I sociologi li chiamano cattivi lavori. Nelle strade di una delle prime città italiane per disoccupazione ed emigrazione c’è anche chi è disposto a difenderli. Sono più di cinquecento e marciano verso Palazzo San Giacomo, la sede del Comune. A sventolare le bandiere dei principali sindacati confederali sono gli operatori inbound e outbound dei call center Gepin e AlmavivA Contact di Napoli. L’inbound, nel gergo tecnico, è l’operatore che riceve le chiamate, l’addetto H24 all’assistenza dei clienti. L’outbound, invece, è quello che ci contatta per le offerte commerciali e a cui, nel novanta per cento dei casi, chiudiamo gentilmente il telefono in faccia.
Gli operatori dei call center lavorano alle dipendenze di aziende (outsourcee) specializzate nella fornitura di servizi a diverse aziende committenti, pubbliche e private (outsourcer): Vodafone, Enel, Eni, Inps, Wind, Telecom, Alitalia, Poste Italiane, Ferrovie dello Stato e tante altre. La loro attività ha come fine quello di creare utili sia per l’azienda committente che per l’azienda appaltatrice.
AlmavivA Contact è una delle dodici società del Gruppo AlmavivA e rappresenta il principale outsourcee italiano di servizi di Customer Relationship Management. Impiega circa ottomila lavoratori distribuiti tra le sedi di Milano, Palermo, Roma, Catania, Napoli e altre città italiane. La settimana scorsa l’azienda ha annunciato quattrocento esuberi nella sede di Napoli, mille e seicentosettanta in quella di Palermo e novecentoventi in quella romana.
A Napoli ci sono circa ottocentocinquanta lavoratori dipendenti, la maggioranza con un contratto part time a tempo indeterminato, e un centinaio di lavoratori a progetto assunti alcuni mesi fa. Alla notizia dei licenziamenti i rappresentanti sindacali sono andati tra i lavoratori esortandoli a interrompere la prestazione di lavoro. «Ci siamo sentiti presi in giro perché AlmavivA Contact, nel comunicare questa decisione, non ha fornito motivazioni di tipo strutturale. Il problema di AlmavivA non è legato, come si crede, alla carenza di commesse, ma solo al profitto, che dovrebbe passare dall’attuale 9% al 20% richiesto dall’azienda».
Giovanni ha trent’anni. Lavora per AlmavivA da quando ne aveva venti. È membro del fronte di opposizione interno al sindacato Cgil. Con altri compagni si è opposto all’accordo sulla produttività proposto da AlmavivA nelle ultime convocazioni nazionali, che prevedeva la possibilità per l’azienda di valutare la prestazione individuale di ogni singolo dipendente. «Loro sostengono che devono risolvere il problema del bilancio. Per risolverlo si può agire o sul costo del lavoro o sulla produttività. Noi ci siamo opposti perché non volevamo incrementare ulteriormente il controllo sui lavoratori. L’articolo 4 dello statuto dei lavoratori vieta il controllo a distanza. Poi c’è un articolo del contratto collettivo nazionale secondo cui i giudizi sul grado di soddisfazione del servizio, che vengono richiesti al cliente alla fine di ogni conversazione, devono confluire in un database e possono essere utilizzati solo per una valutazione collettiva della prestazione di lavoro. Il datore di lavoro ha quindi a disposizione solo i dati del team e mai quelli del singolo lavoratore. AlmavivA vorrebbe, invece, introdurre la possibilità di ascoltare le chiamate dei singoli operatori, sia live sia in differita, e utilizzare questi dati per una valutazione quantitativa (tempo di conversazione, tempo di non conversazione, ecc.) e qualitativa (disponibilità dell’operatore, comportamento, chiarezza espositiva, ecc.) della prestazione di lavoro».
Tra i lavoratori aleggia il sospetto che l’azienda voglia aumentare i margini di profitto liberandosi di loro e assumendo nuovi addetti beneficiando dei vantaggi fiscali previsti dagli ultimi interventi legislativi in materia di riforma del mercato del lavoro; un insieme di provvedimenti che, prevedendo sgravi contributivi per aziende che assumono con contratti a tempo indeterminato, ha generato una concorrenza sul costo del lavoro tra le imprese che hanno assunto lavoratori “prima” e “dopo” l’emanazione del Jobs Act. La condizione di vantaggio competitivo di queste ultime è stata poi ulteriormente rafforzata dallo spostamento dell’asse delle tutele dal lavoratore al datore di lavoro tramite l’eliminazione dell’articolo 18.
«Per molti di noi il call center – racconta Gigi – è iniziato come un lavoro transitorio e poi è diventato il lavoro della nostra vita senza che ce ne accorgessimo. Quando sono entrato ero molto giovane, frequentavo l’università e fui contattato a casa per un colloquio. L’azienda mi assunse per tre mesi. Era il 2006, una fase di espansione del settore. AlmavivA era un’azienda emergente. Nel 2008 fui assunto con un contratto part time a tempo determinato svolgendo la mia mansione per il servizio clienti della Vodafone. Dopo un anno decisi di passare al turno notturno. Adesso sono sette anni che faccio assistenza notturna ai clienti della Vodafone. Inizio alle 23:00 e finisco alle 7:00 del mattino. Siamo divisi in piccole squadre, ognuna delle quali svolge una mansione diversa. Il team dei lavoratori notturni è come una grande famiglia. Questo perché c’è molto waiting: il termine tecnico utilizzato per indicare le fasce temporali della notte in cui si è in cuffia ma non arrivano chiamate».
Al bar di piazza Municipio incontro Michela. Beve il caffè in attesa che il corteo riprenda la marcia in direzione di Palazzo Santa Lucia, la sede della Regione. Indossa una delle cinquecento magliette nere con la scritta arancione “Almaviva non si tocca”. «Ho cominciato facendo l’outbound per Infostrada con un Co.co.co. e riuscivo a guadagnare anche seicento euro al mese. Il lavorò durò un anno. Dopo un po’, nel 2005, cominciai a lavorare a progetto e venivo pagata in base ai contratti che facevo. Fu un periodo brutto perché passai da seicento a circa duecento euro al mese. Era frustrante perché se non riuscivi a fare contratti non guadagnavi nulla. Nel 2008 fui assunta da un’agenzia di lavoro interinale che stipulò un contratto di somministrazione di tre anni con AlmavivA Contact. Nel 2011 AlmavivA decise di assumere un numero consistente di lavoratori interinali direttamente alle sue dipendenze e, fortunatamente, rientrai anche io in queste assunzioni. Tutta la mia storia lavorativa, però, dal 2002 al 2011, è andata persa. Nel senso che se avessi lavorato per otto anni alle dipendenze della stessa società avrei potuto sicuramente ottenere scatti di anzianità e passaggi di profilo. La mia anzianità di servizio, nonostante io lavori nel settore dal 2002, è di soli cinque anni e quindi sarò tra le prime a essere cacciate dall’azienda. Con AlmavivA ho un contratto part time da quattro ore e guadagno sui settecento euro mensili. Se facciamo un po’ di straordinario riusciamo a guadagnare qualcosa in più. Da una settimana sono in ferie perché con questo clima non ce la faccio proprio a stare in cuffia, soprattutto in questo momento».
A Palazzo Santa Lucia i lavoratori della sede di Casavatore della Gepin Contact Spa attendono che il governatore della Campania riceva i delegati sindacali. Il colore giallo delle loro magliette con su scritto “Noi Gepin Contact” ricorda quello di Poste Italiane, il loro principale committente.
Gepin Contact Spa è una società del Gruppo Gepin. Il gruppo condivide con Poste Italiane, che è il principale committente della sua società Gepin Contact Spa, la società Up Time Spa, essendo quest’ultima partecipata al 30% da Poste Italiane e al 70% dal Gruppo Gepin. Il meccanismo delle “societarizzazioni” è molto semplice e costituisce l’essenza del gioco al ribasso sul costo del lavoro praticato nei processi di outsourcing: una società, per evitare di assumere lavoratori direttamente alle proprie dipendenze, ricorre alla creazione di una società ad hoc cui affidare l’appalto per la produzione di determinati beni e servizi. La durata del rapporto di lavoro dei dipendenti della società controllata sarà legata, quindi, solo ed esclusivamente alla durata della commessa e alla capacità della società di mantenere basso il costo del lavoro.
«Due anni fa – racconta Felice – il nostro amministratore delegato è stato arrestato per bancarotta fraudolenta perché aveva fatto fallire una società. Poste Italiane, che era il nostro principale committente, ha deciso così di toglierci le commesse. Allo stesso tempo, però, la nostra azienda sta prendendo accordi con il comune di Taranto per ottenere l’assegnazione di un sito e utilizzare i fondi europei per aprire un nuovo call center che dovrà gestire una commessa dell’Inps. Da noi dichiarano trecentocinquantadue esuberi e a Taranto aprono un nuovo call center. Tutto ciò, ovviamente, sempre a spese dei lavoratori e dei contribuenti, perché con le nuove assunzioni usufruiranno di incentivi e sgravi fiscali che paghiamo tutti noi. Questa vicenda comporterebbe il fallimento totale della mia famiglia perché sia io che mia moglie lavoriamo alla Gepin. Non avrei nessuna alternativa, se non quella di emigrare, perché abbiamo due bambini piccoli e il mutuo da pagare per altri vent’anni. Lavoriamo dal 2002 alla Gepin. Non era il lavoro dei nostri sogni ma abbiamo fatto in modo che ci piacesse perché alternative non ce n’erano. Ho portato avanti la famiglia per quattordici anni, fino a quando abbiamo cominciato a perdere i pezzi per strada».
Dall’agosto del 2014 al dicembre del 2015 Gepin Contact Spa ha perso tutte le commesse di Poste Italiane. Gli ultimi due lotti di una commessa sono andati a due società che si sono aggiudicate l’appalto con un ribasso di 0,29 centesimi a telefonata. La prima ha sede in un albergo della provincia di Salerno, la seconda è nelle mani di un curatore fallimentare. (giuseppe d’onofrio)