o meno l’apprezzamento della critica e del pubblico.
Questi aspetti sono molto importanti anche se l’autore ha espresso una certa amarezza per come poi sono andate le cose. La presenza di molti incapaci come pure l’incidenza di politiche pubbliche di sostegno dell’attività teatrale sbagliate, hanno distorto il mercato e, a suo dire, sollecitato opportunismi a danno di esperienze coraggiose e virtuose.
LE ANTICIPAZIONI IN TRATTORIA
Per almeno due anni ho goduto dei preliminari del farsi di questo libro, tutto scritto a mano. Spesso pranzo con Angelo in una bettola del centro storico formando con qualche altro amico pensionato quello che, per età dei partecipanti, definisco bonariamente un tavolo Inps. Molti degli episodi raccontati nel libro compongono un corpus di aneddoti che Angelo ha raccontato più volte agli amici.
Il libro è l’esito di un gioco ma sappiamo che talvolta nulla è più serio e impegnativo di un gioco! Spesso Angelo mi accennava brani di storie che aveva scritto la mattina, come i diversi passaggi tra le versioni, il casino tra quello che scriveva a mano, quello che veniva copiato dalla sua collaboratrice di fiducia, i tagli, i rifacimenti, i dubbi, la miscela tra sogni, racconti storici o metaforici, memoria, fino alla curatela finale dell’editor.
Già a quattro anni ad Angelo è bruciato il culo e dice che ne porta ancora i segni. Da tanti episodi della storia raccontata si può desumere che l’incidente della caduta sul braciere è forse metafora di quello che una bella esistenza ha riservato all’autore. Sullo sfondo l’esistenza a Napoli, il lavoro, l’impegno politico, la vita giocosa tra adulti, progressisti di sinistra più o meno radicali negli anni Settanta, il confronto con una progressiva liberazione della donna con cui la generazione dell’autore forse è una delle prime a fare veramente i conti.
QUATTRO LIVELLI DI LETTURA
Il libro presenta diversi livelli di lettura. È bello, si legge senza alcuna fatica in poco tempo, mentre appassiona e in più passaggi emoziona, pone questioni, fa riflettere su alcune rilevanti dimensioni della storia di Napoli. Ho trovato quattro chiavi di lettura.
Innanzitutto gli aspetti stilistici della scrittura, dal semplice racconto scarno ed essenziale alla propensione alla fabulazione e al sogno, è evidente che la scrittura di Angelo risente della passione che ha per alcuni autori cui, inconsapevolmente, fa riferimento.
C’è poi una chiave più sociologica di storia locale: Napoli dagli anni Cinquanta e soprattutto Settanta fino ai Novanta; il senso di alcune attività culturali, soprattutto quelle teatrali; il clima e le relazioni ai Quartieri Spagnoli, la riscoperta della sceneggiata. Su questo Fofi, che è stato testimone oltre che attento analista critico delle vicende, riprende diverse cose nella postfazione.
Come tutti sappiamo è una storia densa, appassionante, vissuta con molto impegno. Mi è tornato in mente un romanzo che ho molto amato, Quel che resta del giorno di Kazuo Ishiguro. Una storia ambientata in un palazzo ove il protagonista Stevens ha donato la sua vita facendo il maggiordomo; un luogo ove, almeno per alcuni giorni, è passata la grande storia, quella internazionale. Facendo le dovute proporzioni il Teatro Nuovo a Napoli è stato una sorta di edificio-mondo, per la ricerca teatrale un luogo privilegiato, una fucina, una banca di opportunità e questo grazie al coraggioso lavoro di Igina e di Angelo, come dei loro collaboratori.
Complessivamente, sempre in questa chiave, questo libro è la storia di una freccia, una storia oggi irripetibile viste le barriere alla mobilità sociale che sono tornate ad agire con forza: un ragazzo precoce che diventa presto autonomo, a quattordici anni ha un’amante più grande di lui, e pure molto determinato va oltre, insegue un qualcosa che non sa bene cosa sia, anche solo con la licenza media trova lavoro e si fa valere. Una freccia che, per la crescita dell’autore, passa per quattro rilevanti rotture: l’abbandono della scuola; l’abbandono del lavoro nell’impresa edile per andare in Arabia Saudita; il ritorno a Napoli per aprire un teatro e infine l’abbandono di questa straordinaria esperienza non priva di amarezze, anche per vivere da pensionato dedicandosi per hobby alla lettura e alla scrittura. Un percorso in cui le difficoltà sono state somatizzate per cui per Angelo (un po’ come per il personaggio Salvatore, interpretato da Giancarlo Giannini nel film Mi manda Picone) la gastrite è sempre stata un segnale dell’essere arrivato a una soglia limite.
Un ragazzino che ha ereditato da nonni e genitori una straordinaria determinazione, un certo estro, come pure una propensione all’autonomia e alla differenziazione dal modello paterno. Un ragazzino che mettendo insieme razionalità calcolante (la forma mentis suggerita dalla pratica della partita doppia) ed estro, tensione verso la bellezza e l’apprendimento, cogliendo le opportunità offerte da buone compagnie (forse le più importanti sono femminili, spesso attratte dal fascino del soggetto), recupera anni di scolarizzazione leggendo molto, interessandosi all’arte, al cinema e al teatro.
Una sintesi tra razionalità tecnico-gestionale ed estro che esce in parte sconfitta, anche per la presenza di attori sociali che non seguono le regole del gioco e/o la conseguenza di regole fallaci: lo spazio dato alle “mezze calzette”, un orientamento miope delle politiche culturali di sostegno al teatro, convergono obbligando a una sorta di resa.
Su questo si aprirebbe un capitolo complicatissimo che riguarda molti militanti che dai tempi di Lotta Continua a oggi ripropongono una domanda per spiegare gli esiti di tanto fermento e impegno: si è trattato di sconfitta e/o di una tensione ideale, di un fallimento dovuto a modi di vivere anche contraddittori?
Rispetto ad alcune speranze questo popolo di anticonformisti, spesso comunisti, irriverenti e contestatori, innovatori, sono stati solo sconfitti dal potere oppure hanno anche scontato alcuni fallimenti riferibili a errori o doppiezza nelle contraddizioni tra quello che veniva dichiarato e quello che veniva agito?
I MORSI DELL’ANIMA E IL DIFFICILE CONFRONTO CON LA DIFFERENZA
Vi è poi una terza chiave. Anche se ce ne rendiamo conto in genere dopo i cinquanta anni, nella nostra esistenza facciamo alcuni conti con i morsi dell’anima patiti dai nostri nonni e/o dai genitori che, magari senza dirci nulla di alcune loro serie vicissitudini, ci hanno lasciato nella psiche delle questioni irrisolte. Per Angelo il nonno paterno Amedeo, operaio nelle ferrovie ma anche organizzatore della festa di San Gennaro nel rione Poggioreale, come pure il padre, la madre e la nonna materna, sono figure molto rilevanti. In vari passaggi del libro emergono indizi di come Angelo abbia fatto i conti con questo patrimonio, carico di risorse e di alcune ferite di cui l’io narrante mai parla esplicitamente. In questa dimensione psicologica – in una chiave sapienziale – trapela un convincimento proposto in più passaggi nel libro: la gentilezza è un valore in sé. Anche quando si parlano idiomi del tutto diversi, oppure si comunica con persone psicologicamente instabili o ignoranti, è sempre possibile comunicare con l’altro, praticando il rispetto e il dono, lasciando libero l’altro.
Ma mi sembra ancora più rilevante una diversa quarta chiave di lettura su cui gli altri recensori fino a oggi non hanno posto attenzione: quella delle relazioni di genere. Fin da bambino l’io narrante si è misurato con la differenza di genere, facendo esperienze dense, talvolta quasi traumatiche. L’io narrante del libro sembra persona impegnata, carica di ironia e tensione verso una sensata razionalità. Un personaggio che si è sempre misurato con l’alterità femminile, vivendone il fascino, la bellezza, il bisogno estremo della relazione gentile, spesso amorosa. In alcuni passaggi l’io narrante, che pure ha dovuto superare un profondo conflitto con il padre poliziotto, sembra un maschio alfa, molto determinato, teso ai migliori risultati possibili, nel gioco a carte come nel lavoro, nel calcio come nella seduzione, nel lavoro come nella progettazione culturale. Ma la relazione con l’alterità femminile densa, ricca, carica di bellezza, che gli lascia un grande patrimonio di sentimenti, è stata e resta comunque problematica. Tra le diverse donne che hanno ruoli molto rilevanti nella storia, emergono per l’io narrante due figure femminili: Maria – una donna ideale che l’io narrante immagina al suo fianco – che lo coccola e cura amorevolmente; un’angelica compagna presente nei momenti difficili (durante l’ospedalizzazione che il protagonista supera solo rifugiandosi nella fabulazione). Vi è poi la relazione fantastica con Anna – un’altra donna che l’io narrante ha amato profondamente essendone ben ricambiato anche se in quaranta anni l’ha incontrata solo quarantatre volte, secondo un preciso calendario di incontri tanto amorosi quanto clandestini. Le lettere sono forse le pagine più belle del libro, restituiscono autenticità, producono emozioni. Sorge però qualche domanda: senza sminuire la profondità delle relazioni con le due mogli come di altre donne di cui parla il protagonista, forse senza rendersene conto, l’autore presenta un bilancio drammatico. In sintesi, i due volti dell’amore con la donna sono possibili nell’estasi giocata tra il sogno e la clandestinità. Nel diffuso tempo del quotidiano prevale la fatica e la delusione? D’altra parte il maggiordomo Stevens testimonia una sostanziale diffidenza dell’amore durevole.
Quindi, in sintesi, ma è una lettura molto personale, il libro, forse non per intenzione dell’autore, è anche un libro sui limiti della capacità di amare di molti di noi maschi, soprattutto quelli di alcune generazioni. Su questo saranno molto interessanti le letture che del libro faranno le donne.
Traggo inoltre alcuni insegnamenti sapienziali: bisogna metterci l’anima e provare a far funzionare un gruppo; se ci sono “cavalli drogati” la corsa non si può vincere; nelle politiche pubbliche di sostegno al teatro ci sono stati e ci sono cavalli drogati! Dobbiamo tenere sempre presenti che in molti siamo stati e siamo dei privilegiati; dobbiamo saper invecchiare e lasciare il posto ad altri, evitando di legare definitivamente il destino delle opere di cui siamo protagonisti al nostro personale destino. (giovanni laino)