Giovedì 8 febbraio al Frullone, nell’area nord di Napoli, tre famiglie aspettano uno sfratto esecutivo voluto dall’Asl, proprietaria dell’intero edificio in cui vivono da quarant’anni. Si tratta di un palazzo adiacente ad altri di proprietà dell’Asl, all’interno del presidio sanitario Napoli 1, accanto agli uffici della direzione generale. Ed è proprio dalla direzione generale che arriva l’ordine di eseguire lo sfratto a ogni costo: il direttore, Ciro Verdoliva, grazie ai fondi Pnrr sta ristrutturando diversi edifici da destinare a uffici e nel progetto rientra anche la palazzina in questione, dove risiedono altre sei famiglie per un totale di circa cinquanta persone: su tutti pende un mandato di sfratto esecutivo.
LA CASA NEL MANICOMIO
Fino agli inizi degli anni Novanta l’edificio ospitava un ospedale psichiatrico, funzione che non risulta difficile da immaginare osservando la conformazione dello stabile: i corridoi sono enormi e spogli, ampi finestroni posizionati in alto lasciano entrare la luce; gli appartamenti, raccontano gli abitanti, sono stati divisi da muri alzati da loro, per meglio organizzare gli stanzoni. La proprietà inizialmente era dell’Usl, l’Unità sanitaria locale. Una donna mi racconta, in merito al suo arrivo qui: «Io stavo con mio marito e andammo a occupare quella che poi è diventata casa nostra nel 1986. C’erano già una ventina di famiglie che vivevano nelle aree in cui non c’erano i malati psichiatrici. Nel giro di un anno sono arrivate tutte le famiglie che sono sotto sfratto oggi. Venne la polizia perché per entrare rompemmo la porta, ma le guardie mi diedero una carta per autorizzare l’occupazione».
Negli anni Ottanta in questo edificio vivevano circa trenta famiglie, erano occupanti e si erano ricavati delle case negli spazi inutilizzati dell’ospedale. Poi venti famiglie ottennero l’assegnazione delle case popolari e rimasero solo i nove nuclei attuali. La loro occupazione venne autorizzata perché doveva trattarsi di una soluzione temporanea. «Noi abbiamo fatto battaglie con le altre famiglie – prosegue la mia interlocutrice –, era un’area parcheggio per chi non aveva un alloggio. Il Comune ci autorizzava perché aveva fatto un accordo con l’Usl. Ma abbiamo dovuto sopportare di vivere in un manicomio».
Agli inizi degli anni Novanta l’ospedale psichiatrico chiude. Tutti gli occupanti risultavano assegnatari di categoria A, avevano cioè diritto alla casa popolare. Solo ad alcuni però vennero fatte delle proposte, che si rivelarono impercorribili: «Io sono stato chiamata due volte – continua la donna –, mi volevano dare prima un immobile a Ponticelli, in uno stabile in cui c’erano altre famiglie; ma nella casa che doveva essere per me ci abitava una signora da trent’anni; loro dicevano che lei non aveva diritto ma io rifiutai. Poi mi proposero una casa a Marianella, che però pure era già occupata. Mi dissero che per farmela avere avrebbero sfrattato chi c’era lì dentro e pure rifiutai; da allora non mi ha chiamato più nessuno».
Nel frattempo la legge cambia e l’accesso alla casa popolare viene regolato tramite l’introduzione delle graduatorie Erp. In graduatoria rientrano solo tre nuclei familiari su nove, e a chi non viene inserito viene data come spiegazione che non poteva esserlo in quanto occupante. Dopo decenni di precarietà abitativa e in un contesto di riconoscimento arbitrario dei diritti, Ciro Verdoliva assume la dirigenza dell’Asl Napoli 1 – succeduta all’Usl come proprietaria dell’immobile – e richiede lo sfratto dell’intero edificio. A giugno 2023 tutti ricevono l’avviso, anche se le esecuzioni riportano date diverse, per dividere gli abitanti e ostacolare pratiche di reciproco aiuto. Nel frattempo solo a tre delle nove famiglie l’Asl propone delle alternative. Un’altra abitante racconta: «L’Asl voleva settecentocinquanta o cinquecento euro al mese per delle case sempre sue. Ma se avevamo questi soldi secondo loro non ci eravamo già presi una casa in affitto? Per un’altra casa ci hanno chiesto 200 euro al mese, ma era una casa di trentaquattro metri quadrati per sei persone, avremmo dovuto dormire abbracciati. E poi comunque tutte erano da ristrutturare, cadevano a pezzi. Come fai a fare una proposta del genere? È evidente che Verdoliva vuole avere il coltello dalla parte del manico, così quando ci sfratta può dire: “Io la casa gliela volevo dare ma sono loro che hanno rifiutato”. Io con settecento euro me ne vado al paese e mi affitto una casa vera, ma con una pensione di trecentosettanta euro, da sola, come potrei fare?».
Al mattino sono presenti sul posto agenti della polizia, un’autoambulanza e una camionetta di agenti in tenuta antisommossa. Anche se oggi lo sfratto riguarda solo tre famiglie, a presidiare l’ingresso dell’edificio ci sono tutti gli abitanti. Lo spazio individuato per resistere è quello dell’androne, subito dietro il cancello di ferro, in modo tale da non consentire alcun tipo di avanzamento verso le case alle forze dell’ordine. Durante la notte l’area antistante all’ingresso è stata recintata con il nastro rosso, per non permettere alle auto che normalmente vi sostano di parcheggiare e lasciare così il transito libero delle forze di polizia. Invece la mattina precedente, nel giro di poche ore, Verdoliva ha fatto alzare un muro che separa l’androne da cui si accede ai piani abitati dal resto dell’edificio, in cui ha già avviato i lavori. L’aspetto di questo muro è inquietante, qualcuno lo spiega dicendo che è per farli sentire ancora peggio, ancora più intrappolati «in questo cesso di posto». A questo si aggiunge che è un mese ormai che Verdoliva ha fatto staccare la corrente dalle aree comuni: la sera gli abitanti devono chiudersi dentro con una catena e usare le torce dei telefoni per fare le scale.
Barricati dentro, vediamo arrivare in sequenza: ufficiale giudiziario, giornalisti, agenti della Digos, guardie giurate, gli avvocati di Verdoliva, due camion dei pompieri, altre tre camionette di polizia in antisommossa (per un totale di quattro, a cui si aggiungono varie volanti di polizia e carabinieri). L’area è del tutto militarizzata. L’ufficiale chiede di entrare per verificare la trasportabilità delle persone coinvolte nello sfratto di oggi. Gli abitanti si oppongono, non si fidano, non vogliono che nessuno entri e chiedono un rinvio: «Manco i cani si buttano in mezzo alla strada, dove dobbiamo andare? Sono quarant’anni che stiamo qua e siamo assegnatari di categoria A, dove sono finite le nostre case?».
Dopo una lunga intermediazione, all’ufficiale e ai medici viene concesso l’ingresso, ma i medici (dell’Asl), dopo almeno un’ora di confronto sanciscono la trasportabilità delle persone sotto sfratto rendendo impossibile all’ufficiale giudiziario concedere un rinvio per intrasportabilità, nonostante le persone visitate versino in gravissime condizioni di salute. Il conflitto di interessi diventa evidente, si aprono ore di stallo in cui l’esecuzione dello sfratto e la resistenza all’esecuzione sembrano gli unici due scenari possibili.
Gli avvocati di Verdoliva esercitano ogni tipo di pressione per fare in modo che lo sfratto venga eseguito. Propongono un accordo: la consegna delle chiavi dei tre appartamenti in cambio di due mesi di tempo per svuotare le case. Ma secondo questo ricatto le famiglie sfrattate perderebbero la possibilità di accedere alle loro case se non dovendo chiedere e ottenere prima un’autorizzazione dalla proprietà. Gli abitanti rifiutano. Passano altre ore, i pompieri perlustrano i diversi angoli del palazzo per capire se possono accedere da altri lati o dalle finestre. Gli avvocati di Verdoliva minacciano il commissario di polizia di denunciarlo per non aver eseguito lo sfratto, l’ufficiale giudiziario decreta il rinvio per tutela dell’ordine pubblico ma non lo firma, rimandando al giudice la decisione finale. Le parti si minacciano a vicenda di denunciarsi. Solo a questo punto l’enorme apparato di forze dell’ordine abbandona l’area. È una prima vittoria, ma gli abitanti restano in allerta.
Il mattino del giorno seguente, infatti, occupano una sala del consiglio comunale: esigono una presa in carico da parte di Comune e Regione, una presa di posizione circa la loro vicenda, vogliono sapere a quando è stato rimandato lo sfratto. Un’abitante dalla sala occupata dichiara: «Ci hanno detto che si farà un incontro ma io non ne voglio sapere niente. Si devono prendere le loro responsabilità, io da qua non mi muovo, oggi voglio una soluzione. Mi devono dire che devo fare un altro po’ di sacrificio al Frullone, ma che tra poco ho una casa. Devono fare un tavolo ma lo devono fare ora. Le guardie giù non devono più venire».
Grazie alla pressione dei consiglieri comunali il sindaco si impegna a scrivere alle varie parti in causa, in particolare è necessario che il giudice conceda un rinvio di tempo sufficiente affinché sia possibile costruire delle alternative adeguate. Ma gli sfratti che l’Asl ha intenzione di eseguire in città sono molti di più, circa centottanta, e il rischio è che il Comune debba poi gestire tante altre situazioni simili. Pochi mesi fa la vicesindaca e assessore all’urbanistica Laura Lieto sosteneva che «la crisi abitativa a cui stiamo assistendo sia fondamentalmente legata al fatto che c’è una domanda enorme a cui il pubblico non ha mai dato risposta da trent’anni a questa parte», e sosteneva l’urgenza di un piano «per la qualità dell’abitare». Nel frattempo sfratti e sgomberi, anche a opera del Comune, sono in aumento e solo dall’inizio dell’anno sono stati consegnati cento avvisi di sgombero agli occupanti di edifici comunali.
Gli abitanti del Frullone sono stati quindi rassicurati che non si arriverà a un nuovo tentativo di sfratto. Ma le azioni di Verdoliva vanno in direzione opposta: all’alba di lunedì 12, ha fatto buttare giù il cancello di ingresso al palazzo, in continuità con le operazioni di violento accerchiamento degli abitanti e attaccando proprio quel supporto fisico che aveva permesso loro di resistere durante i precedenti tentativi di sfratto. (barbara russo)
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