Avevo finito da poco il dottorato. Quattro anni e più a pensare a un fiume dall’altra parte del mondo e a tutto quello che gli ruotava attorno. Ero spaesata, a caccia di maestri. In questa ricerca disordinata, all’inizio di febbraio 2016 mi ritrovai a cercare il numero di Ermanno Olmi e, una volta trovato, a chiedergli di poterlo incontrare. Mi diede appuntamento il 5 marzo a casa sua, «a una giusta distanza dalla frenesia di Asiago», alle tre. Per i dettagli avrei dovuto chiedere a Giacomo, il suo aiuto regista.
Il giorno dell’appuntamento nevicava molto. Giacomo mi aveva spiegato che avrei dovuto cercare un tassista al Caffè Adler, in centro ad Asiago, lui poi mi avrebbe portato a destinazione. Così è stato, ma il taxi arrancava nella neve, non si vedeva nulla, e a qualche centinaia di metri dalla meta mi lasciò proseguire a piedi. Arrivai in anticipo, inzuppata e infreddolita, ma non osai suonare. Alle tre in punto si aprì la porta e uscì Loredana, la moglie di Ermanno, bellissima e preoccupata che potessi aver preso freddo. Mi fece entrare di corsa, mi disse di togliere gli scarponi bagnati e di salire al piano di sopra.
Appena mi vide arrivare, Ermanno mi sorrise con occhi luminosi: «Pensavamo che non saresti più venuta con la neve! Siediti, Loredana ha appena sfornato i biscotti». Mi chiese subito per quale giornale avrei pubblicato l’intervista e rimase un po’ stupito quando gli dissi che non lo sapevo, non sapevo nemmeno se l’avrei mai pubblicata. Allora volle sapere cos’avessi fatto negli ultimi tempi e perché fossi lì. Appena gli raccontai del fiume, reagì: «Dovendo scegliere un’immagine emblematica, il fiume è proprio una di quelle. Nasce come uno sgocciolio tra quattro sassi e poi, cammina cammina, arriva a formare un abbraccio tra le acque, portando con sé tutto ciò che incontra lungo il percorso, perché tutto ciò che incontra è destinato al mare».
Nacque un dialogo spontaneo, mentre fuori continuava a cadere la neve Ermanno mi offriva biscotti senza curarsi della mia timidezza o del fatto che non avessi studiato né praticassi il cinema. Lo osservavo, era un uomo ancora bello nei suoi ottantaquattro anni, la pelle liscia, le dita artritiche che si muovevano in continuazione come se stesse pizzicando le corde di uno strumento. Finalmente gli chiesi da dove fosse nata la voglia di raccontare storie: «È nata da mia nonna, perché questa contadina che non era mai andata a scuola aveva una capacità evocativa che ti affascinava e non sai quante storie mi ha raccontato… Poi, diventato più grandicello, mi rendevo conto che non raccontava mai la stessa storia allo stesso modo. La raccontava sempre in ragione di come lei si modificava. Viveva in una cascina, tu hai presente la cascina lombarda com’è fatta? Ci abitavano più famiglie, sotto c’erano le cucine e sopra le camere da letto. Questa mia nonna la sera, prima del rosario, raccontava storie in cucina. C’erano anche tutte le zie e qualche volta la storia era commovente. E vedevi tutte queste zie che piangevano e piangevano! Quindi pensa che potenza evocativa: come i veri aedi. Era un gran bel modo di stare insieme, raccontandoci storie. Non contava più il “ma è vero o non è vero?”, contava solo il “ma è bello o non è bello?”. Se era bello, era vero».
Continuammo a parlare e mi spiegò, attraverso altri aneddoti dell’infanzia, perché avesse scelto di raccontare proprio attraverso immagini in movimento: «Avrò avuto quattro o cinque anni e la sera, quando all’oratorio rionale della Bovisa c’erano degli spettacoli, oppure quando mio fratello maggiore faceva la recita o c’erano altre cose come i film o le comiche, tutta la famiglia andava. Non potevano lasciarmi a casa da solo, mi portavano e io regolarmente mi addormentavo. Ma prima di addormentarmi ricordo come uno dei momenti più luminosi della mia vita l’attimo in cui la luce si spegneva e si apriva il sipario. Una magia, un bagliore di felicità! Bene, quel bagliore mi è rimasto sempre dentro, anche come risposta da dare se mi domandano: “Cos’è la felicità per te?”. E io posso sempre dire: “È un sipario che si apre sulle meraviglie misteriose di tutte le felicità”. Diciamo pure: teatro è uno spettacolo che ogni volta si ripete ma si rinnova; l’aedo si ripete, ma si rinnova; il cinema invece sconfigge questa continua creatività perché fissa delle immagini in modo che si ripetano sempre esattamente nello stesso modo. Nel cinema tu hai una realtà in movimento e tutto può diventare una sollecitazione per il poeta, che tra tutte le immagini possibili ne sceglie proprio una, e poi un’altra e così via. Ecco, quello è la sublimazione del tutto… Quando ho cominciato a fare del cinema? Potrei dirti anche quando non andavo ancora a scuola. Ero talmente infatuato di teatro, di cinema, che quando a volte, dopo cena, c’erano in visita dei vicini con i bambini, io prendevo una scatola delle scarpe, facevo un quadruccio e poi tagliavo le strisce di fumetti e dietro mettevo una candela. Solo che non avevo fatto conto che con la trasparenza della candela vedevo due immagini sovrapposte. Quindi nasceva un’altra immagine ancora. Questo per dire come ci siano accadimenti, per quel bagliore di felicità che dicevamo, che mettono in moto un cammino per un determinato percorso e quello poi segna tutta la tua vita».
Mi disse che era un po’ quello che accade con la vocazione religiosa e mi raccontò di un giovane valtellinese conosciuto mentre girava Rupi del vino che decise di lasciare tutto e partire per un convento francescano. Lo descrisse come un giovane sereno, che rinunciava a una vita di successi per seguire la vocazione: «Però per avere probabilità di vivere un bagliore così, bisogna prima aver dentro una carica di elettricità, senza la quale sarebbe come accendere uno zolfanello. E invece solo se tu hai dentro questa elettricità d’amore, allora il bagliore diventa un big bang».
Continuando a parlare del documentario girato nel 2009 tra le vigne della Valtellina, gli chiesi se non avesse mai avuto l’impressione che la cinepresa potesse creare una distanza tra lui e le persone che riprendeva: «Ecco in quel documentario, che per altro amo molto, c’è un tipo che potrebbe sembrare un matto, ma siccome matto non è, lo dobbiamo mettere nella categoria dei poeti. Quante volte i poeti vengono chiamati matti! Bene, in questo documentario, c’è questo “matto” che ha il papà morente. E naturalmente noi non abbiamo mostrato il papà morente, abbiamo mostrato il letto dove il papà è morto. Questo suo figlio aveva condiviso con lui la vita della vigna e quando è morto gli ha portato in camera da letto un tralcio con l’uva. Ecco, allora un fatto così lui me lo raccontò prima di girare. E io gli dissi: “Guarda, adesso lo rifacciamo uguale”. E allora, com’è successo con i contadini de L’albero degli zoccoli, che non avevano alcuna difficoltà a fare i contadini – erano contadini! –, anche questo giovanotto ha fatto esattamente la stessa cosa. Lì io non facevo il regista, riprendevo quello che lui aveva già fatto e che poteva benissimo rifare come la prima volta. Ecco quindi, non c’è mai stata l’occasione in cui il fatto di riprendere creava una distanza, no, assolutamente no. E poi lo capisci subito se uno è curioso di correre quest’avventura o se per timidezza prova disagio. Allora la devi rispettare, non devi insistere. Ma questo è come nella vita, non è che il cinema abbia regole speciali».
A un certo punto disse: «Io non sono mai stato di quelli che scrivono la prima pagina e decidono già che poi alla fine finiscono in un certo modo. Ogni volta che prendo in mano la macchina da presa o la macchina per scrivere, non lo faccio per fare un’opera d’arte, ma per riconoscere sempre me stesso attraverso il giudizio che do a ciò che ho fatto. Perché l’opera d’arte, l’unica opera d’arte che voglio… – s’interruppe pensoso – Ho fatto un pensiero parallelo che poi ti dico. Dicevo: l’unica opera d’arte è la mia vita. Dentro questa mia vita c’è tutto. Se sarò capace di fare della mia vita un’opera d’arte, allora sarà valsa la pena di essere venuto al mondo, altrimenti no. Il pensiero parallelo era: “Come capirò che ho fatto della mia vita un’opera d’arte?”. Non lo so, non ho fretta di ricevere una risposta adesso, perché so che lo capirò in quell’ultimo istante che sublima un’intera esistenza».
Dal pensiero sulla fine passammo a parlare di giovani e della difficoltà di trovare maestri per districarsi nel mondo: «Sì, è difficile. Oggi più di prima. Però c’è un aforisma che dice: “Questa non è la fine del mondo. È solo la fine del nostro mondo”. Allora ci saranno altri giovani a cui io auguro di avere “fame e sete di giustizia”. Le Beatitudini sono importanti da conoscere. Fame e sete di giustizia, ecco».
Prima di tornare sotto la neve gli feci un’ultima domanda e gli chiesi cosa avrebbe consigliato di leggere a un giovane che volesse raccontare delle storie e avesse fame e sete di giustizia. Senza esitazione mi rispose: «I Quattro libri di lettura di Tolstoj. Lui fece una scuola a Jàsnaja Poljàna per i figli dei mugik che erano contadini di proprietà dei latifondisti. Proprietà! E fece questo libro che comincia da quella che noi oggi chiameremmo scuola materna. Se guardi le prime letture, sono tutti raccontini che leggi via via, ma poi arrivi ai racconti dell’età matura e guarda, è roba che ti rivolta le viscere… Li ha scritti in una ventina d’anni questi racconti! Senza questi libri non puoi capire cosa significa il resto. Se pensi che prima di morire, l’istante prima, la figlia Alexandra gli tiene la mano e lui dice: “Mi raccomando, i Quattro libri di lettura”. Non Guerra e Pace, Anna Karenina, tutto quello per cui era diventato celebre. No. Lui dice: “Sfido tutti gli scrittori del mondo a scrivere come i bambini”. Questo libro è fondamentale. Vedi, se non vi ricongiungete al filone di quello che è stata la civiltà della civiltà, come fate a entrare in scena?». (gloria pessina)