Sono le nove di sera, entro dieci minuti sarò a via Mezzocannone per incontrare Antonia, Anna e Sharon. Non è stato facile concordare un appuntamento con queste tre giovani lavoratrici del teatro, il cui tempo precario cammina in equilibrio su un filo teso tra il palcoscenico e tutti gli altri lavori che sono costrette a fare per pagare l’affitto.
Arrivo a destinazione mentre Sharon apre una bottiglia di vino, mi accomodo e tiro fuori dalla borsa il Discorso sulla perdita di senso del teatro di Massimiliano Civica e Attilio Scarpellini. Anna e Antonia stanno discutendo di “Restaurarte”, rassegna che avrebbe dovuto tenersi in Villa comunale, ma è stata annullata dal comune di Napoli a causa dell’inagibilità del parco, chiuso da oltre dieci giorni per gli effetti delle piogge di fine settembre. Anna mi guarda e prova a spiegarmi: «Volevamo uno spazio, lo abbiamo pagato, e alla fine ce l’hanno negato. Abbiamo lasciato a casa sei compagnie, di cui una di Milano, e abbiamo dovuto avvisare gli spettatori che le prenotazioni erano annullate».
Anna ha ventinove anni. Ha studiato al Mercadante. È attrice e aiuto regista. Insieme ad altri ha messo su “Piccola città teatro”, compagnia che ha lavorato alla rassegna cancellata dal Comune e che fino a oggi si è finanziata con i contributi del FUS, il Fondo Unico per lo Spettacolo. La pandemia ha fatto saltare anche altri due progetti teatrali, ma Anna si ritiene fortunata perché ha percepito il bonus destinato ai lavoratori dello spettacolo. «Se il Covid fosse arrivato un anno prima sarei rimasta senza nulla, perché non avrei accumulato abbastanza giornate lavorative. Ma i sussidi servono a poco, senza un ritorno in scena organizzato in sicurezza e a cui dare continuità».
Una risata incerta coglie Sharon, che fa parte di quell’ampia fascia di persone che non ha ricevuto aiuti dal governo. Sharon ha studiato Arte dello spettacolo a Roma e Milano, ma vive al sud, da drammaturga e invisibile. «I grandi finanziamenti sono quasi sempre destinati al nord, dove puoi trovare un’offerta formativa più completa. Ma qui, soprattutto nei teatri off, mi sento più a mio agio e riesco a mettermi in discussione». Antonia prosegue sulla stessa linea, racconta l’importanza degli spazi indipendenti e autogestiti, che per la sua esperienza sono stati fondamentali: «Tutti i provini, gli esami, i testi, gli esercizi per la Scuola Nazionale Teatrale li ho provati nel manicomio civile di Aversa, dove c’era uno spazio che abbiamo sottratto all’abbandono per organizzare un corso teatrale senza direzione artistica».
Nelle condizioni di Anna, Sharon e Antonia si trovano in tanti. Nel biennio 2017/18 l’Istat contava quasi centocinquantamila occupati nel settore dello spettacolo, tra attori professionisti, tecnici, scenografi, sceneggiatori, registi, musicisti, danzatori e costumisti, un’industria che copre il tredici per cento del Pil del paese. Dopo il lockdown, “continuare lo spettacolo” è stato impossibile per chi vive lo sfruttamento intellettuale e non ha avuto garanzie o tutela. Se le grandi produzioni hanno potuto riaprire con l’obbligo del distanziamento, spesso anche sul palco, aprendo l’era dei monologhi e lasciando a casa migliaia di lavoratori – molti dei quali senza i requisiti per accedere ai bonus, senza contratto o con contratto intermittente, senza cassa integrazione o sussidio di disoccupazione – le piccole hanno dovuto arrangiarsi, e con loro tutti i loro addetti ai lavori.
Peppe, uno dei fondatori del gruppo Facebook dei “Lavoratori e lavoratrici dello spettacolo” campani, è tra questi. Ha quarantatré anni, una moglie, una bambina di tre anni, è di Napoli ma vive a Roma da dodici e da circa una ventina fa il fonico. Negli ultimi mesi non ha potuto far altro che il fattorino per una pizzeria, ma durante la quarantena ha creato Radio Cantinella – La radio delle lavoratrici e i lavoratori dello spettacolo, insieme a Mauro Penna, tecnico del suono. «Radio Cantinella è un’espressione che si usa per indicare un inciucio o un pettegolezzo teatrale. L’abbiamo pensata per dare voce agli addetti ai lavori in un periodo di crisi collettiva. Abbiamo pensato a dei programmi per alleggerire la tensione e adesso stiamo riorganizzando nuove trasmissioni».
Peppe non è legato a nessuno dei gruppi di persone che stanno costruendo la mobilitazione, e che un paio di settimane fa sono riusciti ad aprire un tavolo di discussione con la Regione per ridiscutere i requisiti utili all’accesso ai bonus di emergenza. «La storia del bonus lascia il tempo che trova. Parliamo di mille euro stanziati una tantum, una miseria considerando quanto il lavoro continuerà a scarseggiare. Si sta provando a organizzare una manifestazione a Roma, ma in Campania si sono create fratture tra i lavoratori: “Attrici e attori uniti”, legati alla Cgil, gli “Intermittenti Spettacolari”, gruppo che coinvolge soprattutto musicisti e danzatori, il “Coordinamento lavoratori e lavoratrici dello spettacolo”, supportato dal sindacato indipendente SiCobas. Quello che manca però è un piano di lavoro e una piattaforma di rivendicazione unitaria».
Eppure, nonostante i distinguo, una manifestazione cittadina ci sarà. È convocata a Napoli per il 24 ottobre, collegata allo sciopero dei lavoratori del SiCobas, e a cui anche gli aderenti al Coordinamento dei lavoratori e delle lavoratrici dello spettacolo parteciperanno. Una delle sindacaliste, Mimì Ercolano, spiega che l’intenzione è quella di costruire un tavolo di confronto permanente con la Regione, dove i lavoratori possano essere riconosciuti come gli interlocutori ufficiali per la creazione di un prossimo bando, dando la precedenza a chi fino a oggi non ha ottenuto sussidi. «La prospettiva è quella di apportare modifiche strutturali che cambino le condizioni dei lavoratori del settore, e poi stilare un registro degli addetti ai lavori, che oggi arrivano a oltre quattordicimila in Campania, tra quelli che stanno davanti e dietro la scena. I tre milioni elargiti una tantum non basteranno: quello che serve è che le aziende individuate comincino a versare i contributi per abolire il lavoro nero le cui percentuali sono altissime in questo settore, e che si riprendano i contratti collettivi con nuovi accordi e maggiori tutele e diritti». Sono queste le principali rivendicazioni che il coordinamento intende portare alla Regione Campania in vista della prossima Conferenza Stato-Regione.
Mi torna in mente il discorso di Civica e Scarpellini, e in particolare un passaggio sugli obblighi del teatro pubblico, che dovrebbe permettere agli artisti di lavorare al riparo dai compromessi del mercato. Ma le riforme degli ultimi anni non sembrano andare nella stessa direzione, e le modalità con cui vengono elargiti i contributi FUS, sulla base di parametri quantitativi (numero di repliche, numero di spettatori, contributi ai lavoratori), mettono in ginocchio le piccole compagnie e produzioni, costrette ad attrarre investimenti privati. Anche da questo punto di vista il virus, o meglio i suoi effetti, si fanno sentire sulla pelle dei precari e delle piccole realtà, esattamente come sta accadendo nel mondo della produzione industriale o della scuola. L’eventuale abbassamento dei requisiti minimi del FUS non potrà essere la soluzione definitiva, ma intanto nella difficoltà di compattare il fronte di lotta, e di imporre delle rivendicazioni precise e dirette, le produzioni, le piccole compagnie e i lavoratori restano al palo. Mentre il virus torna ad avanzare e l’idea di potersi sedere in una poltroncina di un piccolo teatro, sembra appartenere a un passato dimenticato. (alessandra mincone)
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