Io la camorra l’ho scoperta a dieci anni. Davanti lo schermo di una televisione che illuminava il mio piatto sulla tavola, davanti al telegiornale che quel giorno parlava di una ragazzina poco più grande di me, ammazzata a colpi di pistola. Quella ragazzina si chiamava Annalisa Durante ed è morta così, in un sabato sera di inizio primavera. Un sabato come tanti, quando hai quattordici anni e tutto è prima volta, tutto è libertà da conquistare. Un sabato di Nike troppo grandi e giubbini troppo leggeri, Maria De Filippi in televisione e le voci dei neomelodici sputate al vento da qualche macchina. Le bocche impastate di lucidalabbra e la sfilata dei ragazzi con i motorini davanti ai gruppi di ragazze. Poi gli spari. Il vicolo impazzisce. C’è una ragazza a terra. Quella ragazza è Annalisa. Stava con le amiche sotto casa. Non ha fatto in tempo a ripararsi in un portone. Il vero obiettivo di quei proiettili era Salvatore Giuliano, rampollo dell’omonimo clan. Nelle pagine del suo diario, diventate un libro dopo la sua morte, Annalisa scriveva di voler diventare parrucchiera, di voler andare via dalla sua città che a volte le faceva paura. Non ha fatto in tempo. I suoi sogni sono rimasti lì, sui basoli di pietra lavica, intrappolati tra i fili dei panni stesi.
Quest’anno, il 19 febbraio, Annalisa avrebbe compiuto trent’anni. Magari sarebbe riuscita a realizzare i suoi sogni. Tutte le signore andrebbero da lei a fare colore e messa in piega. Oppure spingerebbe un passeggino su per via Duomo. Immaginarla donna fa ancora più rabbia, guardando quella foto della ragazzina dai capelli biondi e il viso sorridente che per una settimana fece il giro dei telegiornali di mezzo mondo. E con lei sarebbe cambiato il suo quartiere, Forcella.
Sono passati sedici anni dalla morte di Annalisa. Cosa è cambiato a Forcella in questi anni?
Il faccione di Jorit dà il benvenuto a chi arriva e fa alzare i nasi dei turisti di passaggio. È la porta di ingresso al quartiere. Poco più avanti, sulla destra, c’è la biblioteca “Annalisa Durante” e lì dentro c’è Giovanni, suo padre. Lui non se n’è andato, è rimasto qui. Adesso è diventato nonno di una bambina che porta il nome di quella figlia. E sta qui, in questo spazio che ospita attività per bambini, laboratori, dibattiti, in cui ognuno può andare e prendere un libro dagli scaffali. Un’associazione di studenti in questi anni ha organizzato, nel giorno del compleanno di Annalisa, una raccolta di libri da donare alla biblioteca. Una sorta di regalo simbolico, un modo per affermare che agli spari si può rispondere con i libri, che la cultura salva dai proiettili. Ogni anno, nell’anniversario del compleanno e della morte di Annalisa, in questo posto si svolgono iniziative in sua memoria che coinvolgono scuole e associazioni. Pochi passi più in là c’è un altro segno di quella memoria: la scuola “Annalisa Durante”.
Eppure, aldilà della memoria, quell’interrogativo continua a pulsare nelle tempie: cosa è cambiato a Forcella in questi anni? Ammesso che si riesca a trovare una risposta a questa domanda, resta necessario porsela, anche perché i “morti per sbaglio” non sono finiti con Annalisa. Genny Cesarano alla Sanità, Ciro Colonna a Ponticelli, Vincenzo Liguori a San Giorgio a Cremano, Lino Romano a Marianella, Petru Birladeanu a Montesanto. Una cartina di sangue. Quest’anno l’incubo di Annalisa è tornato a farsi sentire con Noemi, la bambina ferita nell’agguato di piazza Nazionale. Fortunatamente per lei il finale è stato diverso. Dopo sedici anni, tra i vicoli di Forcella si spara ancora. Secondo l’ultimo rapporto semestrale della Direzione Investigativa Antimafia le tensioni registrate in quest’area sono dovute a un rinnovato scontro tra i Buonerba, braccio armato dei Mazzarella, e i Sibillo.
E allora quella domanda l’ho rivolta a due persone che il quartiere lo vivono.
Marina Rippa ha iniziato a lavorare a Forcella tre anni dopo la morte di Annalisa, nel 2007, anno in cui, sotto la direzione artistica di Nino D’Angelo, si è avviato al teatro Trianon Viviani un laboratorio teatrale rivolto alle donne del quartiere. “Femminile plurale” è il nome di questo progetto, nato con la convinzione che il teatro possa essere per le donne uno strumento per il ritrovamento del sé, della propria storia e che la consapevolezza conquistata possa diventare patrimonio per l’intera comunità. Il quartiere diventa così sia una scenografia naturale, un contenitore di storie. Oggi Marina svolge il suo laboratorio due volte a settimana, proprio nello spazio comunale piazza Forcella, all’interno della biblioteca Annalisa Durante. In questi anni è diventata un occhio sul quartiere e un punto di ascolto che ha raccolto tante storie delle donne che lo abitano. «Dopo l’omicidio di Annalisa – dice Marina –, la prima vera azione a favore della comunità l’ha fatta la scuola Adelaide Ristori, con l’allora preside Fernanda Tuccillo: chiedere di far nascere la scuola dell’infanzia nei locali in cui ancora adesso opera e che qualcuno voleva allora destinare alle forze dell’ordine. Fu un affermare che il primo avamposto di legalità era proprio la scuola. Credo che quella decisione e la sua realizzazione abbiano dato fiducia a chi era spaventato per un evento così tragico».
Ma i problemi restano, continua Marina: «Negli anni qualche volta è successo di essere invitate a rimanere nello spazio comunale alla fine del laboratorio perché fuori tirava una brutta aria, oppure di fare il giro largo per via Duomo e non passare per via Vicaria». Nonostante ciò si notano segni di cambiamento: «Vedo da qualche tempo turisti passare anche per via Vicaria. Il confine che prima c’era con la Spaccanapoli che comincia tra via Duomo e San Biagio dei Librai è caduto. A Forcella ci sono i b&b, cosa impensabile fino a qualche anno fa, oltre a un fiorire di associazioni, come lo spazio comunale in funzione dal 2012, che raccoglie varie esperienze, tra cui anche la nostra. Da poco c’è la Casa di vetro, finanziata dall’Altra Napoli onlus. Mi sembra che l’attenzione sul quartiere ci sia, soprattutto da parte di privati e associazioni». Le chiedo cosa serve oggi per Forcella e mi risponde che servono più occasioni d’incontro, di apertura a tutta la città, e serve occuparsi degli adolescenti. «L’esperienza mi porta a dire che le attività vanno sostenute nel tempo, che le comunità hanno bisogno di continuità e non di proclami».
Gioba Barone, invece, in questo quartiere è nato quarantotto anni fa. Punto di riferimento e figura molto attiva all’interno di un comitato di cittadini, coinvolge quotidianamente i bambini del quartiere in attività artistiche e laboratori. «La morte di Annalisa è stata lo starter di un neon – dice –. C’è stato un momento di rabbia cittadina, poi un desiderio di rivalsa del quartiere e infine si è scoperto che un nuovo starter non bastava se il neon era vecchio. Non ha funzionato, forse non eravamo maturi. Il dolore frenò molto, eravamo tutti fermi davanti alla salita tortuosa. Don Luigi Merola, allora parroco di San Giorgio Maggiore, offrì la sua popolarità alla cronaca con intenti buoni. Tentò di scuotere le anime, facendo intuire che dalla morte si può dare vita».
Riguardo ai cambiamenti avvenuti in questi anni, Gioba spiega: «C’è più attenzione sul quartiere, ma problemi simili a quelli degli anni passati: la presenza del malaffare e l’assenza del Comune, se non per fare passerelle politiche. Oggi Forcella è più propositiva. Sedici anni fa avevo un’associazione per bambini nel quartiere ed era l’unico ente attivo. Ascoltavo le voci di madri e padri di quei bambini che dicevano che non era giusto morire così. Oggi ci sono molte iniziative, ma poche partono dal quartiere. Forcella fa audience, ma è un quartiere che non è abituato alla collaborazione. Anche oggi che si insediano nuove realtà c’è chi segue questo o quell’altro ente solo perché vorrebbe il miracolo già impacchettato. Gli abitanti vogliono fatti concreti e li vogliono da chi può darglieli: il Comune, la Regione. Non abbiamo segnaletica, le strade sono distrutte, i lampioni spenti. Ci sono dodici cassonetti dell’immondizia davanti a una chiesa del Quattrocento. Come si costruisce il buono dei nostri figli se i genitori non curano la loro casa, il loro quartiere? Di associazioni siamo strapieni, serve che alle domande del quartiere seguano le risposte giuste. Tanto per dirne una: se chiediamo la differenziata non ci deve essere detto che in passato non ha funzionato. Si chiama passato perché oggi non c’è. Se chiediamo illuminazione pubblica ci deve essere, perché è un diritto e non un favore».
Non appare facile neanche la convivenza con le comunità di migranti che abitano il quartiere. Lo scorso maggio a vico Scassacocchi un ragazzo nigeriano è stato accoltellato. Ai carabinieri racconterà di essere stato aggredito senza motivo da quattro italiani. Due anni prima la comunità africana era stata bersaglio di una rappresaglia mirata a punire chi di loro non pagava il pizzo. Con i migranti che vivono nel quartiere, secondo Gioba, c’è un rapporto di amore e odio: «Non vengono viste di buon occhio le prostitute, che sono in maggioranza ragazze africane, né i rom che scavano nell’immondizia per raccattare qualcosa. Poi però andiamo a comprare nei negozi dei pakistani, diamo abiti ai rom, affittiamo i bassi alle africane. È la Forcella che nei controsensi mostra la sua umanità viscerale. Ci sono persone che lavorano in silenzio per l’integrazione, ma è solo l’inizio di una progettualità che oggi ancora non vedo». (giulia tesauro)