Francesco Erbani, capo servizio della redazione Cultura di Repubblica, si occupa da tempo e proficuamente di giornalismo culturale. Nel 2003 ha pubblicato L’Italia maltrattata (Laterza) e nello stesso anno ha ricevuto il premio di giornalismo civile. Nel 2010 sempre per Laterza, ha dato alle stampe Il disastro. L’Aquila dopo il terremoto: le scelte e le colpe, un’approfondita inchiesta sulla gestione e ricostruzione del capoluogo abbruzzese colpito dal terremoto del 2009.
A quella che nel 2010, anno del crollo della Schola Armaturarum, è stata presentata come un’emergenza nazionale, è dedicato Pompei, Italia (Feltrinelli, 2015), una ricostruzione delle vicende che hanno trasformato uno dei più importanti siti archeologi del mondo in una metafora dell’Italia. La copertina esprime lo stesso concetto: il cane, che abbiamo imparato a conoscere come minaccioso protettore di una antica domus pompeiana (cave canem), appare infatti intento a urinare in modo sprezzante sul nostro patrimonio.
Nei momenti successivi alla sciagura del 2010 l’allora presidente della repubblica Napolitano definì lo stato in cui versava Pompei una “vergogna per l’Italia”, chiedendo ai responsabili chiarimenti e risposte “al più presto e senza ipocrisie”. Con queste premesse le risposte non potevano che essere retoriche e distanti dalle esigenze reali di conservazione e tutela del sito. A distanza di cinque anni, nonostante l’avvio del Grande Progetto Pompei, che ha previsto lo stanziamento di 105 milioni di euro per il recupero del sito, non si è avviata una normale gestione delle aree archeologiche e non si comprende come gli interventi emergenziali possano divenire stabili e duraturi. Sono proprio le ultime vicende del sito archeologico a essere il punto di partenza di Erbani per un’attenta ricostruzione, supportata da dati e pareri autorevoli, sullo stato attuale non solo di Pompei, ma dei beni culturali dell’intera Italia.
Già nel prologo si danno le coordinate archeologiche, storiche e ambientali per comprendere cosa sia Pompei e quanto sia difficile tenerla in vita. I resti, sepolti dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. e riscoperti sistematicamente in età borbonica, non rappresentano più una curiosità per esperti, un affare per archeologi, un passatempo domenicale per turisti disorientati: Pompei è oggi una parte sostanziale della nostra identità e della nostra capacità di essere un paese civile. Slegata dalle relazioni con il contesto in cui il sito è inserito e recisi i legami con le altre emergenze non solo culturali dell’Italia, la città antica, come afferma l’autore, “non è più nulla”.
I quarantaquattro ettari portati alla luce dell’intero centro urbano antico e visitati da circa due milioni e mezzo di turisti all’anno, nonostante i recinti, convivono in modo difficile con la città moderna, una delle più popolose d’Europa. Negli ultimi anni il patrimonio artistico e storico-archeologico è stato presentato come il petrolio italiano, la cui vendita consentirebbe la soluzione di tutti i problemi economici dell’Italia (in questi giorni il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro ha proposto la cessione di un Klimt conservato nel museo civico di Ca’ Pesaro per risanare i conti del comune); più che avviare una gestione ordinaria dei restauri e degli interventi conservativi, favorendo l’apertura di nuovi spazi visitabili, si è ritenuto opportuno nominare nell’ultimo decennio tre city manager e vari commissari con l’intento di annullare il potere dei soprintendenti archeologici e di favorire spese fuori controllo per provvedimenti di dubbia utilità: uno per tutti, il restauro del teatro grande utilizzato per i concerti de Il Volo o per melodrammi vari. Erbani sottolinea come la necessità degli interventi sia stata dettata dal loro potere comunicativo più che da una reale bisogno. Ma restando sul teatro, visti i fondi impiegati (sette milioni), le modalità dei restauri e le inchieste giudiziarie che hanno coinvolto l’ex commissario straordinario per l’emergenza scavi di Pompei, Marcello Fiori, tali interventi hanno avuto ragioni più criminose che conservative. Intanto la città ha continuato a consumarsi e di essa si sbriciolano dieci centimetri ogni giorno, come ha osservato Andrea Carandini.
Le vicende che Erbani ripercorre sul diverso atteggiamento assunto dalle istituzioni e dall’opinione pubblica su Pompei fanno comprendere quanto complicata sia la gestione dei nostri beni culturali e come questa non possa essere lasciata nelle mani della politica, ma “necessita di una diffusa e solidale forma di custodia”. Se cittadini e studiosi fossero meno romanticamente disperati e più consapevoli del valore del nostro patrimonio e dell’abbandono in cui operano i funzionari ministeriali probabilmente musei, aree archeologiche e siti storico-artistici non sarebbero esclusivamente percepiti come luoghi da sfruttare economicamente.
La passeggiata pompeiana dell’autore con Fabrizio Pesando, docente di antichità pompeiane ed ercolanesi presso l’Università degli studi di Napoli “L’Orientale”, ci presenta i meccanismi contemporanei di una visita della città antica: migliaia di persone costrette nell’area del foro o di via dell’Abbondanza, visite lampo per soddisfare le esigenze turistiche dei croceristi, guide autorizzate additate come fuori legge da quelle abusive e un bagaglio di conoscenze scientifiche frutto di studi accademici non trasferite ai visitatori. Ma la visita tra gli antichi monumenti ci fa riflettere anche sui diversi tempi che intercorrono tra gestione, tutela, valorizzazione e decadimento del sito. Più di un crollo in diretta, impressiona sapere che nel 1980 solo il 20% delle decorazioni pittoriche e degli intonaci portati alla luce si era conservato e che questa cifra diminuisce anno dopo anno. Ciò è comprensibile considerando che prima dell’arrivo del nuovo soprintendente di Pompei, Massimo Osanna, solo tre archeologi gestivano l’intero sito e che le recenti ventidue assunzioni (tredici archeologi, nessuno dei quali con competenze pompeianistiche, otto architetti, un amministrativo) non abbiano nella sostanza modificato o agevolato i meccanismi di tutela. Le stesse assunzioni da parte dell’Ales, società proprietà del ministero, tanto celebrate da Franceschini, di trenta custodi sono durate solo sei mesi senza possibilità di rinnovo contrattuale.
L’incontro tra l’autore e Pier Giovanni Guzzo, soprintendente dal 1994 al 2009, ci illustra un tentativo di rinnovamento amministrativo e gestionale del sito, osteggiato in modo deciso e ambiguo per limitarne gli effetti positivi. A Guzzo, studioso di fama internazionale ora in pensione, ben noti erano i problemi del sito archeologico, molti dei quali divenuti cronici dopo il terremoto dell’80, quando furono stanziati cento miliardi di lire, spesi tutti in cemento armato, scavi non documentati o impiegati per progetti inutili, anzi utili solo alla politica per spartire denaro pubblico. Altro problema da sempre irrisolvibile è quello delle ventitré sigle sindacali capaci di bloccare con fare camorristico l’apertura del sito, impedire attività legali e monopolizzare quelle illegali. Stupisce venire a conoscenza della lucida attività di denuncia condotta per anni da Guzzo sull’uso strumentale della città antica, unica risorsa di un territorio abbandonato a una miseria diffusa, e scoprire che essa non abbia sortito nessun effetto nelle istituzioni e nei cittadini, ma solo grane per l’interessato.
Il lettore è guidato inoltre nella comprensione dell’esperienza dell’autonomia di Pompei, che ha previsto l’amministrazione diretta del bilancio da parte di una figura amministrativa dirigenziale e il rafforzamento dei poteri del soprintendente con l’intento di migliorare la tutela del sito e del territorio circostante. L’autonomia dei primi anni del Duemila è terminata nel 2008 con l’invio da Roma di commissari nominati dal ministero. La testimonianza di Giuseppe Gherpelli, presidente dell’Istituto beni culturali dell’Emilia Romagna, primo direttore amministrativo della soprintendenza di Pompei ed Ercolano, che impiegava il 60% del suo tempo in beghe sindacali, rivela tutta la complessità di gestione del sito, sempre più dipendente dalle scelte politiche romane. Paradosso dell’autonomia! Alla metà degli anni Duemila, l’intento perseguito dal governo di centrodestra, ma anche da quelli di centrosinistra, è stato di smantellare la soprintendenza, tagliando fondi e delegittimando il lavoro dei funzionari ministeriali, sempre più anziani.
Senza esitazioni linguistiche, Erbani descrive con dovizia di particolari lo stato della moderna città di Pompei che si è accresciuta fino alla metà del Novecento con una certa coerenza tra i due poli rappresentati dal santuario dedicato alla Madonna e gli scavi archeologici. Ora è invece parte di una immensa conurbazione che ha mangiato il territorio ai piedi del Vesuvio, incapace di dialogare con le evidenze archeologiche.
Un barlume di speranza per la sorte dei siti vesuviani è offerto dalla descrizione dell’Herculaneum Conservation Project, fondato e finanziato con venticinque milioni di euro da David W. Packard, presidente del Packard Humanities Institute. Il progetto di manutenzione di Ercolano, fino a qualche decennio fa in completo abbandono, è stato possibile grazie alla collaborazione dell’istituto privato con la soprintendenza, evitando ogni forma di spettacolarizzazione. Le idee di Packard sul progetto sono però molto chiare: “Un altro punto di forza è stato lavorare con gli enti locali e cercare di rafforzare il territorio in cui Ercolano si trova”. Molto diverso appare nella descrizione di Erbani il Grande Progetto Pompei, in cui essenziale diventa il potere mediatico degli annunci. Il progetto, diretto dal generale dei carabinieri Giovanni Nistri, dovrà concludersi a fine anno, ma solo una parte minima dei fondi è stata spesa e non si sa quando si potrà giungere a una gestione e tutela ordinaria e duratura del sito. La parte conclusiva del volume di Erbani, che ci presenta una Pompei al centro di interessi non solo archeologici, ma anche economici, politici e malavitosi, è una fitta serie di domande senza risposte.
Pompei, Italia ha il grosso merito di farci entrare direttamente nelle questioni pompeiane ridestando in noi il ruolo di cittadini che non possono ignorare o sentirsi distanti da quanto accade nella gestione e tutela di ciò che è anche nostro. (simone foresta)
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