Centinaia di migliaia di persone sono in piazza in Francia da due mesi, con manifestazioni in decine di città, contro il progetto di legge sul mercato del lavoro promosso dal ministro El Khomri. La riforma, che cerca di introdurre misure di maggiore flessibilità, prevede la facilitazione dei licenziamento “di tipo economico”, affida alle aziende un potere maggiore nell’ambito dei negoziati con i lavoratori, a cominciare dalla gestione degli orari. Tra i vari provvedimenti, preoccupano la riduzione del pagamento degli straordinari, la possibilità di derogare al Codice del lavoro, la cancellazione del diritto al congedo. Le mobilitazioni sono cominciate agli inizi di marzo, con una serie di assemblee di studenti, lavoratori, precari e disoccupati all’interno delle università, successivamente sgomberate su richiesta del governo.
Il 31 marzo più di duecento cortei sono stati organizzati in tutto il paese contro la “Loi travail”. In quella sola occasione la mobilitazione ha coinvolto un milione e duecentomila persone, il doppio della prima grande manifestazione di venti giorni prima. Negli stessi giorni la petizione online “Loi travail, non merci!” ha raggiunto oltre un milione di firmatari.
Se nelle piazze il governo ha reagito in maniera molto dura – hanno fatto il giro del mondo le immagini delle cariche da parte della polizia in place della Nation, durante la manifestazione parigina del 9 aprile – da un punto di vista politico il movimento della Nuit Debout ha registrato alcune parziali vittorie, come la revoca della proposta delle dieci ore di lavoro per gli apprendisti minori, la durata di quarantaquattro ore lavorative a settimana per quindici settimane consecutive (che restano invece dodici), l’eliminazione della norma che prevedeva di ridurre gli indennizzi per il lavoratore in caso di licenziamento.
Dopo un primo maggio di tensioni, la legge è arrivata in discussione all’Assemblée Nationale, dove dovrà affrontare lo sbarramento di cinquemila emendamenti, per un testo di cinquantaquattro pagine. Il voto è previsto per il 17 maggio, ma al governo mancano circa quaranta voti per registrare la maggioranza. Ieri, il consiglio dei ministri ha annunciato che ricorrerà all’articolo “49.3” (del titolo V della costituzione), che darebbe all’esecutivo la possibilità di far passare la legge senza votazioni. A seguito dell’annuncio, nuovi scontri tra manifestanti e polizia si sono registrati di fronte all’Assemblée Nationale e agli Invalides. I parlamentari di destra hanno invece presentato una “mozione di censura” che sarà discussa domani, 12 maggio e che comporterebbe la caduta del governo nel caso in cui dovesse essere votata da una maggioranza di duecentottantanove parlamentari. Permane intanto il coprifuoco intimato dal prefetto di Parigi in place de la République, dove, dopo le dieci di sera, sono proibite riunioni, alcool e musica.
Pubblichiamo a seguire un articolo apparso su lundi.am
1. Quel che stiamo vivendo è inedito. E non si tratta assolutamente di un altro “movimento sociale”. I movimenti sociali hanno una cornice, che definisce come sconfinamento tutto quello che ne fuoriesce. Quel che noi stiamo vivendo a partire dal 9 marzo non è che una sequela ininterrotta di sconfinamenti, dietro i quali arrancano le vecchie forme della politica. L’appello a manifestare era uno sconfinamento della cornice sindacale operato dagli youtuber. Le manifestazioni che si sono succedute da allora hanno registrato un costante sconfinamento dei cortei da parte dei “giovani”: all’immagine tradizionale del corteo sindacale guidato dai capi delle differenti centrali sindacali si è sostituita una testa del corteo sistematicamente composta da una massa di giovani incappucciati che sfidano la polizia. L’iniziativa di Nuit Debout rappresenta essa stessa lo sconfinamento di ogni cornice politica riconosciuta. Le partenze dei cortei non autorizzati da place de la République sono stati a loro volta uno sconfinamento della cornice creata da Nuit Debout. Bisogna quindi ricominciare ancora una volta, ovvero continuare a sconfinare, continuare a muoversi, continuare a sorprendere.
2. Il tentativo di ricondurre l’inedito nel campo del già visto fa parte dell’arsenale mediatico di neutralizzazione. Così come le manifestazioni contro la “Loi travail” avevano poco a che vedere con la lotta contro il CPE (Contrat Première Embauche, riforma dei contratti per i giovani ritirata in seguito a una forte mobilitazione, ndr), così Nuit Debout ha ben poco a che vedere con gli Indignadosdella Puerta del Sol. Se la Puerta del Sol si proclamava “pacifista”, place de la République ha conosciuto diverse ore di scontri con la polizia. Se la Puerta del Sol si diceva “apolitica”, sono invece innumerevoli, a place de la République, gli appelli ai sindacati e gli interventi dei sindacalisti. Infine, la Puerta del Sol era realmente occupata, mentre non lo è place de la République. Lì si faceva da mangiare per migliaia di persone; si stava lì giorno e notte; non si era sgomberati ogni mattina dalla polizia, né costretti a smontare le cose o a smettere di cucinare. Quest’ultima differenza ci indica una strada da seguire: se non vogliamo che place de la République assomigli a un’interminabile Assemblea Generale che si ripete ogni giorno, fino a non offrire più che lo spettacolo della sua impotenza e delle sue “decisioni” senza seguito, bisogna occupare veramentela piazza, e quindi costruire davvero degli spazi e difenderli dalla polizia.
3. Quel che si è costituito a place de la République è un contro-spazio pubblico. Dal momento che lo spazio pubblico realmente esistente, lo spazio politico e mediatico, è diventato integralmente bugiardo, non c’è altra scelta che disertarlo, ma disertarlo non con il semplice mutismo, al contrario, positivamente, costruendone un altro. E la parola è come la libertà, la prima volta che si prende, spesso è per dire o fare delle fesserie; ma questo poco importa. Basta non fermarsi alla prima fesseria: noi respiriamo di nuovo da appena qualche settimana. Sono anni che un insieme di forze coalizzate rendono il clima irrespirabile, tra “minaccia del Front National”, “guerra al terrorismo”, “crisi” di ogni genere, stato d’eccezione, apocalisse climatica e campagna elettorale permanente per le prossime presidenziali. Questo caratterizza lo spazio pubblico dominante, e l’unica possibilità che vi si offre è la contemplazione: ciò di cui siamo testimoni, quel che capiamo, che impariamo, non sfocia mai in un gesto, né comporta conseguenze, perché tutti, in questo spazio, siamo soli. Quel che c’è di vivo e temibile nel contro-spazio di place de la République, è che il gesto può seguire la parola. La coscienza e la possibilità di agire non sono più disgiunte. In questo modo il contro-spazio destituisce positivamente lo spazio pubblico esistente. Da qui la grande curiosità, e la grande invidia, dei media al suo riguardo.
4. Il conflitto sulla legge El Khomri non è un conflitto sulla legge El Khormi, ma un conflitto sulla possibilità o meno di governare, vale a dire un conflitto politiconel vero senso del termine. Nessuno sopporta più di essere governato dai fantocci del governo e dell’Assemblea, ed è per questo che la legge, dal nostro punto di vista, non deve passare; il governo non può accettarlo perché questo significherebbe essere di fatto destituito, non poter più governare. Questo rifiuto si esprime d’altronde anche in un sindacato come la CGT, dove nemmeno la base sopporta più di essere governata dalla direzione. La posta in gioco di quel che sta accadendo in Francia da più di un mese è dunque la destituzione del governo, in tutte le sue forme. Se seguiamo gli interventi che si succedono a place de la République, notiamo che la gran parte di essi oscillano tra due posizioni opposte sulla questione della destituzione: gli uni vorrebbero che al momento della destituzione seguisse un momento costituente in cui sembrerebbe loro opportuno scrivere una nuova costituzione al fine di fondare una nuova società; gli altri pensano che la destituzione debba essere senza fine, perché essa è prima di tutto un processo di costruzione, e quindi che si debba sostituire alla finzione di unasocietà, la realtà di una pluralità di mondi che esprimono e incarnano ciascuno un’idea della vita, della felicità. Noi siamo partigiani di quest’ultima posizione.
5. Siamo pragmatici: a nessuno sarà concesso di scrivere una costituzione se non alla condizione di aver prima ribaltato il regime. E visto che un regime democratico non si ribalta democraticamente, vale a dire che esso si difenderà fino al suo ultimo celerino da ogni messa in discussione fondamentale, la sola via per scrivere una nuova costituzione è la via insurrezionale. Ma per poter condurre un’insurrezione vittoriosa, come quella di Maidan (in Ucraina nel 2013-14, ndr) per esempio, è necessario che la place de la République sia realmente occupata, fortificata, sorvegliata, ecc.; è necessario inoltre che tutte le sensibilità politiche ed esistenziali favorevoli all’insurrezione vi si possano ritrovare; per questo è necessario sostituire alla disperata ricerca di un consenso – che non potrà che essere, in pieno centro di Parigi, che il consenso della piccola borghesia metropolitana più o meno impaurita –, l’esistenza materiale di una pluralità di spazi, di “case”, dove le diverse sensibilità dell’insurrezione a venire possano aggregarsi e fondersi. Coloro che si appassionano alla scrittura della costituzione potranno costruirsi una casa per fare tutti gli esperimenti di scrittura che vorranno. Ma per metterla in opera, ebbene, ne discuteremo quando Valls e Hollande avranno preso il loro jet per rifugiarsi negli Stati Uniti, in Africa o in Algeria.
6. Un manifesto nella metro parigina proclamava qualche anno fa: “È padrone dei luoghi colui che li organizza”; era decorata da un maestoso leone che stava a rappresentare la sovranità della Ratp (l’azienda dei trasporti parigina, ndr). Cos’è allora il potere a place de la République? Ebbene, il potere è l’organizzazione della piazza stessa, e le forze dell’ordine che ne impongono il rispetto. Il potere, qui, è dunque questa grande spiazzo vuoto, questo flusso di automobili e il loro baccano, e i furgoni di celerini appostati a tutte le entrate. Come può un’assemblea pretendere seriamente di essere sovrana e poi abbassarsi a rispettare punto per punto la sovranità reale, quella che gli detta ciascuno dei suoi gesti? Non è una cosa seria. Ora noi non saremo felici, non saremo veramente numerosi, e in un numero denso e determinato, che a condizione di essere seri. Essere seri, qui, vuol dire decidere noi stessi dell’organizzazione della piazza, vuol dire costruire su solide basi per significare la nostra intenzione di durare, il nostro rifiuto di figurare solo come epifenomeni mediatici che saranno spazzati via al prossimo attentato. È necessario, dunque, per poter accogliere compagni dappertutto, uscire dalla precarietà nella quale ci costringe l’organizzazione prescritta della piazza, e cominciare ad organizzarla a modo nostro – insomma, essere costruttivi.
7. Eccoci al punto: siamo troppo numerosi per tornarcene a casa, e non siamo abbastanza per lanciarci in un assalto insurrezionale. Dobbiamo urgentemente “cambiare marcia”, come diceva qualcuno. Aver superato il mese d’aprile è già qualcosa. Non possiamo contare sui sindacati, perché anche se degli scioperi dovessero sorgere qua e là, questo sarebbe contro il loro volere. Conosciamo tutti il pericolo che ci minaccia se la situazione si circoscrive, il pericolo contro il quale stiamo lottando già in questo momento. Questo pericolo è quello del sistema elettorale: ritrovarci tra un anno di fronte al ricatto democratico di dover scegliere tra la peste e il colera, tra Alain Juppé e Marine Le Pen. Coloro che potrebbero raggiungerci sono esattamente quelli che si rivoltano di fronte a tale prospettiva, l’insieme di coloro che non sopportano più che la politica sia ridotta alla procedura insignificante del voto. La politica sta in quello che siamo capaci di elaborare, in quello che costruiamo, e in quello che attacchiamo, in quello che distruggiamo. Cambiare marcia, si tratta di questo dunque: costruire l’impresa, bruciare i palazzi. (commission construction / traduzione di luca rossomando)