dal numero 46, Febbraio 2012 di Napoli Monitor
Se il Mercadante ci propone un cartellone in salsa paesana soprattutto per cecità intellettuale e timore dell’ignoto, il Madre dal canto suo, da quando ha finito i grandi capitali da puntare sui nomi più in voga dell’arte internazionale, ha deciso di aprire alcune delle sue sale a quegli artisti indigeni che, dal dopoguerra in poi, hanno contribuito alla crescita culturale e civile della città. Dopo Armando De Stefano è la volta di Mario Persico (fino al 19 marzo). Sembra che questo ridimensionamento economico abbia in qualche modo elevato la qualità dell’intero operato del museo. Le restrizioni fanno poesia, è indubbio, e la povertà di mezzi (non esageriamo) contribuisce a fare del Madre un museo quasi come avremmo voluto che fosse: con mostre diverse, in dialogo e contrasto tra loro, occhi aperti sulla città e l’Italia di oggi o dell’immediato passato. Per capire da dove veniamo e dove potremmo andare, cosa dovremmo evitare.
Per esempio, al terzo piano, fino al 9 di aprile, è possibile perdersi nella grande mostra di Fausto Melotti, pittore scomparso nell’ottantasei. I più dicono sia scultore. A starci attenti, camminando per inciampare, si potrebbe scoprire che le sue sculture sono pitture, le sue pitture sculture. Ossia è musicista che suona colori e dice versi d’argilla, fuor d’etichetta. Un essere umano insomma, capace di trascinarti nei micromondi dei suoi teatrini polimaterici e far sì che una sensazione di smarrimento ti si attacchi al derma, che, si badi bene, non è la pelle ma quello che c’è sotto. La partitura dei suoi metalli (pesanti, visto che s’infilano nei pori) riverbera in toni appena percettibili e, di fronte a certe opere tridimensionali, se si sbaglia (o indovina) il punto di vista, l’opera scompare, si dissolve. È una leggerezza schiacciante. L’equilibrio precario di certe sue costruzioni (quasi nulla è modellato, piuttosto assemblato) non può che farci da specchio. Certe biglie di metallo – come quelle che soprammobili riproducono l’entropia e la finitezza di ogni energia, o, munite di batteria, ci illudono del contrario – sono lì, a una minima distanza l’una dall’altra, bloccate dalla solidità del loro sostegno: non si toccheranno mai. A meno di una rottura.
Melotti come tutti i grandi artisti è così, ti spinge a riflessioni profonde, a fare i conti con quanto di germinale c’è in ogni nascita della forma, qualunque forma. Come in alcune ceramiche dove ci sembra di risalire, aspirati e ispirati, all’origine: nel campo di battaglia di nuclei, protoni, particelle che – come non ricordiamo in quale film di cassetta – guardate da sempre maggiore distanza risultano essere prima parte di un arto, poi via via che la distanza aumenta, di un uomo, un paesaggio, un continente, un pianeta. Per scoprire alla fine che siamo null’altro che una cellula infinitesimale di chi sa quale gigantesco e precario organismo morente. O vivente, se state di genio. (cyop&kaf)