È stata accusata di antisemitismo da Benjamin Netanyahu che ha persino invitato i telespettatori a boicottare la società che, insieme a HBO, ha prodotto la serie, Keshet Studios (la cui sussidiaria è casualmente coinvolta nell’inchiesta che ha portato alla sua incriminazione per corruzione). Our Boys, co-diretta dal regista israeliano Joseph Cedar e dal palestinese Tawfik Abu-Wael, ha suscitato non poche polemiche all’indomani della sua messa in onda il 12 agosto dell’anno scorso. La serie, ambientata nell’estate del 2014 a Gerusalemme e dintorni, ricostruisce il periodo successivo al rapimento e all’uccisione in Cisgiordania di tre coloni israeliani – Eyal Yifrah, Gilad Shaar e Naftali Fraenkel – da parte di Hamas seguita dalla rappresaglia dove perse la vita, bruciato vivo, il sedicenne palestinese Muhammad Abu Khdeir.
I sanguinosi fatti di quell’estate, che la serie rimette in scena, furono l’anticamera dell’Operazione Margine di Protezione nella quale persero la vita oltre duemila palestinesi nella Striscia di Gaza, quasi un quarto dei quali bambini, sessantasei soldati e cinque civili israeliani. Our Boys si concentra principalmente sull’inchiesta portata avanti dagli uomini dello Shin Bet, l’agenzia israeliana di intelligence per gli affari interni, sull’uccisione di Abu Khdeir. Un crimine «troppo efferato per essere stato commesso da ebrei», questa la prima considerazione in apertura delle indagini di uno degli agenti. Si dovrà ricredere, poiché a uccidere il ragazzino, nella serie così come nella realtà, furono tre israeliani, di cui due minorenni. Le indagini fungono da pretesto narrativo per analizzare la dolorosa complessità di una vicenda forse emblematica se non addirittura archetipica, fondata com’è sulla vendetta, da sempre motore propulsore del racconto tragico. I tropi e gli stilemi del procedural vengono utilizzati per scoprire i nervi di una società attraversata da violente pulsioni etnocratiche, insanabili contraddizioni e tenuta paradossalmente insieme dal suo “nemico interno”. Per una volta però il nemico passa in secondo piano e a emergere nel corso della serie è un altro “mostro”, simile e all’apparenza speculare alla sua nemesi. Le indagini portano infatti alla luce un fenomeno di cui poco si parla e ancor meno si sa, almeno qui da noi: il fondamentalismo religioso di matrice ebraica e la violenza alla quale dà adito.
Del tutto simile al suo corrispettivo islamista in materia teologica, accomunati come sono da un delirante assolutismo monoteista, l’oltranzismo sionista di estrema destra gode di una sponda istituzionale nel governo israeliano che regolarmente tollera la violenza dei coloni nei territori occupati. Una violenza identitaria, generatrice per altro di una resistenza spesso altrettanto identitaria, che i creatori della serie contestualizzano in maniera impeccabile (anche se proprio di “aver peccato” sono stati accusati dal Jerusalem Post, rei di avere tracciato un’equivalenza morale tra le due parti). La serie ha il pregio di esaminare le dinamiche di questa violenza con precisione forense, passando al vaglio i connotati sociali e indirettamente politici che sottendono a quello che lo storico israeliano Ilan Pappé ha definito un “genocidio incrementale”. Lo sfumato naturalismo col quale i profili dei personaggi vengono tratteggiati è l’antidoto perfetto a ogni forma di demonizzazione, anche perché la loro follia, come mostra la serie, è tanto omicida quanto lucida. Anche il “nemico”, solitamente senza volto, o al massimo dotato di sembianze diaboliche, viene rappresentato nella sua umana complessità. “Quando i genitori di Muhammad Abu Khdeir hanno saputo che sarei stato io a raccontare la loro storia e il loro dolore hanno tirato un sospiro di sollievo”, ha rivelato Tawfik Abu-Wael al direttore del New Yorker David Remnick in un’intervista. Alle indagini si intreccia infatti la storia della famiglia del ragazzino ucciso, del loro lutto e della loro frustrante ricerca di giustizia. Durante il processo richiederanno la demolizione delle case dei tre imputati, trattamento gentilmente riservato ai palestinesi ogni qualvolta si rendono responsabili di atti terroristici, o presunti tali. Obiezione respinta: la legge, a quanto pare, non è uguale per tutti. Nel penetrare i gangli e le tare del sistema giuridico israeliano, Our Boys mostra la conformazione istituzionale di un sistema che ha effettivamente trasformato la vittima in carnefice. Una vittima non solo declassata al rango di cittadino di serie B, ma anche perversamente costretta a giustificare la propria esistenza (i palestinesi sono stati a più riprese definiti una “minaccia demografica” negli ultimi settant’anni, non da ultimo dal detrattore della serie di cui sopra).
Spaventose le immagini di repertorio inserite nella serie quando, a seguito dell’uccisione dei tre coloni israeliani, una folla linciante si riversava per le strade di Gerusalemme Ovest a caccia di palestinesi al grido di «morte agli arabi». I giorni precedenti al rapimento e all’uccisione di Abu Khdeir furono infatti caratterizzati da un’atmosfera a dir poco incandescente. Noam Perel, il responsabile della più grande organizzazione giovanile sionista al mondo, invitava l’esercito israeliano dal suo profilo Facebook a trasformarsi in “esercito della vendetta” e lo esortava a non farsi intimidire da “trecento prepuzi palestinesi”. La faccenda, a suo dire, andava espiata “col sangue, non con le lacrime”. Così andò.
Uno dei creatori di Our Boys, Hagai Levi (lo stesso di In Treatment), ha sostenuto che lo show è una sorta di anatomia del crimine d’odio. Più che le ragioni politiche del crimine, seppur evidenti, a essere presa in più attenta considerazione è la tendenza di una parte della società israeliana a ritenere la propria esistenza incompatibile con quella palestinese. Condita da farneticazioni bibliche, la missione punitiva che porterà alla morte di Abu Khdeir rientra in una logica sì malata, ma non priva di una sua coerenza interna. Gli arabi ci vogliono morti, così a noi tocca difenderci. Logica che l’agente Simon, infiltrato negli ambienti dell’integralismo mizrahim per scovare i colpevoli, non trova poi così inusitata. Anche lui appartiene alla stessa comunità, quella dei mizrahi, ebrei originari del mondo arabo maggioritari nell’ala dura del sionismo più intransigente e violento. Durante una cena a cui l’agente è riuscito a imbucarsi, un rabbino ultra-ortodosso e il suo ospite, un matematico russo, discutono dell’esistenza di una giustificazione biblica a questo tipo di vendette (in riferimento all’uccisione di Abu Khdeir). Di fronte a un nemico irrazionale, la follia omicida acquista un valore strategico. «È per questo – dice il matematico – che, matematicamente parlando, un arabo bruciato vivo è cosa buona e giusta per gli ebrei». Quando l’agente dello Shin Bet riascolta la conversazione con un collega, quest’ultimo la ritiene sufficiente per essere considerata istigazione a delinquere. Simon, cinico e lapidario, gli risponde: «Mio fratello avrebbe potuto dire la stessa cosa, così i suoi figli e tutte le persone che conosco».
Al contrario del tipico intreccio liberal, coi buoni e i cattivi da entrambe le parti e il “volemose bene” a caratteri cubitali nei titoli di coda, Our Boys imbastisce un discorso molto più complesso, impolitico a ben vedere. La radiografia dell’odio nei confronti degli arabi è infatti priva di qualsiasi morale o conclusioni manichee. Il finale non rappacifica né rivendica alcunché, semplicemente si esaurisce in un vicolo apparentemente cieco dove neanche la giustizia accende un barlume di speranza. Evitando facili schematismi tra buoni e cattivi, moderati ed estremisti, la serie restituisce l’immagine di una disgrazia nelle sue banali articolazioni quotidiane. Interessante il personaggio della psichiatra di uno dei tre responsabili dell’omicidio di Abu Khdeir, anche se il referto diagnostico che la serie consegna allo spettatore non è individuale, bensì collettivo. Gli esecutori materiali della vendetta altro non sono che prodotti di un comunitarismo asfittico, paranoico e xenofobo che gli autori della serie hanno ricostruito con tatto e dovizia di particolari, sia a livello caratteriale che socio-coreografico. Come faceva notare il quotidiano israeliano Haaretz, Our Boys non ha paura di avventurarsi “nei meandri più oscuri della psiche nazionale”. Una sorta di copia in negativo dell’hasbara mediatico del quale Israele, come qualsiasi altro stato, si avvale per ripulire la propria immagine.
A partire dal titolo stesso, la serie imbastisce un discorso meta-mediatico che intercetta la retorica nazionalistica per smontarla. Our Boys allude infatti all’hashtag #BringBackOurBoys che fu lanciato all’indomani del rapimento dei tre coloni israeliani, quando ancora si auspicava un loro ritorno a casa sani e salvi. La domanda retorica che i creatori della serie pongono allo spettatore è: quali sono i “nostri ragazzi”? Le tre vittime innocenti o i tre carnefici vendicatori? La serie non risparmia critiche nemmeno alla macchina mediatica, facendo esplicito riferimento alle voci che furono messe in giro durante l’indagine riguardo la presunta omosessualità di Abu Khdeir. «L’omicidio verrà ricordato come un delitto d’onore, “gli arabi hanno ucciso una checca”, punto», dichiara il giornalista che ha diffuso la notizia. «È così che si forma l’opinione pubblica», aggiunge poi soddisfatto. Un’opinione pubblica che, da entrambe le parti, va detto, ormai adotta e propaga unanimemente la versione etno-religiosa di un conflitto che esclusivamente tale non è mai stato. Come tutti i conflitti di natura coloniale, infatti, anche quello israelo-palestinese affonda le sue radici nella ragione economica e geostrategica, non di certo biblica o coranica. Basti qui ricordare il ruolo che il partito comunista palestinese ricoprì nella rivolta araba del 1936 e nel movimento anti-sionista più in generale. A maggioranza ebraica, ma con una presenza araba consistente anche nei quadri dirigenti (nonché una minoritaria di armeni), il partito comunista palestinese si batté infatti contro imperialismo britannico e sionismo fino alla sua dissoluzione nel 1948. Nel mostrare gli stadi terminali di un sovranismo identitario etno-religioso, la serie rivela l’insufficienza letale del nazionalismo in un conflitto più che mai bisognoso di una ventata ossigenante di internazionalismo. (giovanni vimercati)