Una delle devote di San Donato, giù nel Salento di almeno mezzo secolo fa, era così gelosa della statua del suo santo che impazziva letteralmente alla presenza di altre fedeli, causava risse talvolta. Il prete del tempo, comprensivo e mediatore le riservava qualche ora di preghiera in assoluta solitudine, a tu per tu con il taumaturgo protettore degli afflitti dal morbo sacro, come allora veniva chiamata l’epilessia.
Entrare nella sala Causa del museo di Capodimonte per la mostra di Ribera, scatena la stessa gelosia. Viene voglia di picchiare i presenti, zittirli a calci in bocca, allontanarli con la forza, spegnere allarmi e telecamere per restare soli con la violenza cromatica del pittore spagnolo. Non questione di sacralità di luogo e suo contenuto ma allergia al chiacchiericcio, sana intolleranza a esclamazioni gratuite e brusio diffuso. O la pittura si fa epicentro di queste scosse o non è.
Facendo il vuoto attorno e dentro di sé si riesce comunque a stabilire una certa intimità con le opere, ben disposte ma spesso mal illuminate. Questo come prima impressione e, quasi quasi, certi errori vanno ringraziati. Una pessima illuminazione ti costringe allo sguardo traverso, ossia quel porti non dinanzi all’opera ma arbitrariamente alla sua destra o sinistra. Questo stare ai margini ti permette di notare scorci imprevisti, fantasmi nel buio più nero del nero.
C’è una donna ad esempio, immersa nell’oscurità profonda dietro la Maddalena che bacia i piedi inchiodati alla croce di Cristo nel Calvario. Viene da chiedersi, chi è? Il suo dolore è così grande da dover essere oscurato, nascosto per pudore? E non ci basta apprendere da aneddoti storiografici di tele maltrattate, usate come bersaglio da soldati francesi per far pratica di tiro, no, non è questo che ci interessa ma la quantità di domande che ci scagliano contro questi dipinti.
Il loro valore, forse, sta proprio nel non dissetare la nostra curiosità, il loro essere ambigui. Chi ci dice ad esempio che San Sebastiano sia effetivamente curato dalle pie donne? Certo, la storia ci racconta che Irene lo raggiunse di notte credendolo morto pronta a dargli sepoltura e che trovandolo vivo gli curò le ferite. Ma a noi è parso piuttosto che agitasse le frecce nelle piaghe, quasi prendendo la mira e che la Santa Matrona, intinga sì le dita nel bicchiere con l’unguento, ma più per compiacimento e sfida, altezzosamente guardando in macchina, senza pietà. La pittura o si presta a infinite e sempre nuove letture o non è.
Certo, la composizione la geometria e gli scambi di forze tra le figure e le forme, ma a noi ci viene pure da pensare quanto la Madonna con il bambino che consegna la regola a San Bruno sia una stronza e “non ce la conta giusta”. Sembra contenere in sé tutte quelle persone che cercano approvazione sociale nel benfare, un po’ come farsi fotografare ai telethon di gala. C’è tutto questo o è pura suggestione? San Bruno è un maniaco, un barbone e non merita l’attenzione della Vergine e, nel mezzo, il bambino, come sospeso tra luce e tenebre è l’unico soggetto che, senza saperlo, prova una pietà embrionale.
Ritornando al brusio, perché – ci chiediamo – la compassione degli alfabetizzati per la Madonna che piange suo figlio morto non si trasferisce alle immagini che ogni giorno ci arrivano dalla Palestina? Non è accaduto da quelle parti che il Salvatore fu ucciso? Fu tempo fa e la morte è in ogni morte. Certo la trasfigurazione pittorica accentua il dramma e lo si accetta volentieri quando è già masticato e pronto per la digestione ma, se quei fondi sono scuri non è certo per far emergere le figure pallide dei morti, i miracolati, le maddalene in adorazione, ma per lasciarci immergere in quel buio nulla che circonda la vita da tutti i lati.
Non è attraverso le radiografie che in gran numero ci fornisce il catalogo che riusciremo a vedere dietro. Chè vedere oltre il tempo la storia l’asfissiante cultura, non è altro che uno spalancare i pori, farsi permeare dalle suggestioni: non è sbagliando che si bara. La pittura o è un posto sull’abisso che ci rende il più cretino dei cretini o non è.
Il confronto diretto che scaturisce dal disegnare nelle strade ci ha insegnato molte cose. Una di queste è che le persone cercano consolazione. Ci chiedono di disegnare cose più allegre, con colori vivaci, meno inquietanti – Perché non fate dei bei fiori? – ci pregano. Per questo la Tv è vittoriosa, perché si lascia fare dai suoi fruitori che, semmai, dovremmo chiamare co-autori. Per questo i festival, gran parte dell’editoria, della stampa sono vincenti. Perché si propongono come quel po’ di zucchero che serve a mandar giù la pillola.
A nostra difesa spesso, e in virtù del fatto che ci troviamo sempre in quartieri popolari (dunque anche profanamente religiosi), noi raccontiamo che anche le tele e gli affreschi che ci sono nelle chiese sono di una violenza inaudita. Le decollazioni, i martiri, le flagellazioni sono le fondamenta del nostro immaginario, spesso portiamo al collo un uomo inchiodato alla croce e – questa mostra ce lo conferma – anche i santi sono armati. Frecce, accette, libri, alabarde, bastoni: i santi del Ribera sono armati fino ai denti (Martirio di San Bartolomeo). La violenza è ovunque e certe vittime sembrano goderne. La precarietà, cosa che ci sembra esclusività del nostro tempo, la possiamo leggere tra le rughe di Sant’Andrea in preghiera, nella caducità dei corpi di questi santi-mendicanti.
Il discorso li convince appena, anche se non comprendono la nostra, tutta presente, esigenza di dipingere quelle cose là, mostruose e spesso brutali. E allora si ribatte: la violenza è fuor dalla cronaca, è sempre, e solo nell’esorcismo della mediazione la possiamo tenere a bada.
Preferiamo che l’opera ci venga cancellata in pochi giorni più che assecondare e, spesso, questa scelta viene premiata dalle stesse persone che prima chiedevano decorazioni floreali. Non apprezzano il dipinto magari ma hanno stima della presa di posizione. Altri intervengono censurando quanto non gli aggrada. Pensare che un direttore di museo una volta ci disse che dovevamo confrontarci con un pubblico “vero”. La pittura è scontro o non è.
A Guardare con occhi nuovi tra le pagine dei Santi alfabetizzati si rischia di intravedere pure la sagoma di una profezia, le torri gemelle preiconizzate in Sant’Andrea e, in Sant’Agostino, visibili nel loro intero skyline. Questi testi dipinti in realtà non permettono di leggere un bel nulla, sono solo macchie nere, solo occasionalmente sporche di bianco o viceversa. Come se – qualcuno ce l’ha insegnato – avvicinandoci fino a smarrirci alla materia tipografata potessimo vivere finalmente quel vuoto dove tutto è (im)possibile.
Infine, sparsa un po’ qua un po’ là, abbiamo sentito – sempre – la presenza del “tradimento”. Non solo – ovviamente – nella magnifica Negazione di san Pietro, ma anche nelle varie maddalene, nel san Giovanni Evangelista che sorregge il corpo del Cristo morto. Come se dietro ci fosse sempre una trama non detta, una cattiveria di fondo che costituisce l’umano escremento.
Ma questa cosa non sappiamo spiegarla, o meglio, piegarla al nostro sentire. Si tratta di una sensazione più che di un’idea sensata. Di certe cose è meglio tacere, chè “…Ogni elogio è al di sotto di ciò che il quadro ispira; bisogna rinunciare a lodarlo perché le parole sarebbero insufficienti…”, come ebbe a dire il Marchese De Sade di un dipinto dello Spagnoletto sito nella Certosa di San Martino. La pittura è tante cose, o non è. (cyop&kaf)