Durante questa pandemia gli anestesisti-rianimatori come lei, sono stati molto silenziosi, eppure eravate in prima linea nelle terapie intensive. Vi è stato impedito di parlare in pubblico? Com’è andata veramente?
Sui media hanno scelto come interlocutori medici in grado di bucare lo schermo, buoni comunicatori anche se non lo sapevano prima, senza un particolare criterio. Anestesisti-rianimatori come me, veramente pochi, neanche la presidente della società scientifica nazionale ha poi avuto grande spazio, solo qualche vecchio barone a fare da mattatore, sia sui media che nelle pubblicazioni scientifiche. Gli interlocutori medici sono stati individuati tra i dirigenti dell’Istituto Superiore di Sanità, ma dopo una prima imponente sovraesposizione (come non ricordare le conferenze stampa), si sono defilati alla chetichella e adesso parlano solo se costretti, dopo lo scandalo sul piano pandemico nazionale non rinnovato.
In alcune regioni (per esempio in Campania) si è saputo di vere e proprie disposizioni aziendali per impedire al personale dipendente di comunicare con i media, ma più in generale la comunicazione è stata astutamente centralizzata attraverso uffici stampa, direttori generali e qualche star, ma poi direttamente attraverso la politica, i presidenti di regione. Pochi assessori regionali alla sanità protagonisti. Per noi operatori sul campo, parlare singolarmente coi media si sarebbe rivelato un boomerang, ti avrebbero facilmente isolato se ti lamentavi, nessuno ti avrebbe difeso in caso di attacchi, le poche timide denunce sulle condizioni di lavoro, soprattutto all’inizio (DPI, mascherine, formazione, ecc.) sono passate attraverso i sindacati. Inoltre, nelle regioni dove non erano arrivati ordini o interdizioni scritte, medici e infermieri non si sono esposti per sovraccarico di lavoro, per paura e per prudenza. A mio parere sarebbero dovuti essere i responsabili organizzativi, i direttori generali delle aziende ospedaliere, dei policlinici, i direttori di dipartimento, quelli a cui fare le domande, da cui pretendere le risposte. Per evitare che il sistema si nascondesse dietro la politica, per evitare i pareri contrastanti del mondo scientifico. Ma ha fatto comodo a molti non doversi esporre e potersi nascondere dietro la politica.
Si è parlato molto di carenze in organico di medici e infermieri. Il Sistema Sanitario Nazionale, dopo anni di tagli alla spesa, dove ha trovato le risorse umane?
Per l’emergenza Covid il SSN è stato costretto ad assumere gli anestesisti in formazione dell’ultimo anno, il quinto; poi abbiamo contrattualizzato in emergenza anche quelli del quarto e degli altri anni: tuta, mascherina e via nel Covid pure loro… Nella città dove lavoro c’è un’università importante, ma i medici specializzandi non hanno mai fatto didattica frontale teorica, i docenti titolati per tutta la scuola di specializzazione sono due o tre, il mestiere s’impara sul campo, da noialtri professionisti demotivati e lunatici, senza alcuna competenza didattica.
Così abbiamo affrontato la prima emergenza nel marzo 2020: mentre giornali e tv raccontavano gli eroi in prima linea, noi ci siamo trovati a mani nude e coi fucili di cartone. La solidarietà della città intorno si sentiva: roba da mangiare e da bere, uova e colombe pasquali, le sirene della polizia e dei pompieri per festeggiarci, le donazioni anche da supermercati, associazioni, fondazioni; tanta adrenalina, sembrava fossimo gli unici a poter fare qualcosa in quella situazione assurda… facevamo quello che potevamo.
La cura del Covid. Chi sapeva in che modo affrontare questi ammalati gravi? Quali fonti scientifiche avete utilizzato per impostare i protocolli in Terapia intensiva?
Tutti impreparati, tutti colti di sorpresa: leggere, studiare, cercare di capire, consulenze d’ogni tipo, teorie d’ogni sorta, meeting a distanza, articoli non ancora approvati che circolavano, oracoli di varia natura… Anche i grandi esperti di ventilazione, il prof. Gattinoni a Chöttingen, un’eccellenza italiana, quello che ha insegnato la ventilazione meccanica in terapia intensiva a mezzo mondo, un anestesista sì, laureato in medicina, capo dei capi incontrastato a Milano per decenni… Quello che ha detto ogni cosa su un certo tipo di polmonite simile al Covid, dopo che le riviste scientifiche hanno pubblicato i suoi commenti a caldo (assomiglia ma non è, il polmone è morbido ma solo all’inizio, poi s’irrigidisce…). Ebbene, anche lui caduto nel mutismo, riapparso nel qualunquismo mediatico da pensionato evaso in Germania ogni martedì su La7 a parlare di tamponi e vaccini! Ma come? Prof, come li dobbiamo curare questi malati… diteci qualcosa… la cura, la cura… qual è la cura?
Inizialmente la polmonite interstiziale bilaterale da SARS-CoV2 che evolveva in insufficienza respiratoria, è stata trattata come un ARDS (Adult Respiratory Distress Sindrome): paziente sedato e intubato, ventilazione meccanica “protettiva”, piccoli volumi respiratori ad alta frequenza con pressioni positive elevate, posizione prona per favorire il reclutamento delle parti posteriori di polmone compresse. Durante la prima ondata arriva l’emergenza ossigeno: le centrali ospedaliere non supportano l’erogazione di quantitativi mai visti prima di ossigeno, scopriamo addirittura che in Italia c’è una sola fabbrica che produce le bombole! Ma com’è possibile? Come fanno in Africa, dove per migliaia di chilometri non c’è neanche un palo della luce e trasportare bombole d’ossigeno su strada è pericolosissimo? Usano i concentratori d’ossigeno: piccoli o anche grandi macchinari, che prendono l’aria dell’ambiente al 21% d’ossigeno e la concentrano anche oltre il 90%, semplice! Ma in Italia nessuno ne parla, nessuno pensa a utilizzare questa semplice ed economicissima fonte. Del resto, durante la prima ondata abbiamo appreso che non esisteva nemmeno nessuna fabbrica che producesse mascherine: tutte in Cina le compriamo! La maggior parte dei pazienti erano uomini, anziani, obesi. Farmaci: sedativi, vitamina C endovena, antibiotici ad ampio spettro. Ci sarebbe stata indicazione al cortisone (ARDS non ha un virus dietro), ma qui sì, c’era di mezzo un virus: non si usa il cortisone sui virus, una delle poche certezze che abbiamo, quindi non avevamo nient’altro.
Poi abbiamo iniziato a provare antimalarici (idrossiclorochina), diversi antivirali (Hiv, Ebola…), infine è arrivata la notizia che i dati raccolti dal prof. Ascierto, ospedale Pascale di Napoli (famoso centro oncologico), sull’utilizzo del Tocilizumab (anticorpo monoclonale) erano promettenti. L’anticorpo monoclonale indeboliva la risposta auto-immunitaria che in questi pazienti sembrava peggiorare la polmonite: la tempesta citochinica. Nella mia realtà ospedaliera abbiamo aderito alla sperimentazione di Napoli in maniera un po’ approssimativa iniziando a somministrare anticorpi monoclonali a tutti i pazienti, quasi indistintamente. Nel frattempo gli esperti di ARDS hanno messo in fila i dati, iniziando a sostenere che nella fase iniziale di polmonite il paziente non va ancora ventilato in “maniera protettiva”, che forse intubarlo prima possibile ci può dare un vantaggio, ma senza essere così aggressivi con i parametri ventilatori: il polmone inizialmente è ancora “morbido” e si lascia ventilare. Noi sul campo immediatamente ci siamo adeguati iniziando a intubare pazienti, svegli, coscienti; li abbiamo addormentati e siamo andati avanti. Sul fronte degli antivirali e antiparassitari, dopo aver dato per due mesi idrossiclorochina a tutti, è emersa la certezza di nessuna efficacia, solo aritmie, maligne nei cardiopatici. L’unico farmaco di cui iniziamo ad avere dati positivi era l’anti-ebola: Remdesivir, le dosi finiscono alla velocità della luce. In seguito, l’efficacia del Tocilizumab e del Remdesivir è stata confutata. Era in corso la seconda ondata: autunno 2020. Poi entrambi sono stati riabilitati da altri studi, con l’inizio del 2021.
Noi aggiorniamo le terapie pedissequamente sui pazienti, senza avere alternative. L’azione combinata dell’antivirale e dell’immunosoppressione sembrano avere qualche effetto negli stadi inziali della malattia, dopo non fanno altro che esporre a sovrainfezioni batteriche, ma noi continuiamo così nella terza ondata, continuiamo a non avere altre armi. Studi con pochi pazienti, non omogenei, senza veri confronti, guerre internazionali all’ultimo sangue tra scuole di pensiero per lo più. Il cortisone è poi diventato indispensabile per i casi disperati, come salvavita; progressivamente l’utilizzo è diventato più permissivo, i fanatici del cortisone hanno iniziato a calcare la mano con dosaggi stellari, in seguito è emerso uno schema a dosaggi medio-bassi, sedici milligrammi al giorno, che iniziamo a fare a tutti i pazienti critici. Poi è la volta dell’eparina sottocute: i pazienti critici iniziano a presentare una certa percentuale di embolie polmonari; aumentiamo progressivamente le dosi di eparina a questi pazienti, scoagulandoli a tal punto da essere necessarie trasfusioni di sangue massicce. Anche qui, bisognerà aspettare la terza ondata per trovare un minimo di equilibrio. Il plasma estratto dai pazienti che sono guariti dal Covid (il plasma iperimmune): un altro modo per trasferire anticorpi contro la proteina spike del SARS-CoV2 direttamente nel sangue dei pazienti ammalati. Ci sono effetti collaterali già noti del plasma, in piena pandemia è difficile prelevare il plasma dalla popolazione in sicurezza, non ci sono forti evidenze scientifiche, se ne continuano a occupare grandi centri, policlinici, in forma sperimentale. Ma un’arma c’era, un miraggio lontano, una tecnologia imponente: l’ossigenazione extra-corporea (ECMO): è in grado di ossigenare il sangue, se i polmoni non riescono a farlo. Disponibile soltanto in grandi centri, pochi in Italia, ne avevamo letto e sentito parlare in anni di congressi, milioni di euro per comprare tecnologia e formare personale, arriva subito la notizia che in giro per l’Europa le terapie intensive lo stanno utilizzando, ma in Italia niente, nella mia area di riferimento uno, due pazienti, tante difficoltà, molte limitazioni, qualcuno a Roma, a Milano, nei centri d’eccellenza, poi niente più, silenzio, così anche nella seconda e nella terza ondata.
Ovviamente l’incertezza ha aumentato le difformità di comportamento, per non parlare dei pazienti a domicilio, ai quali è stato dato antibiotico precocemente ad ampio spettro, rendendoli in gran numero resistenti alle prime linee di antibiotici nel momento in cui si aggravavano; idrossiclorochina a domicilio che si era dimostrata inefficace continua ancora oggi a essere prescritta, come il cortisone nelle prime fasi di replicazione del virus, aiutandolo a crescere. Abbiamo dovuto aspettare la fine di aprile 2021 per leggere un timido protocollo del Ministero della sanità/Istituto Superiore che consigliava paracetamolo solo sopra 38.5°C, antibiotico solo alla luce di esami colturali positivi, cortisone solo a polmoniti conclamate con le Tac meritevoli di supporto d’ossigeno. Nella regione dove lavoro, adesso hanno addirittura dato l’incombenza ai medici di base di prescrivere l’anticorpo monoclonale, decisione complessa, farmaco solo ospedaliero, ma forse utile proprio in quei pazienti.
Che vuol dire trovarsi di fronte a scelte del genere? Come si fa a decidere se intubare un paziente?
In ventisette anni non ho mai chiesto a nessuno se voleva essere intubato, in questi tredici mesi m’è successo una ventina di volte. Per intubare qualcuno lo devi addormentare con delle medicine potenti, poi a mano attraverso la bocca gl’infili un tubo in gola e colleghi questo tubo a una macchina che pompa ossigeno e aria. Per convincere il paziente a respirare in questo modo, la cosa più semplice è continuare a tenerlo addormentato profondamente, così che non si possa dimenare e strappare il tubo che gli hai posizionato. Il problema è che molti di questi pazienti poi non si svegliano più, perché dal sonno evolvono dopo giorni o settimane verso la morte, perché non migliorano, perché non abbiamo le cure specifiche. Quando abbiamo imparato come funzionava, abbiamo smesso d’illudere le persone e abbiamo iniziato a dirglielo prima, ma non c’è tempo, non è facile e non ci sono alternative.
Mi spiego meglio: arriva un paziente che si è aggravato, da un reparto o dal pronto soccorso, è peggiorato nonostante le cure generiche di cui sopra, non è troppo anziano, non ha troppe altre malattie gravi (in caso contrario, dalla seconda ondata in poi abbiamo iniziato a non accanirci, ma questo è un altro discorso, ancora più complicato da spiegare), non posso fare altro che addormentarlo e intubarlo sperando che così non peggiori ancora e semmai pian piano la polmonite addirittura migliori, ma sono anche consapevole che quattro pazienti su dieci che entrano in terapia intensiva muoiono, se poi hanno più di sessantacinque anni la mortalità aumenta; a quel punto non posso far altro che informare rapidamente il paziente, chiedendogli il consenso a procedere, informare telefonicamente un familiare, chiedere al paziente se vuole fare un’ultima telefonata, videochiamata, lui mi chiede se ce la farà, io gli rispondo che non lo so e poi procedo, ecco tutto. Tipo condannato a morte, ma io non sono il boia. Finisce il mio turno, arriva un altro collega, la rumba va avanti e a un tratto il paziente peggiora o muore, oppure qualche volta dopo un po’ riusciamo a svegliarlo. Nel frattempo togliamo il tubo e gli facciamo un buco direttamente nella trachea, poi lo mettiamo a pancia sotto per giorni e notti mentre dorme, poi cambiamo medicine, gli facciamo prelievi, lo attacchiamo alla dialisi, gli mettiamo decine di cateteri, sonde, raccogliamo un sacco di dati, parliamo di lui dieci volte al giorno con i colleghi a cui diamo le consegne… ma nessuno ha la cura, la malattia procede, gli rifacciamo una Tac ai polmoni, trasportandolo addormentato in radiologia e la polmonite è terribilmente peggiorata… È come la roulette russa, nessuno la governa, il proiettile è uno e il tamburo gira, ma il grilletto viene premuto ininterrottamente. Cosa ne possono capire i pazienti dei rischi che corrono, come facciamo a dargli certezze che non abbiamo neanche noi? Cosa può capirne un familiare a cui comunichiamo che stiamo intubando il familiare e che probabilmente non lo rivedrà mai più da vivo?
Ci sono stati problemi medico-legali in questi mesi di emergenza in questi pazienti critici?
Durante la prima ondata a marzo-maggio 2020, siamo diventati eroi e non ce n’era per nessuno. Almeno un po’ di adrenalina ti dava la forza di resistere alla fatica, alle sudate sotto le tute, ai sacchetti della spazzatura intorno agli zoccoli, alle notizie di qualcuno di noi a casa con la febbre o positivo al tampone. Ma poi la gloria degli eroi è passata e sono iniziate ad arrivare le lettere dagli avvocati dei pazienti. Solo nel mio piccolo gruppo, ne abbiamo beccate già due. Brutta storia. I parenti, sconvolti dal decesso e pungolati da legali spregiudicati, vogliono sapere «com’è morta la mamma?!?», se le cose sono state fatte nei tempi corretti, se l’antibiotico somministrato era quello giusto… Nelle cartelle cliniche che abbiamo mandato a scannerizzare all’ufficio ricoveri si trovava qualunque cosa: esami di altri pazienti, prelievi mancanti, referti sbagliati; impossibile gestire il paziente al letto nella zona sporca e la cartella con la terapia nella zona pulita, saltati tutti i livelli di sicurezza burocratica raggiunti con la cartella digitale, non c’è stato materialmente il tempo di attivarla in emergenza, l’unica sicurezza era la professionalità del singolo: quel medico prescrive per quel paziente e quell’infermiere somministra correttamente. Cosa ne può capire un magistrato che si trova in mano una cartella così? Da eroi a impostori, il passo è breve.
A un anno dalla prima ondata, cos’è cambiato? Quali sono state le scelte strategiche dopo l’emergenza che ha colto tutti di sorpresa?
Il problema è, appunto, che è passato un anno. Tutte quelle incertezze, tutta quell’approssimazione, non sono più accettabili. Chi doveva agire non lo ha fatto, con l’estate il Covid sembrava un problema archiviato, forse si può capire per chi va in spiaggia con l’asciugamani ma non per chi comanda e decide. Nella regione dove lavoro, c’era una carenza pre-Covid di oltre un centinaio di posti letti di terapia intensiva. Il governo regionale a fine giugno 2020 ha inaugurato l’hub nazionale: 147 posti letto di terapia intensiva, sparsi in quattro diversi ospedali della regione, disponibili a tutti gli eventuali pazienti Covid, anche di fuori regione. Non ha generato posti letto Covid, ha ripristinato i posti che gli mancavano per legge, ecco perché ha fatto in fretta. In Germania ci sono 30 posti letto di terapia intensiva per ogni 100 mila abitanti, noi non arrivavamo a 8/100 mila, contati anche in maniera fantasiosa (semintensive, posti letto chiusi, recovery room, ecc.). Ma nella terza ondata ovviamente non sono bastati. Di nuovo chiuse tutte le sale operatorie e riconvertite a posti letto di terapia intensiva, di nuovo stop alle attività ordinarie, rinviati gli interventi chirurgici non oncologici non urgenti. Gli oncologici sono finiti a decine di chilometri dalla città e la soglia del 30% di occupazione delle terapie intensive è stata sforata subito, molto più velocemente che nella prima ondata. Non c’era un posto di terapia intensiva pulita in tutta la città metropolitana, manco negli ospedali privati! Come facevano a parlare di occupazione di terapia intensiva al 45%? Boh.
Ma la sanità privata convenzionata, non poteva sostenervi durante l’emergenza sanitaria?
Nella regione dove lavoro, con le elezioni regionali (gennaio 2020), la sanità pubblica aveva inaugurato una stagione di apertura all’ospedalità privata, con il nuovo assessore regionale pare molto vicino all’ospedalità privata nazionale. L’assessore uscente peraltro, ex direttore del Policlinico più grande della regione, non ha fatto in tempo a uscire dall’ufficio di commissario regionale all’emergenza Covid che era già sul libro paga di un grosso gruppo di cliniche private regionale; come lui l’assessore cittadino alla sanità, al momento in temporanea aspettativa da un altro consorzio di ospedalità privata.
Il sistema integrato pubblico-privato (modello Lombardia), in grado di creare tante eccellenze, spesso specialistiche, capace di attrarre risorse anche da altre regioni, ha cominciato quindi a far gola anche alla nostra regione. Nonostante questo modello abbia mostrato i suoi enormi limiti durante la pandemia (scarsa territorializzazione dell’assistenza), a causa dell’estremo sacrificio a cui è stato costretto il sistema pubblico regionale nei precedenti venti anni, nella regione dove lavoro è stato richiesto comunque aiuto ai privati. Dopo le prime resistenze a rendere disponibili posti letto durate la prima ondata (anche in Lombardia è andata così), dopo duri richiami a mezzo stampa da parte del commissario straordinario (il neoassessore era in isolamento poiché positivo al Covid), sotto franche rassicurazioni di coperture economiche, nella nostra area metropolitana abbiamo assistito alla riconversione di intere cliniche private a posti letto Covid, compresi quelli di terapia intensiva. Ovviamente, contratti in essere non potevano essere recisi dall’oggi al domani, neanche con la diminuzione dei pazienti Covid e abbiamo quindi assistito a inutili trasferimenti di ammalati gravi presso la “Casa di cura tal dei tali”, solo per mantenere in piedi l’occupazione dei posti letto privati, a scapito della continuità assistenziale su ammalati critici per i quali a stento le nostre enormi risorse assistenziali riuscivano a far fronte. Ce li hanno spostati mentre li tenevamo in cura di sera, nei weekend, sembravano pedine…
I sanitari italiani sono stati proposti per il Nobel a Stoccolma per l’encomiabile generosità con la quale hanno agito, ma hanno reagito tutti in modo ordinato davanti a questo enorme terremoto professionale?
Chi avrebbe mai pensato che la pandemia potesse rappresentare una chance per medici e infermieri trombati? I trombati sono quelli che non hanno avuto la possibilità di emergere, di fare carriera; che non avevano gli appoggi giusti, senza sponsor, rimasti a fare i soldati semplici a vita, anche se non più in tenera età. Ma i trombati non sono mai soli. Accanto a loro, per esempio, ci sono quelli che non hanno ancora chiuso tutte le loro partite prima di andare in pensione. In sanità i big, i baroni, i direttori, attaccatissimi al potere e alle poltrone, se non sono universitari hanno la chance di diventarlo, per rimanere dentro fino ai settanta anni! Richiamati alle armi per far fronte alla terribile pandemia, ne hanno subito approfittato per sistemare i conti aperti: forzare trasferimenti di personale segnalato, nominare dirigenti in altre articolazioni aziendali, ripristinare egemonie scricchiolanti, appuntare qualche medaglia di cartone in petto, farsi riconoscere dalla politica per successivi ruoli non clinici. Stesso trattamento riservato ai trombati: sono stati lanciati nella mischia (i veri direttori non si avvicinavano neanche per sbaglio ai pazienti Covid), a comandare eserciti di neoassunti infermieri, specialisti e medici in formazione, senza un incarico ufficiale, sognando che alla fine di tutto sarebbero stati ricompensati diventando primari, capi di qualcosa… E invece? Cavalieri del lavoro! Oltre il danno, la beffa. È saltata fuori questa roba incredibile, dal Quirinale, di nominare cavalieri del lavoro a destra e manca, personaggi che a volte non erano stati nemmeno in prima linea… A oggi pare che le nomination non siano ancora state ufficializzate, ma c’è stato un gran battage… Centinaia di graduatorie di concorso scorse alla velocità della luce, concorsi bloccati da anni per medici ma soprattutto per infermieri, hanno creato un vero e proprio esodo, chiaramente favorendo quelle regioni in grado di organizzare più in fretta la propria burocrazia. Personale sanitario semmai indispensabile al sud nel pubblico, è stato attratto verso le regioni del nord con la promessa del contratto immediato a tempo indeterminato, sguarnendo le fila di quegli ospedali meridionali o sulle isole che poi sono piombati nell’emergenza qualche mese dopo. Nessuna previsione, nessuna pianificazione.
Ho lavorato in Terapia intensiva con giovanissimi infermieri provenienti da case di cura private del sud o del centro Italia, senza nessuna esperienza delle tecnologie, spauriti, confusi, impreparati, anche volenterosi, sovraccaricando l’organizzazione del lavoro degli infermieri esperti, improvvisati formatori su cui convergevano più responsabilità in contemporanea. Medici in formazione specialistica in anestesia e rianimazione, provenienti da mezza Italia, coi contratti più disparati (contratti Covid, CoCoCo, tempi determinati, avvisi pubblici), anche ben pagati a volte, ma senza ancora l’esperienza e l’autorizzazione legale per fare il nostro mestiere. Anche lì, turni organizzati per supportarli e non lasciarli formalmente da soli, scaricando la responsabilità su noi senior, che nel frattempo semmai giravamo per i reparti e in pronto soccorso dove c’erano ammalati da trasferire in terapia intensiva… Ma come altro potevamo fare? Nessuna scelta.
Il problema è che mentre tutto questo succedeva, qualcuno, in qualche “riserva indiana”, non lontano da noi, continuava a fare la sua vita, senza Covid e senza neanche grande pressione di pazienti ordinari per via del lockdown: istituti clinici pubblici famosi, centri privati convenzionati, quelli che non necessitavano delle convenzioni coi pazienti Covid, ecc. Va tutto bene, ma non dopo un anno di tempo che il virus ti ha lasciato per pensare, pianificare e agire, dopo un anno no, non puoi più appellarti al fatto di essere stato colto “di sorpresa” e non puoi permetterti di attribuire la responsabilità al singolo cittadino.
La solidarietà della società civile, le canzoni dai balconi e le donazioni, vi hanno aiutato?
Già nella prima ondata è accaduta una cosa imbarazzante. A livello locale, non so come sia andata nelle altre città, la società si è mobilitata e ha espresso una gran voglia di sostegno alla nostra attività in ospedale. Oltre alle graditissime quantità di derrate alimentari, che ci hanno tenuto compagnia e iniettato endorfine ipercaloriche gioiose nelle vene, su giornali, radio, tv locali e poi sui siti aziendali, sono iniziati a comparire elenchi di donazioni da parte delle associazioni di volontari che solitamente gravitano intorno agli ospedali cittadini. Quando ci siamo resi conto che questa roba donata alla terapia intensiva in realtà poi non arrivava, abbiamo scoperto che per lo più era una gara tra associazioni a chi la sparava più grossa! Le persone volevano donare, loro raccoglievano tanto, comprare apparecchiature e dispositivi non era facile in quella prima fase e così le associazioni si accordavano con medici e direttori loro amici per avere roba “dopo” l’emergenza e qualche volta neanche connessa al Covid… L’importante era accreditarsi con la politica durante l’emergenza uscendo sui giornali. A quel punto abbiamo dovuto ricattarli per avere usato il nostro nome e il nostro lavoro per le loro passerelle, abbiamo preteso che tirassero fuori gli ecografi, i nuovi letti medicali, i ventilatori automatici e i saturimetri per i nostri ammalati, che loro avevano sbandierato. Una fondazione in città ha raccolto da cittadini e aziende quattro milioni e mezzo in sessanta giorni… Le associazioni più piccole sostengono che ne abbiano spesi fino all’estate scorsa meno di 500 mila.
Si è parlato e si parla anche, però, di soldi europei per la sanità italiana, bonus e premi per voi che avete rischiato in prima linea. Quanto c’avete guadagnato che lei sappia?
Certo, se chiedi a un sistema fatto di professionisti, di dare il massimo poiché non ci sono alternative, bisognerà anche che ti attrezzi per remunerarli. Dopo la prima ondata abbiamo ricevuto un bonus di 930 euro lordi che portava il nome del presidente della Regione, uguale per tutti, per noi in terapia intensiva e per gli amministrativi in smart working da casa. Siamo dovuti ricorrere ai sindacati per vederci riconosciute almeno una parte di ore pagate in straordinario, altrimenti non arrivavano neanche quelli… ma vabbè, noi almeno lo stipendio abbiamo continuato a prenderlo.
Cosa si sarebbe potuto far meglio? Cosa vi aspettate per l’immediato futuro?
Abbiamo continuato ciecamente a ricoverare e assistere persone con la consapevolezza che non ce l’avrebbero fatta, era forse nostro dovere farlo. Nella terza ondata continuavano ad arrivare persone anziane: perché nessuno le aveva informate, perché nessuno le aveva protette? Il messaggio politico è stato incomprensibile, ognuno si è inventato la sua favola, ognuno ha cercato la sua bolla in cui nascondersi, sarebbero state preziose la serietà, la chiarezza attraverso i media, verso le diverse fasce di popolazione. La responsabilità individuale avrebbe dovuto investire prima di tutto chi si è assunto il compito di indirizzare le scelte… La magistratura indaga sul piano pandemico non aggiornato, le mancate chiusure delle fabbriche in Lombardia, gli scandali in Calabria e Sicilia e mille altre sfaccettature di questa tragedia, ma il processo ai comportamenti della politica e della società non inizierà mai. Meno male che degli scienziati veri, quelli dell’INAF (Istituto Nazionale di Astro Fisica), ci stanno dando una prospettiva: una minima quantità di raggi ultravioletti per un periodo di esposizione molto breve, uccidono il Covid-19! Speriamo quindi in una bella estate assolata. (carolina caruperti)
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