È in libreria a Napoli, Roma, Milano, Torino, e dalla prossima settimana anche a Bologna, il numero 7 de Lo stato delle città.
Pubblichiamo dalla rivista l’articolo Addio a Hong Kong. Il tallone di Pechino sul dissenso democratico.
Esclusa Londra, il sud dell’Inghilterra è composto da cittadine piccole, molto simili tra loro e rassicuranti nel garantire ai propri abitanti uno stile di vita calmo e abitudinario: negozietti, qualche caffè e soprattutto pub. Queste caratteristiche, legate anche a un costo della vita – e delle case – ancora accessibile, le rendono invitanti per una certa fascia della popolazione inglese, magari over 40, con qualche risparmio messo via lavorando in città e ora alla ricerca di una dimensione di vita più umana. Quello che probabilmente l’inglese medio non si sarebbe aspettato è invece di trovarsi a convivere con comunità di hongkonghini in fuga dal Pcc (Partito comunista cinese). Dal 2020 a oggi, infatti, novantamila cittadini di Hong Kong sono già emigrati all’estero in risposta all’entrata in vigore della Legge per la Sicurezza Nazionale (LSN, 30 giugno 2020) e una stima di Bank of America ha calcolato che la cifra raggiungerà i centocinquantamila – con relativa fuga di capitali dalla città per un valore di circa trentasei miliardi di dollari americani. In parte per l’aspetto affettivo, in qualità di ex colonia, in parte per l’apertura del Regno Unito a favore degli hongkonghini possessori di Bno (passaporto che conferisce nazionalità britannica all’estero), il sud dell’Inghilterra è stato eletto a terra promessa dalla maggior parte degli esodati.
Bisogna tuttavia fare le dovute distinzioni. Da un lato vi è un numero ristretto di individui, detentori però della più larga fetta dei trentasei miliardi citati, il cui interesse è portare i propri capitali all’estero (quindi non più alla portata del governo cinese) e che solo nel periodo citato hanno acquistato circa il nove per cento degli immobili di extra lusso di Londra. Dall’altro ci sono famiglie del ceto medio che si sono vendute appartamenti e attività per ricominciare da zero nel sud del Regno Unito. In quest’ultimo gruppo ci sono tanto attivisti quanto persone che hanno semplicemente partecipato alle manifestazioni e che, vedendo in questa stretta del governo cinese un punto di non ritorno, mettono su famiglia all’estero pensando al futuro dei propri figli, specie in ambito scolastico.
Anche nel mio piccolo ho potuto osservare una diaspora nei giri di persone che frequento. Tralasciando i miei amici stranieri, ci sono tre storie che considero rappresentative: ‘K’ che ha lasciato Hong Kong poiché pro-manifestanti, seppure non direttamente coinvolta nelle proteste, e ha deciso di andare a vivere un’avventura in UK; ’S’ che invece era molto coinvolto con il fronte di liberazione, al punto da essersi messo in macchina per andare a soccorrere i manifestanti in fuga durante l’assedio al Politecnico nel 2019 (quando i manifestanti saltavano giù dai cavalcavia per salire su auto di sconosciuti accorsi lì per sottrarli all’arresto ormai imminente) ed è ora preoccupato che, con lo stringersi delle maglie della grande rete che il governo cinese ha gettato sulla città, arriverà anche il suo turno; infine ‘F’, che alla soglia dei sessant’anni, dopo una vita spesa in città, ha deciso di andar via con la moglie e vivere la propria pensione in un posto totalmente sconosciuto. Lui rappresenta qualcosa che ho scoperto essere molto raro qui a Hong Kong, specie tra gli uomini della sua generazione: uno spirito progressista in una città fondamentalmente conservatrice. Sebbene, infatti, Hong Kong sia una città estremamente veloce, è nello spirito dei suoi cittadini credere che le cose, alla fine, tendano a rimanere fondamentalmente immobili. Va bene anche lamentarsi del potere, ma in fondo la stabilità economica, e il conseguente benessere, sono garanzie sufficienti alla conservazione dello status quo.
Nel 2015 il “movimento degli ombrelli” ha rappresentato un’accelerazione senza precedenti, una folata di vento tale da smuovere ciò che pareva inamovibile: la coscienza politica della città. Quella fu la stagione delle prime volte: dalle strade occupate agli interventi – ancora proporzionati – della polizia, ogni cosa pareva straordinaria ed estemporanea, ma sempre con l’idea che alla fine tutto si sarebbe rimesso a posto, con il raggiungimento di obiettivi politici minimi e Beijing, colta con le mani nel sacco a non rispettare gli accordi presi, costretta a ritornare sui suoi passi. La certezza di vivere in uno stato di diritto ha cullato i sogni di democrazia – talvolta ingenui – anche nei periodi più caldi del 2019, fino a che nel 2020 l’intervento di Beijing come un deus ex machina ha alterato drammaticamente lo scenario.
In questo primo anno dall’entrata in vigore della Legge per la Sicurezza Nazionale ha sbalordito la velocità con la quale è cambiato di nuovo il vento, in modo non dissimile al 2015 seppure in direzione opposta. La convinzione di taluni che la nuova legge potesse essere un semplice spauracchio si è presto rivelata un’illusione e l’azione del Dipartimento per la Sicurezza Nazionale (DSN) è invece andata a toccare in maniera capillare qualunque forma di dissenso, anche retroattivamente, così da non lasciare nessuno escluso.
In poco più di un anno il DSN ha arrestato cento e cinquantaquattro persone. Guardando ai dati sugli arresti (consultabili liberamente su Chinafile) emerge come i timori di un uso strumentale e repressivo della legge si siano infine dimostrati fondati. Leggendo le motivazioni degli arresti è spesso difficile cogliere come molti degli episodi incriminati rappresentino un rischio reale per la sicurezza nazionale, ancor più se si considera che gesti banali quali il possesso di poster, bandiere o addirittura sticker sulla cover del proprio telefono vengano adesso indicati come atti sovversivi. Ovviamente non tutti gli arresti hanno avuto lo stesso peso. Mentre la maggior parte dei cittadini che hanno manifestato dissenso con piccole proteste sono stati poi rilasciati e non hanno a loro carico provvedimenti legali, lo stesso non può dirsi per gli oppositori politici storici, membri dei movimenti democratici di opposizione e delle organizzazioni studentesche che avevano sostenuto le proteste del 2019 (anche quando poco coinvolti nella loro organizzazione). In quest’ultimo anno l’attività del DSN si è mossa fondamentalmente con tre obiettivi: scoraggiare qualunque forma di pensiero anti-sistema; smorzare i toni della stampa attraverso punizioni esemplari; infine annientare – criminalizzandola – l’opposizione politica.
Alla prima categoria si possono ricondurre ventiquattro degli arresti fatti nel primo periodo ai danni di persone che si erano riunite in piccoli sit-in nei centri commerciali e cantavano slogan o sventolavano bandiere. Lo scopo di questi arresti era di mandare un messaggio e dimostrare come la nuova legge sarebbe stata applicata senza sconti, come invece si augurava parte della stampa internazionale. Fa riflettere però come solo dodici di queste ventiquattro persone siano state accusate di possesso di materiali “sediziosi” o di aver cantato slogan “secessionisti”. Le altre dodici sono state invece arrestate adducendo motivazioni più vaghe, sempre nell’ambito dei crimini di espressione. Eccesso di zelo, una certa confusione iniziale su cosa fosse effettivamente punibile sotto la nuova legge ma, soprattutto, un’investitura di potere alle forze dell’ordine, in diritto ora di arrestare chiunque urti la loro sensibilità.
Sul fronte dell’informazione, le influenze della LSN hanno portato all’arresto di vari giornalisti per la loro attività durante le proteste del 2019 e, platealmente, alla chiusura della testata d’opposizione Apple Daily con l’arresto del suo fondatore oltre che di altri membri della redazione. Il giornale era da tempo un simbolo per le forze democratiche in città e il suo fondatore, il tycoon Jimmy Lai, rappresentava uno dei pochi uomini con una certa influenza e patrimonio che aveva deciso di mettersi di traverso agli interessi di Beijing. Con l’accusa di “cospirazione con forze estere” per presunte connessioni con i servizi americani, Lai è stato prima arrestato (11 dicembre 2020) e ha visto poi gli asset delle tre compagnie, Apple Daily Ltd, Apple Daily Printing Ltd e AD Internet Ltd, oltre ai suoi conti personali, sequestrati dalla polizia (14 maggio 2021). Privato dei propri fondi, era chiaro che il giornale avesse i giorni contati, ma a dare il colpo di grazia è stato un raid della polizia (17 giugno 2021) che ha coinvolto cinquecento agenti e ha portato all’arresto dell’amministratore delegato, del direttore generale, del capo redattore, dell’editore associato e del direttore della piattaforma Apple Daily Digital. L’ultimo numero, il 24 giugno, ha visto centinaia di persone in fila per dimostrare il proprio supporto e dare un ultimo saluto a quello che molti consideravano l’ultimo giornale libero di Hong Kong. Tra gli altri episodi di controllo dell’informazione cito anche l’arresto di cinque membri dell’Organizzazione dei Logopedisti di Hong Kong con l’accusa di sedizione per aver pubblicato una serie di libri per bambini in cui hanno provato a spiegare gli eventi del 2019 a un giovane pubblico, rappresentando come pecore e lupi le diverse parti coinvolte negli scontri.
Infine ci sono le ripercussioni politiche della legge. Fin dal 2015 ci sono stati vari tentativi di azione legale verso gli organizzatori dei movimenti studenteschi e democratici a più riprese arrestati e poi rilasciati su cauzione, in un susseguirsi di intimidazioni, proteste e battaglie legali. Molto diverso è doversi difendere da capi d’accusa per terrorismo, sovversione e collusione con forze estere sotto la nuova LSN, rischiando pene che si misurano in decenni. In previsione di rastrellamenti tra le forze politiche di opposizione, molti attivisti e figure pubbliche hanno lasciato la città cercando rifugio in paesi esteri. Tra gli esempi più celebri Nathan Law, storico fondatore del movimento Demosisto, oggi in esilio in UK con lo status di rifugiato politico. Tra quelli rimasti, gli altri due fondatori di Demosisto, Joshua Wong e Agnes Chow, hanno visto nuovi capi d’accusa aggiungersi alla già lunga lista di provvedimenti a loro carico. In particolare, la Chow è stata arrestata il 10 agosto 2020 con l’accusa di “collusione con forze estere” per gli appelli internazionali a sanzionare la Cina in relazione agli atti repressivi perpetrati a Hong Kong. L’obiettivo è quello di isolare l’opposizione locale tagliandola fuori da qualunque forma di supporto, fosse anche emotivo e morale, proveniente da simpatizzanti esteri.
L’arresto più eclatante, e sicuramente quello con le conseguenze politiche più devastanti, è però quello avvenuto a febbraio 2021: cinquantatré membri delle forze democratiche vincitori delle primarie svoltesi a luglio 2020 in vista delle elezioni del Consiglio Legislativo (LegCo). Previste per settembre 2020, poi posticipate a settembre 2021 adducendo il rischio di contagio da Covid-19, le elezioni del LegCo erano considerate dalle forze di opposizione come una chance per ottenere i trentacinque seggi necessari per votare contro la manovra finanziaria 2021 e delegittimare il governo. Il 6 gennaio 2021 il gruppo degli eletti è stato però arrestato con l’accusa di “sovversione”. A conclusione del rimodernamento dello scenario politico, il governo centrale ha poi fatto passare una riforma elettorale che incrementa i seggi del LegCo da settanta a novanta, lasciando invariato il numero di seggi eletti direttamente – venti – e aggiungendo una postilla sul “patriottismo” dei candidati, da qui in avanti condizione necessaria per rendere ogni candidato ammissibile alle elezioni. Questo evento storico ha cancellato in un colpo anni di storia dell’opposizione politica in città e delinea una visione del Pcc in cui non esistono canali, tanto istituzionali quanto popolari, per esprimere dissenso.
È importante anche tenere conto che non solo le figure di maggiore esposizione pubblica si confrontano con la nuova legge, ma ci sono state ripercussioni e arresti anche per figure più moderate come il Civil Human Rights Front, organizzatore di molte delle manifestazioni del 2019 regolarmente autorizzate dalla polizia, o come Martin Lee e Margaret Ng, leggendari giuristi pro-democratici, condannati a dodici mesi di reclusione per il loro ruolo organizzativo in una manifestazione del 2019 svoltasi in totale tranquillità. Anche l’ultima grande manifestazione, quella del 4 giugno in ricordo degli eventi di piazza Tienanmen, tenutasi ogni anno fin dal massacro nel 1989 (salvo nel 2020 a causa del Covid), è stata ufficialmente dichiarata illegale, con alcuni degli attivisti arrestati sotto la LSN e il gruppo organizzatore infine costretto a sciogliersi sotto le pressioni politiche.
Questi eventi pesano oggi sugli umori della città come macigni: chi può se ne va, chi rimane cerca di mantenere un basso profilo. L’obbligo di sottoscrivere un giuramento di fedeltà allo stato cinese è stato esteso a tutti i dipendenti pubblici e dopo le organizzazioni studentesche anche i sindacati sono stati costretti a sciogliersi. Si vocifera di una legge per impedire ai dissidenti di lasciare il paese e sempre più compagnie private si preparano ad andarsene. Stanno contando i voti delle elezioni al LegCo proprio mentre scrivo questo articolo, ma non c’è motivo di stare col fiato sospeso. È calato un velo su questa stagione politica, i suoi protagonisti sconfitti, esiliati o in galera; chi potrebbe chieder conto al governo delle proprie azioni viene zittito e minacciato. Per molti gli eventi degli ultimi quindici mesi sono terribili e irreversibili, eppure in qualche modo la città andrà avanti, come una sorta di circo il cui spettacolo deve continuare visti gli interessi in gioco. Il timore è che, preservando i capitali della città e assorbendo col mercato interno eventuali crisi economiche, la Cina riesca a cancellare definitivamente, e in modo indisturbato, lo spirito critico di Hong Kong.
Quando, infine, è arrivato anche il turno mio e della mia famiglia, l’aeroporto internazionale era semi-deserto, svuotato della sua energia, silenzioso. Ho trovato che fosse un’immagine adeguata, sebbene triste, del futuro più probabile e prossimo della città. È stato strano lasciare un luogo così familiare, che ho addirittura chiamato casa per anni, senza avere la certezza di tornarvi. Ho provato poi a pensare come dovesse sentirsi davvero mia moglie che, come tanti altri esodati, a Hong Kong c’è nata e cresciuta. Prima che se ne andasse chiesi a ‘F’ se sarebbe mai tornato in città. Mi rispose che è solo una questione di tempo. Nonostante oggi sembri impossibile, anche la dittatura del Pcc cadrà e inizierà per Hong Kong una nuova stagione. Personalmente ho difficoltà a condividere il suo ottimismo e se la città è, ahimè, persa, l’ombra di Beijing già si allunga verso Taiwan con conseguenze che impatteranno in tutto il Pacifico. (wonton)