Sabato 28 marzo la Fiom-Cgil ha indetto uno sciopero nazionale con manifestazione a Roma. È difficile immaginare che dallo stabilimento Fiat di Pomigliano giungeranno nella capitale molti operai. Da una parte perché gli iscritti alla Fiom sono drasticamente calati dopo il referendum e l’ostracismo subito in fabbrica dai suoi delegati. Ma anche perché, da circa un mese, a Pomigliano si lavora anche il sabato, una circostanza che non si era mai verificata nella lunga storia dello stabilimento. L’azienda, infatti, ha comunicato un’impennata nelle vendite della Panda e la conseguente necessità di produrre più auto. Poteva essere una buona occasione per ridistribuire orari e salari, applicando il principio che più macchine si fanno impiegando più operai, e quindi coinvolgendo anche quelli in cassa integrazione – circa la metà dei cinquemila addetti –, ma l’azienda ha deciso di avvalersi degli operai già attivi, semplicemente chiedendo loro di fare lo straordinario di sabato.
A lavorare quindi ci vanno i duemila trecento addetti della fascia A, sui quali di fatto l’azienda conta per mandare avanti la fabbrica; i turni restano due, salvo per il reparto stampaggio che ne fa tre, mentre le macchine prodotte in ogni turno passano da quattrocento a quattrocentoventi, con ritmi sulla catena di montaggio ancora più intensi. Gli operai delle fasce B e C continuano con cassa integrazione e contratti di solidarietà, appena rinnovati per un altro anno. Alcuni di essi lavorano per due o tre giorni al mese, altri arrivano a dieci o quindici giorni, con una discrezionalità esercitata dall’alto che provoca ulteriori divisioni. Qualche cassintegrato viene inviato allo stabilimento di Melfi, ma non tutti, per ragioni familiari, sono nelle condizioni di accettare la lunga trasferta.
Ma non è solo la ripartizione in fasce a fare della Fiat di Pomigliano una fabbrica divisa. L’agibilità nello stabilimento è garantita ormai solo ai sindacati che hanno sottoscritto gli accordi con Fiat, quelli che prevedono la riduzione delle pause, l’intensificazione dei ritmi di lavoro e un controllo gerarchico sempre più stringente. Nel maggio scorso la Fiom di Landini ha firmato una sorta di conciliazione con l’azienda, in virtù della quale lo stesso segretario ha definito “superate le ragioni di conflitto nello stabilimento di Pomigliano”. In effetti, da settembre i diciannove delegati Fiom che erano stati estromessi sono stati reintegrati dal giudice, ma le tensioni e i rapporti di forza in fabbrica non sembrano essersi modificati, come dimostra la recente esclusione dalle elezioni interne di Fiom e Slai Cobas, e la scarsa partecipazione dei lavoratori alle assemblee retribuite.
Se la Fiom sembra avere le mani legate, con scarso consenso tra gli operai e armi spuntate contro l’azienda, lo Slai Cobas è stato colpito a sua volta da licenziamenti e allontanamenti mirati nel reparto fantasma di Nola. Pochi giorni fa, però, è stata resa nota una sentenza della Corte Costituzionale che obbliga la Fiat a reintegrare cinque operai iscritti allo Slai Cobas licenziati in seguito alle movimentate assemblee del 2006, in cui i sindacalisti confederali vennero contestati dai lavoratori e cacciati dal palco con lanci di uova. In particolare, i giudici costituzionali hanno bacchettato l’azienda per essersi schierata, in una controversia che contrapponeva un sindacato agli altri, per una delle parti in lite, avvalendosi di quei poteri disciplinari e gerarchici che l’ordinamento gli attribuisce solo per governare le sue esigenze produttive.
Al di là delle invasioni di campo dell’azienda, di cui alcuni sindacati sembrano diventati nient’altro che delle appendici, la frammentazione dei lavoratori si percepisce più crudamente soprattutto in occasione di eventi tragici come la morte di uno di essi. Lunedì scorso, Luigi Noto, un operaio quarantanovenne del reparto stampaggio, è stato stroncato da un infarto all’interno dello stabilimento. Erano le cinque di mattina. Il comitato cassintegrati e licenziati Fiat ha messo esplicitamente in relazione l’accaduto con le cadenze insostenibili e le condizioni di lavoro nello stabilimento. Altri operai, intervenendo sui social network, hanno contestato questo accostamento, considerando la morte del loro collega come un evento naturale e imprevedibile. Ma il comitato ha già annunciato una denuncia alla procura e uno sciopero di otto ore per turno con una manifestazione per sabato. Divisi tra chi lavora e chi resta a casa, tra chi sopporta e chi si ribella, i lavoratori di Pomigliano navigano a vista in un mare che non accenna a tornare sereno. Intanto, davanti allo stabilimento, il tabellone luminoso che dovrebbe contabilizzare gli infortuni segna ancora lo zero. Nella sua beffarda immobilità, è diventato il simbolo perfetto dello sguardo che l’azienda posa sulle vite dei suoi operai. (luca rossomando)
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