Dopo quaranta anni secchi di rimozione generale del welfare abitativo finalmente si sta tornando a ragionare in modo ampio e critico sul problema della casa. Non sono più solo voci isolate, studiosi competenti ma marginalizzati, ex funzionari e consulenti pubblici coscienti delle reali proporzioni del fenomeno e gruppetti eroici di attivisti a parlarne, ma si moltiplicano i libri, gli interventi e soprattutto le battaglie, che cominciano a filtrare nell’opinione pubblica. Uno dopo l’altro cadono i miti reazionari forgiati dai think-tank liberisti e, in ambito più mondano, dai curatori di biennali e mostre di architettura. Spingere l’intera popolazione verso la proprietà della casa non si è rivelata una soluzione efficiente né accettabile per una società democratica, ma anche altre idee in apparenza più miti e alternative come l’elogio delle favelas, delle case nomadi, delle case-parassita e di altre strutture auto-costruite o informali hanno ormai mostrato, dietro l’allettante maschera romantico-anarchica, il loro ruolo strumentale al funzionamento della metropoli capitalista, riassunto nella qualità della resilienza.
La critica e le lotte sulla gentrification e sull’impatto del turismo e delle piattaforme sui territori e sulle città ci hanno permesso di comprendere a fondo la violenza inesorabile del Real Estate e di Airbnb. Grazie all’attivismo di insideairbnb, Ocio, Perunaltracittà, offtopiclab, Set, agli scritti di Giovanni Semi, Sarah Gainsforth, Clara Zanardi, Giacomo Maria Salerno, e prima ancora di Paola Somma, Antonio Fiorentino, Ilaria Agostini, e una letteratura internazionale fiorentissima sui casi paradigmatici della Silicon Valley, di New York, Londra, Berlino, Barcellona, Lisbona e Amsterdam sappiamo con assoluta certezza che i simboli più luccicanti del successo e della crescita di una città sono sicuri indicatori della velocità con cui vengono espulsi i suoi abitanti: i progetti di “rigenerazione” a base di case, uffici e centri commerciali di lusso e i cozy flat degli annunci non portano affatto un maggiore benessere per tutti, ma aggravano la competizione per l’abitare. “È come se ti offrissero un dolce e poi fossi costretto a guardare mentre altri se lo mangiano”, scrive Rowland Atkinson inAlpha City. How London was captured by the super-rich.
In uno scenario di diseguaglianze crescenti e nuove crisi che contribuiranno ad aumentare i numeri del fabbisogno abitativo, urgono come non mai regolamentazioni stringenti degli affitti brevi a uso turistico, leggi che fermino l’emorragia (svendita) del patrimonio edilizio di proprietà pubblica e soldi, molti, destinati alla sua manutenzione ordinaria e straordinaria (l’Italia destina alla casa lo 0,1% del Pil, 7,32€ a persona, contro una media europea del 2%). E soprattutto serve un’inversione culturale e politica nei confronti dei grandi investitori immobiliari: prima che assumano il controllo di una quota maggiore di patrimonio residenziale (oggi si attesta all’1%) è necessario adottare misure per scoraggiarli, e non per attrarli. È fondamentale demolire la retorica dominante dell’attrattività, che associa un improbabile orgoglio all’“atterraggio in città” di mostri come Blackstone, Hines o del Fondo Sovrano del Qatar.
Una delle più efficienti misure di contrasto al cartello immobiliare è istituire tasse sugli alloggi vuoti, che sono infatti le più temute dai fondi d’investimento, l’oggetto di una continua campagna di denigrazione da parte di media e politici compiacenti e di tentativi di negoziazione da parte delle lobby di settore.
Tassare il vuoto rende costoso, e quindi rischioso, l’acquisto, la costruzione e la gestione di grandi quantità di case difficili da piazzare sul mercato – quelle troppo lussuose per la domanda corrente ma anche quelle troppo malridotte –, e questo taglierebbe le gambe a quelle operazioni speculative che hanno prodotto metropoli del lusso senza abitanti come Dubai, o che stanno svuotando le grandi città europee che hanno la sfortuna di essere quotate come asset sicuri. È poi un ostacolo all’ormai classica tecnica del degrado programmato (lasciare decadere edifici e interi quartieri per ricostruirli con volumi più generosi), e impedisce ai monopolisti di mantenere le case sfitte per dopare i prezzi. Inoltre, se accoppiata a una regolamentazione che pone un limite temporale annuo agli affitti brevi, una tassa sul vuoto rappresenta uno strumento formidabile anche contro il mercato delle piattaforme, perché bilancerebbe in negativo i profitti straordinari tratti dai periodi di pieno, facendo crollare il rapporto di convenienza economica rispetto all’affitto lungo.
Ma una vera tassa sul vuoto non colpirebbe solo i grandi proprietari: i suoi effetti ricadrebbero sui circa sette milioni di alloggi non abitati da residenti, di cui la metà appartiene alla schiera delle seconde case da vacanza, mentre un numero stimato in un milione è affittato al nero, e il restante 40% sarebbe effettivamente inutilizzato.
Questo è considerato l’argomento più spinoso: se per colpire i grandi speculatori si rischia di appesantire i piccoli proprietari, allora la tassa diventa illegittima. Ma si tratta di un tabù molto discutibile, che va smontato pezzo per pezzo.
Prima di tutto, chi sarebbero queste vittime innocenti, i piccoli proprietari? In Italia dobbiamo distinguere tra i diciotto milioni che possiedono solo la casa in cui abitano (una categoria nella quale rientrano moltissime persone a basso reddito, almeno il 22%) e i sette milioni di multiproprietari, che ammontano a poco meno di un quarto del totale dei proprietari e a poco più di un decimo degli italiani: i primi attualmente pagano solo una tassa destinata ai servizi comuni di manutenzione e urbanizzazione, i secondi pagano l’IMU, una delle tasse più tormentate e modificate degli ultimi decenni, la più odiata dagli italiani. Nonostante la sua modesta entità, quasi un’inezia se comparata ai normali costi di ristrutturazione, manutenzione, condominio, arredo e consumo di una casa, gli italiani la percepiscono come un’intollerabile prelievo “patrimoniale” (la stessa parola suona oggi come un insulto) sulla propria legittima proprietà.
Questo “sentimento” deriva da un’idea di proprietà estremamente reazionaria, opposta a quella descritta da tutte le costituzioni novecentesche a partire da quella di Weimar, compresa la nostra, che ne sanciscono la funzione sociale e le impongono dei limiti nell’acquisizione, nel godimento e nella trasmissione. La pretesa meschina di eliminare ogni più piccolo tributo sulla proprietà, ogni condizionamento sulle sue destinazioni d’uso, e la rivendicazione del diritto di trasmetterla intatta agli eredi è, come ha evidenziato potentemente l’economista Thomas Piketty, uno dei pilastri della diseguaglianza. Come i proprietari di yacht si ribellano alla tassa di approdo nello stesso porto in cui fanno un pieno da migliaia di euro, così i proprietari di casa considerano un sopruso l’obbligo di versare al pubblico una frazione minima di quello che buttano all’Ikea o per ritinteggiare la facciata. Seconde, terze e decime case sono un lusso, tecnicamente si definiscono “consumi abitativi opulenti” (come si legge in Marianna Filandri, Manuela Olagnero e Giovanni Semi, Casa dolce casa?, Mulino 2020) e come tali vanno trattate e tassate. Se il proprio reddito non consente di sostenere le spese di una casa al mare o in montagna, o peggio il pied-à-terre in città, lo studio-scannatoio, il bilocale da tenere in caldo per i figli all’università, non se ne può certo fare carico il comune, lo stato, la comunità dei non proprietari: la soluzione è a portata di mano, e si chiama mercato dell’affitto. Un mercato che in Italia è alle stelle perché grandi e piccoli proprietari, indifferentemente dal proprio status di persone fisiche (95%) o non fisiche, trovano conveniente tenere il 20% degli alloggi totali “a disposizione” o affittarli al nero. Se anche meno di metà degli alloggi vuoti di Roma – circa 140 mila, documenta Enrico Puccini in Verso una politica della casa, Ediesse 2016 – o delle altre città venisse immesso stabilmente nel circuito dell’affitto a lungo termine si otterrebbe un calmieramento apprezzabile del mercato e un sollievo per quella fascia sempre più ampia di famiglie che, seppure fuori dall’emergenza abitativa, non riesce più a sostenere con serenità i costi di un mutuo o di un affitto.
Ma può una tassa sul vuoto davvero spingere i proprietari grandi e piccoli ad affittare a lungo termine? La domanda riguarda la cosiddetta “logica incitativa” dell’imposta sul capitale, cioè quella mirata a “obbligare chi usa male il proprio capitale a disfarsene progressivamente per pagare le imposte, cedendolo così a proprietari più dinamici” (T. Piketty, Le capital au XXIe siècle, Seuil 2013). Naturalmente quello che ci interessa non è incitare i rentier a ricavare maggiore profitto dal proprio capitale immobiliare, ma indurli a restituire alla proprietà un po’ della sua funzione sociale.
L’ostacolo più grande è il terrore dei proprietari di perdere il controllo sul bene, perché la legge italiana è molto protettiva per gli inquilini sul fronte dello sfratto, mentre i sussidi all’affitto sono scarsi e difficili da ottenere: il risultato è una forte esposizione al rischio di accumulare notevoli perdite in denaro e danni materiali all’immobile. A questo si può rimediare in molti modi, come dimostra Puccini, costruendo forme organizzate e agili di welfare abitativo che offrano garanzie ai proprietari e contributi rapidi agli inquilini.
È invece impossibile piazzare sul mercato le case vuote che si trovano nelle cosiddette “aree interne” o nelle “shrinking cities”: cioè tutti i territori e le città interessati da fenomeni di abbandono o emigrazione, dove la domanda abitativa è talmente scarsa e il valore immobiliare talmente irrisorio che spesso, anche volendo, è impossibile persino liberarsi della proprietà. In casi come questi un’imposta sul vuoto sarebbe non solo ingiusta, ma pericolosa, controproducente: potrebbe accelerare la rovina fisica ed economica di piccoli centri già sofferenti, o agevolare operazioni speculative come la trasformazione in resort o parchi a tema di borghi storici. Il tema centrale per queste aree è ricostruire un tessuto di servizi pubblici e attività produttive non turistiche – o almeno non solo turistiche – in grado di riportare abitanti nelle case, non certo penalizzare dei proprietari involontari.
Nessuna remora quindi verso chi ripropone il mantra berlusconiano “padroni a casa propria”. L’obiettivo è costruire un’imposta sul vuoto equa ed efficiente, in grado di contrastare quel “paradosso italiano”[1] che mantiene il tasso di alloggi vuoti al di sopra della media internazionale nonostante l’altissima domanda. Per realizzarlo è fondamentale progettare un meccanismo sensibile al luogo su cui la tassa ricade e alle variazioni temporali. Bisogna, cioè, tenere conto della geografia del fabbisogno abitativo e dei valori catastali aggiornati in tempo (quasi) reale.
L’apparente controsenso della scelta di tassare un bene improduttivo rispetto a uno che produce reddito è risolto proprio dalla consapevolezza di questo paradosso sull’abitazione: ai fini della giustizia sociale è più dannosa la scarsità artificiale del bene-casa prodotta dal vuoto che un moderato vantaggio in termini di reddito concesso a chi affitta a lungo termine attraverso sgravi o incentivi. (lucia tozzi)
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[1] Martina Gentili e Joris Hoekstra, “Houses without people and people without houses. A cultural and institutional exploration of an Italian Paradox”, Houses Studies, n. 34, 2019).