dal n. 7 de Lo stato delle città
Un bus parte da Napoli e viaggia tra l’Appennino e il mare, Matera è il capolinea. Oltre l’Irpinia attraversa la campagna foggiana, tocca Cerignola circondata da ulivi in piano e ombre di cemento, poi l’area industriale di Barletta in un cielo incenerito, le sterpaglie e i cavalcavia di Trani, Molfetta dove gli edifici cancellano le tracce di campagna e Altamura dove sfilano dal finestrino pini marittimi mal cresciuti e storpi. Il bus ferma in un quartiere settentrionale tra benzinai e caseggiati moderni. Sono arrivato a Matera dalla Puglia, come se la città s’aprisse a oriente e desse le spalle alla Basilicata interna. Se leggo la rete ferroviaria, ritrovo il medesimo orientamento: esiste il collegamento per Bari, ma non ancora quello per Potenza – i treni fermano allo scalo di Ferrandina. Tra Matera e i paesi interni compagnie di bus assicurano una corsa all’alba e una al tramonto. Così ogni insediamento è lontano dall’altro, lontano dal capoluogo. Ho scritto queste note di viaggio, e memorie, in due settimane di osservazioni e dialoghi in un arcipelago lucano terrestre.
A MATERA
Qui tra i Sassi di Matera sento – è la mia prima percezione – un silenzio tra i tetti, i muri e le rocce, un’assenza immobile tra visitatori in libera uscita. Si distacca dal silenzio, e lo sorvola, un brusio dove distinguo tonalità di tedesco, dialetto lombardo, francese e veneto. Il rimbombo d’una voce amplificata è sospeso nel vuoto. Una guida alza sopra il capo un batuffolo rosso con nastri blu e dietro l’insegna vengono turisti in fila. L’atmosfera è surreale, ma la sensazione s’annulla quando incontro un orologio disciolto di Dalì posto ai piedi del Sasso Barisano. L’installazione promuove un’esposizione di opere dell’artista catalano, curata da un circolo culturale finanziato dalla Total, compagnia petrolifera. In un ristorante mi hanno detto che sono solo, dunque non c’è posto per me. Anche il gelataio va di fretta: «Allora, cosa vuoi?». Davanti a un Typical Bistrot ascolto la voce di un navigatore artificiale. Ora il ragazzo dell’ostello mi dice che il turismo è in crescita: l’esplosione è avvenuta quando Matera è stata capitale europea della cultura nel 2019, da allora i flussi non sono diminuiti. Sono qui per interpretare i segni di Matera 2019 due anni dopo, ma questo non lo dico mentre prendo il letto in alto nel dormitorio.
Una mattina di discussione al tavolino d’un bar con artisti e operatori culturali. «Nel 2019 c’erano almeno ottanta creativi che venivano da tutta Europa, finalmente potevo confrontarmi con altri, c’era fermento». «Ora nel turismo sono impiegati in settemila e in una città di sessantamila!». Matera produceva divani, ma il mercato crollò a inizio secolo, senza riprendersi più: il turismo è la nuova, unica industria. «Dieci anni fa la città era vuota, via delle Beccherie aveva un solo locale aperto, ora c’è il mio negozio di manufatti artigianali, c’è il birrificio…». «I Sassi erano vuoti da decenni. Non c’era un tessuto come a Venezia, poi andato distrutto».
La “legge speciale dello sfollamento dei Sassi” risale al 1952, quando il governo impose lo sradicamento della popolazione per ragioni igieniche e di razionalità urbanistica. «Così non si può parlare di gentrification, qui. Nessuno è stato cacciato». Il fenomeno di espulsione precede di sei decenni lo sviluppo turistico e questo vuoto temporale sembra attutire un processo che altrove appare violento. Vedete, dico loro, io vengo da fuori, non so nulla, ma gli abitanti che erano qui e sono stati sradicati… Mi fermano: «Ma erano contenti di andarsene! Finalmente l’acqua in casa, l’igiene…». «Basta con il racconto della Lucania povera, Levi non serve più a nulla». Sto leggendo Scotellaro. «Anche Scotellaro, non dice nulla alla Basilicata di oggi! E le lotte dei contadini, le occupazioni di terre, non hanno più senso. Chi si mette a coltivare? Perché i materani dovrebbero coltivare se hanno il terziario?». Pasolini, la cancellazione di una cultura, provo a dire con tono che suona ottuso. «A Matera hanno girato James Bond: azione, proiettili! Finalmente non abbiamo più Cristi e spine». «Quando finirà il boom turistico troveremo le case ristrutturate». Le periferie sono state coinvolte da Matera 2019? «La cultura è reazionaria: è propaganda, difesa dell’esistente. E io faccio propaganda. Il discrimine sta tra arte bella e brutta, io cerco il bello pur essendo parte della produzione capitalista. E tu hai altre proposte? Che possiamo fare? Dove sono le soluzioni alternative? Dove un contropotere?». Ascolto con rispetto le voci degli integrati: mi turbano, ma almeno sfuggono l’ipocrisia.
Dall’alto di Santa Maria di Idris vedo operai disfare un muro su una terrazza, preparano una ristrutturazione futura. Più giù un cantore di strada con la barba bianca suona Battisti mentre intorno turisti scendono dal bus, s’affacciano al parapetto per le foto, guardano le mappe e si baciano. Quando comincia a piovere il cantore si ritira nella chiesa di San Pietro Caveoso, una guida sventola il simbolo di Trip Advisor. Nel Sasso Barisano siedo nella quiete di un vicinato deserto di vita, ecco arrivano trenta turisti polacchi intenti ad ascoltare la guida e scattare foto. È un sabato di settembre e ci sono coppie che celebrano il matrimonio sullo sfondo dei Sassi. Uno sposo ha un panciotto e un mazzolino di fiori all’occhiello, scende le scale impacciato, vicino parenti e amici brindano in abiti lunghi e giacche sopra camicie candide. Lascio infine lo spettacolo e attraverso la città nuova, fino al piazzale dei bus: qui si raccolgono ragazzi che da scuola tornano ai paesi. Mi sembra impossibile che la città degli studenti possa incontrare la città dei turisti. Penso anche che questo piazzale è come un cuore che ogni giorno succhia e pompa via il sangue di Lucania.
Insieme allo svuotamento dei Sassi nacque una commissione di studio per la costruzione di nuovi quartieri residenziali a Matera. La commissione era presieduta da Adriano Olivetti e accoglieva urbanisti, sociologi, antropologi. Gli esuli dei Sassi si trasferirono in abitati moderni come il rione Lanera, Spine Bianche, La Martella. A Lanera il cielo pomeridiano è coperto di nuvole. Vedo palazzine di tre, cinque piani, hanno mattonelle ocra e mi ricordano Bellavista a Ivrea. Ci sono un bar, uno spaccio di alimenti, una scuola elementare, giardini con pini tra una palazzina e l’altra, un melograno ha i suoi frutti. Qui nessun turista giunge. Al limitare del quartiere un parapetto s’affaccia a un mare di colline. A Spine Bianche è sera, una chiesa è circondata da basse palazzine, una piazza s’apre davanti al tempio. La chiesa è frequentata: alcuni pregano, altri discutono sul sagrato. Gli edifici hanno due piani e sono disposti a ferro di cavallo per stimolare la vita sociale all’aperto. Fuori dal bar gli uomini parlano di politica, tra spazi ariosi vedo una pizzeria al taglio, un parrucchiere. Sento tintinnare posate su tavoli di sale da pranzo, la cena è quasi pronta. Una voce dalla finestra: «Eh! Mo’ sì!». In piazza ragazzini giocano a calcio; non è una vera partita ma una confusa sfida a chi realizza più tunnel. «Me lo vuoi lasciare a Charlie?». Due donne su una panchina, una madre anziana e una figlia. La figlia spiega gli errori del cattolicesimo. «Voi, voi…», dice con veemenza.
È una mattina pallida e per raggiungere La Martella devo prendere un bus. Salgo prima della partenza e inserisco il biglietto nella obliteratrice, che mormora. Alla partenza del mezzo s’impone un controllore dal passo pesante, il petto ansimante. «Biglietti, biglietti». Porgo il mio. «Questo non è obliterato, lei va in multa. Documenti! Lei va in multa!». Non consegno il documento, resisto per principio. (Forse ho inserito il biglietto dalla parte sbagliata?). Il controllore ordina all’autista di fermare il bus e chiama le forze dell’ordine. Abbandono il puntiglio e consegno la patente: ripartiamo. «Ah, lei fa ricerca, è di Torino, perché va a La Martella?», chiede il controllore tra sbuffi ansimanti. «A La Martella vive mia zia, la zia Maria, lei stava nei Sassi», dice. Michele, controllore solerte, si gratta la testa, mi guarda: «Scendiamo insieme alla fermata di La Martella». In strada Michele mi dà del tu: «Sai, il lavoro, io non posso… Adesso andiamo dalla zia, così tu la intervisti». Le case sono basse a La Martella e ci fermiamo davanti a una porta. Michele urla verso la finestra: «Zia, o zia!». Entriamo in un soggiorno con il televisore acceso, nella credenza ci sono brocche e foto di parenti. La zia Maria è un po’ sorda e parla un dialetto che tende all’italiano, l’intervista mescola le voci della donna e del nipote. «Scrivi, scrivi. Lui deve fare l’università, deve fare la tesi di laurea. È un ingegnere!». Signora, lei è nata a Matera? «Sì, nata giù ai Sassi». Ha lasciato casa sua a dodici anni. Interviene Michele: «Servizi igienici non ce n’erano, ma c’era il quandro, si chiamava il “quandro”, era un vaso di terracotta. Chi si alzava prima la mattina, trovava la pezza pulita. Capito? Su undici figli, i primi avevano la pezza pulita. Poi si aspettava il giorno dove venivano a recuperare il vaso, oppure si andava a buttare nello Jurio. Scrivi, scrivi. Mia zia è una delle prime che ha abitato qua, a La Martella. Poi che vuoi sapere più? Anche io sono nato nei Sassi, in via Casalnuovo numero 32, che oggi fanno un bel b&b». Zia Maria: «Sono sessant’anni che siamo qui, o qualche anno di più». «Hanno avuto, oltre alla casa, il mulo e tutti gli attrezzi per la campagna, giusto zia?». «E nove tomoli di terreno. Era montagna! Era pascolo! Ci siamo lavorato tanto». «Ora la vedi vecchia, ma mia zia era forte! Si cucinava, si faceva il pane. Quanto pane facevate a casa di nonna?». «Otto pezzi di pane. Certe volte due volte alla settimana. Otto pezzi di pane da tre chili e mezzo». «Cinque, sei chili di pasta al giorno. E ti dico pure un’altra cosa. Le forchette. Quando mio zio andò a mangiare a casa dei miei nonni, si mangiava nei piatti grandi, non c’era il piatto per ciascuno. Allora le forchette erano allargate, fatte a mano, così quando calavi la forchetta, invece di prendere un maccherone, ne prendevi cinque. Perché là era una guerra, hai capito il discorso?».
Quando sono arrivati qua c’erano servizi di collegamento con la città? «C’era la Sita, una volta la mattina, una volta il pomeriggio alle quattro. Poi negli anni Ottanta La Martella è stata inserita nel trasporto pubblico locale, un’ora al giorno. Qui c’erano i carabinieri, c’era il dottore, giusto zia? C’era la scuola di avviamento pure, c’era l’asilo. Era una città in miniatura, è stata una cosa bellissima». E adesso? «Adesso le scuole ci sono, ma non ci sono né carabinieri, né presidio ospedaliero. Perché sai, siamo in spending review». Finalmente la zia Maria: «Abbiamo sudato!». Quella vita collettiva dei Sassi si è mantenuta? «Si è cercato, però poi il progresso: ognuno a casa sua». La zia: «Si lasciava la porta aperta e ci aiutavamo l’uno con l’altro. Mai a essere rubato, mai! Abbiamo visto la fame, la guerra, tante di quelle cose…». «Zia, ti viene in mente quando andavi a prendere l’acqua». «Con i secchi! Si riempiva e si andava in campagna». Dov’è finita questa cultura contadina? Michele: «È il progresso!». «Ma se tu assaggiavi il nostro pane, la nostra pasta! Ora è tutto senza gusto», sospira zia Maria.
Non riesco a vedere tracce di Matera 2019 nei luoghi esplorati. Esistono immagini e resoconti emanati dal sito ufficiale, ma tra gli abitanti dei quartieri popolari non ritrovo una memoria dell’evento. Forse artisti e innovatori culturali sono giunti, hanno organizzato eventi estemporanei e sono andati via? Avrei dovuto essere presente qui due anni fa, adesso mi sembra di scrutare uno spazio bianco senza tracce. Inizio a vedere piccole punture sulla pelle accompagnate da un sottile prurito. Sono ponfi rossi, si presentano in fila sulle braccia, le gambe, il collo. Sono i miei segni di Matera: l’ostello è infestato da cimici del letto. È l’unico ostello della città, diciotto euro per un letto in una camerata nei Sassi. Divertito, immagino un futuro di grotte gremite di inglesi e tedeschi, ammassati in condizioni igieniche miserabili: la “vergogna d’Italia” all’epoca del consumismo turistico. In verità, le contraddizioni sono ancora più complesse. Qui alberghi e residence di lusso propongono stanze per trecento euro a notte nelle grotte un tempo abitate dai contadini materani.
Pio è un architetto impegnato nei movimenti ambientalisti, mi ospita nella sede di Legambiente. Discutiamo subito di Matera e del suo recente successo: «Non devi confondere un incremento di movimento di denaro con lo sviluppo. Che girino più soldi, che sia aumentato l’apparire rispetto all’essere, non è sviluppo. È crescita. Crescita economica e nient’altro. Matera, fino a dieci anni fa, aveva una serie di artisti: quindici pittori, sei o sette artigiani che lavoravano l’argilla, facevano le cupe di terracotta. Adesso non c’è nessuno. Nei Sassi, quarant’anni fa, c’erano i circoli musicali dove si fumava, si beveva, si suonava metal, rock, dub. E tu giravi per i Sassi e li sentivi. Adesso l’unica cosa che senti, e che apprezzo, è la musica del Conservatorio. Nei posti dove c’erano gli artigiani, dove c’erano i club musicali, ci sono i bed and breakfast».
Pio abita nei Sassi e prova a modulare un’altra storia dello sgombero: «L’indagine sulla miseria commissionata dal parlamento inizia nel 1948 e finisce all’inizio del ’51. In questa commissione ci sono parlamentari di tutti i partiti, anche del Pci dell’epoca. Cazzo, nei Sassi allora c’era sovrappopolazione, c’erano sedicimila abitanti. Il luogo era fatto per accogliere otto-diecimila abitanti. Chi erano questi abitanti in più? Erano quelli che durante la guerra venivano dai paesi intorno e durante i bombardamenti si rifugiavano a Matera. E nei Sassi ospitavano, affittavano, tenevano come servitori o aiutanti quelli di Miglionico, Montalbano, Tursi… Montescaglioso era stata bombardata dagli aerei e Matera no! E dove andavano? Nei Sassi. Immagina come potevano stare nei Sassi nel ’43, nel ’44. Ma la miseria stava dappertutto in Italia durante e dopo la guerra. Un urbanista importante, Alberto Magnaghi, venne a Matera negli anni Novanta e disse: “Ma quale miseria?”. Le case sono decorate: hanno fiori, maschere, segni. Questo è segno di benestare. Non erano ricchi, ma stavano bene nel luogo. I miserabili sono miserabili: non gli passa manco per la testa di fare un fiore! La decorazione è un modo di indicare la propria casa, non di nasconderla».
Un vecchio abitante dei Sassi mi ha detto che Matera è passata dalla vergogna degli anni Cinquanta all’orgoglio della capitale culturale. «Mentre lo dice, non sa di esprimere una contraddizione. Perché la vergogna che era ieri, oggi è rivendicata come bellezza. Allora, era vergogna o è bellezza?», conclude Pio.
All’osteria Malatesta vedo affisso un volantino di settimane prima. È una critica al G20 di questo giugno: “In occasione del G20 noi chiudiamo. Li lasciamo soli”. Il breve testo contesta la passerella dei potenti, critica lo scenario di una città venduta per “folklore” ed “eccellenze”. M’è sembrato un barlume di resistenza. Ho parlato con Massimo, l’oste, al tavolo davanti a boccali di birra. «La capitale della cultura? È un’operazione commerciale, niente di più. Non so nemmeno se abbia funzionato – funzionato secondo i loro criteri – perché di mezzo c’è la pandemia e ogni considerazione è difficile. Per me è stato uno zero culturale: montagne di soldi presi e buttati senza lasciare traccia. La fondazione Matera capitale europea della cultura è sparita dal 2020, si può pensare che non esista. Invece ho visto un fiorire di associazioni come funghi, mentre il resto della città è stato estraneo. Non c’è stato alcun coinvolgimento. E come poteva? Il modello di sviluppo è fondato sul turismo e sugli spettacoli. Matera diventa Disneyland e tu non sei più un cittadino, ma un Topolino o un Pippo che deve far divertire la gente».
L’osteria è calda, conviviale, amici si siedono ai tavoli senza formalità, ma sulla via procede il viavai di turisti. Perché ho l’impressione che non sia esistito, e non esista, un pensiero critico forte in città? «Come arrivano i soldi, la gente si zittisce. È successo per il G20: nessuna discussione sul contenuto. L’unica discussione era se l’evento porta soldi o non porta soldi. Lo stesso è avvenuto nel 2019. Anche dei compagni la pensano così! Questa speranza di benessere è un sedativo».
Forse questi capitali, sparsi come briciole, riescono a ottundere il senso critico. «Non mi aspettavo di essere solo io a mostrare una forma di dissenso per il G20. Ed è stata un’azione da niente: siamo semplicemente rimasti chiusi. Eppure nessuno ci ha seguiti, nessuno ha agito, ha criticato. Questo vuol dire che sono slegato dalla città, che non la capisco più e forse sono un corpo estraneo». Dice il volantino: “Li lasciamo soli”; eppure chi, tra noi, è solo? «Matera è città di Resistenza, hanno cacciato i tedeschi da qui prima delle giornate di Napoli, in questa via è stato ucciso un tedesco. E poco oltre, tempo dopo, c’era una sede di Lotta Continua». Penso anche alle lotte dei contadini, alle occupazioni delle terre. Dove sono andati tutti? «Sono sbronzi, ma io stesso non ho ancora razionalizzato quel che è successo nel 2019. Subito dopo il corteo di Scanzano contro la discarica di scorie nucleari, nel 2003, abbiamo fatto qui il primo blocco. Dalle lotte ambientali alla capitale della cultura: cosa è successo?». Ragioniamo ancora sui Sassi. «Da De Gasperi a Matera 2019 ci sono sessant’anni». Forse questi decenni sono una rimozione nella coscienza della città. «I miei Sassi sono case che occupavamo e vivevamo come in paradiso, erano gli anni Novanta. Noi prendemmo una piazzetta e occupammo le case intorno. Facevamo le tavolate, stavamo assieme. Le porte erano aperte, avevamo gli allacci abusivi alla corrente. E prima di noi ci fu la stagione delle radio libere nei Sassi! Non esiste un passaggio netto dalla malaria alla capitale della cultura: i Sassi vivono il Sessantotto, gli anni Settanta e gli anni Ottanta. Oggi ci sono sacche di resistenza, le case occupate alle Malve sono state riscattate e gli abitanti di un tempo vivono lì». Il nostro tavolo lentamente accoglie amici, conoscenti, passanti e alla fine della discussione ci ritroviamo insieme uniti in una mangiata.
Mauro per primo mi ha accolto a Matera, ha dedicato tempo alla mia ricerca e mi ha suggerito di parlare con amici e conoscenti. Un mattino in piazza del Sedile mi racconta la capitale della cultura dal suo punto di vista: «Io ero assistente alla produzione nell’area di direzione. A Matera la metà degli eventi l’ha prodotta la direzione, l’altra metà è stata prodotta dai project leader. Ci fecero un contratto co.co.co e io ho chiesto un part-time. Mi sono ritrovato a lavorare il triplo delle ore scritte sul contratto. I primi mesi credevo che le avrei recuperate in seguito, poi mi sono fatto prendere dal clima di entusiasmo e abnegazione. Col senno di poi, uno si chiede: “Chi cazzo ce l’ha fatto fare?”. Era tutto a difesa del progetto, ci credevamo. Oggi non lo rifarei. All’inizio mi occupavo delle mostre. Dovevo mediare tra curatori, artisti, aziende fornitrici ed enti pubblici. Avevamo libertà di azione. I tempi erano stretti e ci avevano affidato responsabilità più grosse di noi. Avevo reflusso e lo stress era a palla. C’erano più di ottocento eventi in un anno e sono arrivati tutti in ritardo». Cerco di ragionare sulla storia dell’organizzazione. «Dal 2014 in poi, e si vede dai numeri del turismo, la città ha iniziato a correre per produrre il programma culturale, per sviluppare relazioni. La produzione operativa degli eventi è iniziata nel 2017. Con estremo ritardo per una serie di incomprensioni tra gli enti locali e la fondazione. Quest’ultima ha una partecipazione pubblica e i fondatori sono Regione, Provincia, Comune, Camera di commercio». La fondazione Matera-Basilicata 2019 ha raccolto, tra enti pubblici e privati, quasi sessanta milioni di euro per finanziare l’intero sistema di eventi. È possibile trarre un bilancio due anni dopo? «Tutti i dati su Matera 2019 provengono da Matera 2019, non abbiamo una struttura esterna indipendente che abbia fatto un’analisi. L’università della Basilicata ha utilizzato i dati in collaborazione con Matera 2019. Non dico che sono dati falsi, ma non c’è una riflessione sulla modalità di raccolta e di analisi».
Paolo Verri ha diretto la candidatura di Matera a capitale della cultura ed è stato il direttore generale della fondazione creata dopo la definitiva elezione della città. In precedenza, è stato direttore del Salone del libro a Torino, ne ha coordinato il piano strategico e ha collaborato con l’organizzazione delle Olimpiadi invernali del 2006. Nel 2011 era direttore del Comitato Italia 150. Dopo l’esperienza materana Verri è tornato a Torino, città dove vivo, ed è candidato in consiglio comunale in una lista a sostegno del Partito democratico. Nel programma elettorale di coalizione leggo: “La strategia culturale di Torino si fonda su un incremento di risorse e di investimenti pubblici, su obiettivi di rilevanza nazionale e internazionale e su una pianificazione di lungo periodo con grandi progetti come Torino capitale europea della cultura 2033, così come sulla capacità di supportare e gestire la programmazione culturale diffusa e ordinaria”.
Nel mio disorientamento materano sento un’aria di casa: le recenti politiche culturali lucane sono state importate da una classe dirigente esperta nel gestire i processi d’industria spettacolare a Torino. Ecco che per un attimo la mente ritrova un filo di senso. Eppure, se mi guardo intorno, intravedo altri percorsi in un garbuglio: la storia dei Sassi, le lotte contadine e la riforma agraria, il rapporto tra Matera e l’entroterra, la forma delle strade e delle vie ferrate, il consumo di suolo e la speculazione edilizia, la via del petrolio, le lotte conto i rifiuti tossici. La Lucania per me è un arcipelago di problemi di cui a stento intravedo i collegamenti.
A TRICARICO
La trasformazione del comitato promotore di Matera 2019 in fondazione comporta una svolta nominalistica. Nella fondazione Matera-Basilicata 2019 appare il nome della regione. Tra i progetti varati nel 2018 trovo “Matera 2019 – Capitale per un giorno”: contributi finanziari sono promessi ai centoventinove comuni lucani con l’intento di coinvolgerli nello spettacolo. Qual è stato il rapporto tra la Basilicata interna e Matera 2019? E come appare Matera vista dalle colline a occidente? Una sera di sabato prendo un bus per Tricarico. Viaggio tra il tramonto e la sera, quando i campi di grano lentamente si spengono insieme al sole. Le strade sono tortuose di notte, curve salgono a Grassano e poi discendono in svolte cieche. Privo di riferimenti, mi sembra di entrare in una lontananza tenebrosa, isolata dal mondo civile, e m’addormento. Mi risveglio tra le luci di Tricarico: uomini e donne camminano veloci tra i marciapiedi, auto rombano nel sabato sera, i ragazzi bevono al bar prima d’una pizza e gli anziani si godono il buon tempo di settembre sulle panchine in piazza.
Dalla via Appia Tricarico sembra una cittadina dal colore di sabbia contro brulle alture ocra. Si muove l’occhio dalla torre normanna alla cattedrale. Da qui s’arriva al quartiere della Saracena, un vicolo discende sul versante esposto a nord-est e raggiunge l’antica torre segno della dominazione araba. Intorno s’apre un paesaggio dolce di colline, uliveti e pascoli per vacche podoliche. Sul versante opposto s’aggrappa invece un altro quartiere arabo, la Rabatana. In un groviglio di vie si può discendere tra i giardini nel vallone – in dialetto si dice uaddone e vi risuona ancora l’arabo wadi – oppure si può costeggiare la città normanna e raggiungere la stretta strada che un tempo accoglieva il quartiere ebraico. Tricarico era città di passaggi tra lo Jonio e il Tirreno. Qui l’iconografia religiosa risente ancora della tradizione bizantina, sulle colline intorno ci sono le tracce di passaggi greci e romani. E nel museo diocesano trovo uno scudo calcareo un tempo posto sulla chiave d’un arco: presenta in rilievo la scritta “Allah” in cufico geometrico sormontata da una croce di Sant’Andrea di derivazione bizantina. La mattina penso a Tricarico e alle sue popolazioni antiche mentre taglio polloni in un uliveto in fondo a Malcanale, vicino alla foresta di Mantenera. Il terreno è secco e argilloso, intorno agli ulivi crescono rovi, ginestre e lentischi; le roverelle, il caco e il pero convivono. Se a Matera ero alieno e straniero, qui mi sento cittadino di Tricarico.
Dalla piazza nasce una via dedicata a Rocco Scotellaro, poeta e sindaco di Tricarico. A sinistra trovo lo studio fotografico di due fratelli, Paolo e Giuseppe. Quando entro dispongono sul giradischi un vinile di canti popolari registrati nei dintorni. Intorno vedo la riproduzione d’una veduta di Tricarico stampata nel Seicento, fototessere con il volto del presidente della repubblica, dischi impilati in un disordine creativo. I fratelli hanno partecipato a Matera 2019: «Per molti di qui è stato un disastro», inizia Paolo. «Si è chiamata Matera-Basilicata 2019 – faccio io –, ma di Basilicata è stato detto pochissimo, gli eventi avrebbero dovuto essere più distribuiti sul territorio. Sei d’accordo con questa lettura?». «Non del tutto. Noi dal 2018 siamo riusciti a portare qui la fondazione per ben quattro volte». Nel 2018 hanno organizzato i festeggiamenti per il compleanno di Scotellaro, il 19 aprile. Secondo Giuseppe è mancato lo spirito di iniziativa: «Il territorio doveva fare le proposte». Dopo questa prima esperienza, Paolo e Giuseppe hanno iniziato a lavorare per conto di Matera 2019: «Eravamo iscritti nell’albo dei fornitori, ci hanno chiamato un giorno per fare delle riprese e abbiamo lavorato per i progetti comunitari. Dove c’era un progetto con un forte coinvolgimento dei cittadini, noi andavamo e seguivamo tutti i lavori facendo le riprese». Paolo: «Siamo stati impegnati tutto l’anno. In fondo, i cittadini attivi erano sempre gli stessi, giravano in tutti i progetti». Mi chiedo se le ragioni del mancato coinvolgimento derivino dalla pigrizia dei cittadini o dal modello produttivo. Giuseppe: «Un centinaio di persone coinvolte. Sempre loro in progetti diversi».
Le riprese sono testimonianze per gli anni a venire. Spesso i partecipanti di Matera 2019 mi parlano di “legacy”, ovvero del lascito concreto offerto dal grande evento. Chiedo cosa sia rimasto, infine. Paolo: «Considera che l’unico gruppo che funziona dopo Matera 2019 sono i volontari. Si sono costituiti come associazione volontari 2019 e fanno assistenza, ancora adesso, agli eventi culturali su Matera». Penso a giovani entusiasti e orgogliosi che hanno lavorato gratuitamente per realizzare gli eventi. Mi chiedo quanto il loro contributo appassionato abbia influito nella riduzione del costo della forza lavoro. «Hanno tutte le maglie ancora da utilizzare», sorride Giuseppe.
Assieme a Paolo sono nella penombra dello studio. «Io e mio fratello abbiamo competenze diverse. Io sono informatico e mi occupo del web, sperimento con la programmazione. Giuseppe invece ha un percorso di studi artistici. Insieme ci siamo occupati di “virtual tour” e “giga pixel”. I virtual tour sono le immagini a 360 gradi, il giga pixel invece è una tecnica legata alla digitalizzazione delle opere d’arte: ti consente di scattare fotografie a mosaico su un affresco e di realizzare un’immagine ad altissima definizione dell’opera, così da utilizzarla sia per studio, sia per fare installazioni museali o interattive».
Hanno iniziato cinque anni fa e grazie al sostegno della diocesi hanno realizzato visite virtuali presso le chiese di Aliano, Grassano, Accettura, Albano di Lucania e altre. Ancora, hanno tradotto in giga pixel le opere di Pietro Antonio Ferro, manierista del Seicento che ha affrescato la chiesa della Madonna del Carmine e la cappella di Santa Chiara a Tricarico. «Abbiamo fotografato dipinti come La visione di Ezechiele e Il Martirio di Sant’Erasmo. Questa è la chiesa del Carmine, fuori Tricarico». Con il cursore esploriamo il tempio. «Ferro era un manierista, quindi trovi richiami ad altri artisti rinascimentali e fiamminghi. Guarda qui: questo è San Giuseppe ed è simile nella dimensione a La scuola di Atene di Raffaello. Guarda questa Madonna: di nuovo Raffaello. Questo è Il sogno di San Giuseppe e la fuga in Egitto, settecento scatti su questo affresco». La Madonna e il bambino su un asinello circondati da uno sfondo che ricorda le forme d’Appennino. Noto stupito la resa digitale della volta. Paolo mi racconta degli espedienti tecnici per evitare le deformazioni, ma mi smarrisco. Osservo la tela della Madonna del Carmine posta dietro l’altare. Ingrandisco i dettagli e l’immagine resta limpida. Ora spalanco gli occhi stupito: un sottilissimo tratto di pennello accenna la scia luminosa intorno al capo del bambino. Ecco l’aura in immagine riprodotta.
Pancrazio ha occhi di diamante che ardono come tizzoni, capelli scarmigliati su una fronte spaziosa. Ho trascorso un intero pomeriggio insieme a lui, maestro elementare in pensione e sindaco di Tricarico negli anni Ottanta. Ragiona di un «pensiero divergente» anelato, antidoto a una generale «clonazione che ha superato l’omologazione». «E tu studi il paesaggio?», mi guarda dritto Pancrazio. «Il paesaggio – afferma – sono i segni: un deposito di segni. Dentro questa logica tu capisci le interrelazioni: che il paesaggio è una continuità in orizzontale e in verticale nella stratificazione. Io con i ragazzini ho praticato la scuola fuori dalla scuola. Tutto quello che si può apprendere è fuori… La scuola non dev’essere una baggianata di compiti, ma un luogo dove l’allievo impara ad affrontare la complessità. Se tu sei capace di osservare, se hai imparato a leggere i segni, poi è più difficile fregarti. Insegnavo alle elementari e abbiamo fatto per quindici anni la scuola viaggiante, facevamo scambi con realtà accomunate dalla stessa popolazione, tra sette e ottomila abitanti. Abbiamo cominciato nel 1978, abbiamo fatto anche uno scambio con Cortina d’Ampezzo, siamo andati lì con i sacchi a pelo…».
A casa di Pancrazio vedo gli opuscoli realizzati dai bambini: diari di viaggio ricchi di disegni, piccole enciclopedie decorate in cui si racconta, a coetanei lontani, di Tricarico. Un fascicolo mostra gli orti di Tricarico. «Si chiamano gli orti del Milo – commenta Pancrazio –. In quel luogo si materializza il lavoro dell’uomo. La conca è tutta drenata con canalizzazioni sotterranee che mungono il territorio». Esistono antichi sistemi di canali, anche sotterranei, cisterne e muri a secco che convogliano e trattengono l’acqua per irrigare giardini terrazzati, frutteti. «Dove ci sono gli orti è il punto di contatto tra la calcarenite e il blocco d’argilla su cui poggia tutto». Accanto allo uaddone sono stati scavati ulteriori canali e vasche che dirigono l’acqua sorgiva. Sono chiamati anche “orti saraceni”; forse perché risalgono alla presenza araba? «Non ci sono dubbi. Il sistema di canalizzazione favorisce il drenaggio, un sistema coperto. La tecnica costruttiva è simile a quella utilizzata nei deserti». Per un attimo ricordo i resti nabatei nel Negev, i canali di Battir e i giardini di ulivi nel deserto coltivati dai beduini del Sinai. Qui, per secoli, i contadini hanno manutenuto, curato e innovato un paesaggio d’origine araba dove orti e frutteti sono sospesi su alti terrazzamenti. I segni profondi che Pancrazio mi indica sono così diversi dagli eventi effimeri dell’industria culturale. Interrompo il suo divagare e gli chiedo di Matera 2019. «Quell’anno c’erano firme patinate – dice –: gli fosse mai venuta l’idea di andare a vedere il resto della regione. È stata una roba fine a sé stessa. Quest’idea di cultura produce il deserto, la desertificazione».
La sera Paola mi porta a Calle dove le colline sono più dolci e l’orizzonte ha il colore del grano. Sono le terre della riforma agraria e Paola mi mostra i casolari costruiti dall’ente statale. Mi racconta di chi, come suo padre, creò un’azienda grazie al territorio ottenuto e di altri, invece, che decisero di lasciare tutto e partire per le fabbriche a nord. Michele, un nipote, ha recuperato un casale abbandonato e ci accoglie nella sua azienda. Una macchina pulisce la veccia, il cielo si fa scuro ed emerge la luna, nella penombra una fila di sangue vivo contro i campi di terra grassa. «Se guardo questi animali – mi dice Michele – sto bene, quasi mi commuovo, hai visto che belli?». Ha studiato agraria a Napoli, viveva in vico Paradisiello, ora da lontano segue i corsi di specialistica: «Ma lavoro fino alle otto di sera, se apro un libro mi addormento». Torna suo fratello in groppa al cavallo insieme alle capre, alle pecore in fila. «Matera 2019 non ha favorito allevatori e agricoltori, no. Ora c’è il turismo, ma quanto dura? Non ha un orizzonte. Io tengo una mucca per vedere come va, ma in futuro ne vorrei tenere di più e avviare un caseificio». Per Michele la cultura di Matera 2019 è un fenomeno effimero e nemmeno ci bada. Mi descrive la rotazione dei campi: foraggio, grano, erba per pecore e capre, secondo lui «tutto gira in un sistema». Dietro di noi un uliveto perde i riflessi d’argento del giorno. Michele è sereno, è serena la sera.
Il sole scorre lento sulla valle del Basento. Dalla foresta in alto di conifere e roverelle si discende in collina tra vegetazione mediterranea e ancora più giù fino all’antico letto del fiume. Sono in una savana d’arbusti, poco oltre si scaldano le pietre dilavate dell’alveo. S’aggira un vitello podolico smagrito. Il paesaggio è tagliato dalla Basentana, strada rovente che si regge sui piloni. Raggiungo la casa dell’allevatore di vacche. «Con questo caldo – dice – gli animali sono sotto il cavalcavia, o in Basento a bagno nell’acqua. Siamo arrivati a quarantotto gradi qui fuori, ad agosto». Siamo in una cucina disadorna che sente di formaggio, sul tavolo ci sono cassette di peperoni appena raccolti. Una tenda contro le mosche ci separa dal cortile, presso lo stipite un padre Pio prega. La moglie poggia sul tavolo un caffè bollente, mozzarelle di giornata. «Mai visto un caldo così. Tra dieci, vent’anni? Se continua così sarà un deserto». Figuro il deserto lucano che s’affaccia davanti a noi, una vacca emerge dall’ombra del pilone che regge uno svincolo d’asfalto. Mi auguro che lo sguardo arabo, attento, sappia ancora trovare le vie dell’acqua. (francesco migliaccio)