Gli spalti in legno del ponte Carpanini sono comodi, passo le ore a leggere mentre la Dora scorre vicina. Queste gradinate sovrastano la passerella pedonale, sono scaldate dal sole mattutino e da qui si vede il ponte Mosca poco più a valle; dietro invece sento il rumore di poche auto sulla careggiata d’asfalto sorretta dalla struttura in acciaio del ponte. Un ragazzo mi chiede se va tutto bene, se tutto è a posto, faccio segno di sì con la testa e torno alle pagine di un saggio di Giulia Fabini, Polizia e migranti in città. Negoziare il confine nei contesti locali (Carocci, 2022). Porto i libri all’aria aperta, fuori dalla stanza con la scrivania o dalle biblioteche, e rifletto sul testo in mezzo alla città – è un metodo che sperimento da tempo. Ora tra le mani sfoglio uno strumento e ho deciso d’impiegarlo per comprendere questo ponte, la vita che si muove qui e il senso delle frequenti operazioni di polizia cui ho assistito.
Il saggio di Fabini mi sembra una ricerca sulle modalità di azione poliziesca in territori segnati da “confini interni”. Le pratiche di norma realizzate sul confine – come il controllo dei documenti, la limitazione della libertà di movimento – possono essere applicate ovunque, e in particolare nelle città, su soggetti peculiari privi di cittadinanza o permesso di soggiorno: “Affermare che il confine non sia solo quello statale e geografico, e non sia dunque solo quello esterno, significa anche affermare che esso non sia costituito da una linea che divide il dentro dal fuori, ma rappresenta uno spazio dove ha luogo un’interazione, dove viene esercitata la discrezionalità ed entro il quale vengono prese decisioni fondamentali su chi può rimanere e chi può andare” (pp. 88-89).
Accanto a me ci sono due ragazzi che discutono a voce alta, uno è sbronzo; parlano della Libia, di quanto sia pericoloso lì, ci sono passati, è facile essere derubati, addirittura uccisi dalle guardie e quando si è in quelle situazioni, dicono, non si è più «umani». Sta per piovere e non vedo volanti blu, eppure potrebbero passare perché qui appaiono spesso le pattuglie. Gli agenti potrebbero chiedere i documenti dei due ragazzi, e non i miei, perché davvero questa è una zona speciale, o “terra di nessuno”, per chi non ha cittadinanza: “una terra di nessuno viene infatti prodotta ai confini interni ogni volta che la polizia incontra una persona migrante” (p. 89), scrive Fabini.
Una mattina di sabato ero qui con gli amici e il ponte era gremito di persone che chiacchieravano al sole, bevevano un caffè, fumavano una sigaretta o vendevano pochi oggetti raccattati qua e là. Accanto a noi vibrava un diverbio, chissà per quale motivo, e una donna era turbata e sofferente, certo nervosa, e d’improvviso, colta dall’ira, afferrò lo zaino di un’amica e lo gettò nel fiume. Mentre, affacciati al parapetto, contemplavamo l’oggetto zuppo che lento affondava, un ragazzo si lanciò dal ponte e atterrò sul greto, entrò in acqua e recuperò lo zaino. Risalì sulla passerella a forza di braccia. Non parlava italiano, era un giovane ivoriano giunto qui da poco, e minorenne, intrappolato in questa terra di nessuno dove è al contempo libero e potenzialmente perseguibile. Secondo Fabini in Italia si riscontra “un limitato numero di espulsioni effettive” e dunque vige “una situazione di sostanziale indeportabilità” dovuta alle limitazioni legali e alle difficoltà materiali di realizzare i rimpatri. Questo, tuttavia, non è un sollievo per chi vive nelle città senza documenti validi, perché quel che conta in questo esteso territorio frontaliero è l’eventualità costante di subire un controllo, di finire in un Cpr. “Tale minaccia onnipresente – continua Fabini – costitui[sce] un meccanismo di controllo molto più pervasivo – e per questo più efficace – del rimpatrio vero e proprio, poiché [ha] l’effetto di disciplinare in ogni momento tutte le persone migranti irregolarmente presenti nel territorio” (p. 99). Allora la funzione prioritaria della polizia è quella di disciplinare chi è costretto a vivere in una terra di confini diffusi e ubiqui.
Certo, spesso le volanti passano accanto al fiume e non si fermano. L’indifferenza delle forze dell’ordine, o il mancato intervento, sono aspetti essenziali, e non contingenti, dei corpi di polizia. Questa mi sembra una delle tesi più interessanti che trovo nel saggio di Fabini. La parola chiave per capire questo aspetto è la “discrezionalità”, “intesa come la possibilità che [la polizia] ha di invocare la legge a proprio piacimento o di astenersi dal farlo; l’utilizzo discrezionale del potere è possibile grazie alla ‘bassa visibilità’ di cui la polizia gode durante il proprio operato, dal momento che le decisioni prese in strada o nelle auto sono note solo a chi le ha prese o chi ne è stato soggetto” (p. 53). Sul ponte Carpanini esiste una forma di discrezionalità poliziesca, sebbene questa non riguardi il controllo dei documenti e coinvolga un corpo diverso dalla polizia di stato.
Il sabato, giorno di mercato da Porta Palazzo a Borgo Dora, ambulanti poveri arrivano con sacchi pieni di vestiti raccolti in giro, utensili dismessi, giochi sbrecciati e dispongono gli oggetti sulle gradinate del ponte o sul marciapiede dinanzi all’antico arsenale. Il 14 gennaio sono giunte tre volanti sul ponte e gli agenti della polizia municipale hanno sequestrato la merce, ne era pieno il loro bagagliaio. Nelle settimane successive i vigili hanno presidiato gli ingressi del ponte e hanno vietato ai poveri di disporre le stuoie sul marciapiede, ma hanno concesso la vendita sulle gradinate. Il 18 e il 25 marzo i contingenti di polizia municipale hanno vietato la vendita degli oggetti ritrovati anche sugli spalti del ponte. A volte, tra l’inverno e la primavera, i vigili non si sono presentati al sabato. E anche quando sono giunti in forze, hanno smontato il presidio a mezzogiorno, alla fine del turno; dopo pranzo, finalmente, la vita trascorre in pace accanto al fiume. Per quale motivo le persone possono vendere a certe ore, a volte in un luogo, a volte in un altro, e in altre occasioni non possono? È a discrezione della polizia municipale. Così l’attività degli ambulanti dipende dalla apparente benevolenza degli agenti: un potere casuale e discrezionale che è effettivo anche quando non agisce.
Secondo Fabini “la polizia non è una agenzia di applicazione della legge, ma di mantenimento dell’ordine” (p. 66). In questo senso la legge – come il divieto di disporre merci senza una licenza – è un pretesto per giustificare l’intervento poliziesco. Così gli agenti non applicano la norma giuridica, ma la usano in contesti specifici per legittimare un intervento volto a disciplinare lo spazio urbano. Ancora l’autrice menziona gli studi classici di sociologia della polizia e sostiene che la “discrezionalità diventa arbitrarietà” (p. 54).
Un esempio concreto dell’arbitrio di polizia lungo il ponte in acciaio riguarda la disposizione dei nastri segnaletici bianchi e rossi. Il 14 gennaio gli agenti della municipale hanno disposto i nastri lungo le gradinate per impedire a chiunque di sedersi; hanno agito nello stesso modo la settimana successiva. Il 28 gennaio un contingente di dodici vigili ha steso i nastri ai due ingressi della passerella, nel tentativo di vietare il passaggio a chiunque. I nastri sono ricomparsi sugli spalti il 4 febbraio e il 18 marzo. Per quale motivo si vieta l’accesso a un’area pubblica? Gli agenti s’appellano a ragioni di ordine pubblico, eppure non hanno alcun atto legale che possa giustificare la chiusura: hanno assistito inerti quando cittadini solidali hanno rimosso i nastri.
Sul ponte in acciaio l’azione della polizia ha luogo in uno spazio normativo lasciato volutamente indeterminato dal legislatore. È possibile però che il governo della città, in futuro, intervenga con un regolamento o un qualche atto formale che assicuri agli agenti la legittimità necessaria per imporre la chiusura del ponte. Fabini ricorda che secondo Neocleus, autore del saggio The Fabrication of Social Order: a Critical Theory of Police Power, “non sarebbe la polizia ad applicare le leggi emanate dal parlamento, bensì sarebbe il parlamento che emana leggi che legittimano le pratiche di polizia, con il risultato che le riforme spesso sarebbero poco più che una legittimazione di pratiche già in uso tra i poliziotti” (p. 75). Certo, il mio sguardo è locale, e non riguarda le norme e i provvedimenti attinenti agli ordinamenti di polizia, eppure è interessante interpretare le ordinanze come una legittimazione formale di pratiche territoriali arbitrarie. L’atto di polizia, secondo questa ipotesi, precede il diritto, e lo crea: “si potrebbe sostenere che sia la polizia in ultima istanza a creare diritto” (p. 75).
Come spiegare gli interventi discrezionali della polizia municipale in questo angolo di città? Scrive Fabini: “Le possibilità che un poliziotto riconosca un evento che sta accadendo come una questione di sua competenza dipende non tanto da norme generali; piuttosto, è specifica al contesto in cui il poliziotto si trova ad agire e, come tale, è soggetta a mutamento. È il contesto – storico, politico, sociale, economico, culturale – che determina l’attività di polizia, non la legge” (p. 71).
Il contesto di Borgo Dora è attraversato da un conflitto sottile, latente, eppure spietato verso i poveri. Nel 2019 più di cinquecento ambulanti che legalmente vendevano oggetti trovati in giro – stavano dietro all’arsenale, vicino al più ricco mercato degli antiquari – sono stati allontanati con la forza di un’ordinanza comunale, multe della polizia municipale, cariche della celere. Poco oltre il ponte un barista ha stretto un accordo con la circoscrizione che gli concede il diritto di presidiare una porzione del lungofiume; il barista è anche un informatore del commissariato di zona e ha sparso in passato olio esausto sul parapetto accanto alla Dora per allontanare chi siede con una birra o una canna in mano. A valle, oltre il ponte Mosca, la stessa circoscrizione ha rimosso le panchine dove gli indesiderati – poveri, persone senza casa, vagabonde – usavano sedersi. E davanti al tratto delle sedute divelte s’apre il cantiere dove sorgerà The Social Hub, nuovo nome della catena di The Student Hotel. I drappelli di agenti impegnati al sabato si muovono forse senza coscienza, poveri di idee e orizzonti, infime rotelle di un meccanismo inesorabile, maldestro, privo di un soggetto che ne dirige la razionalità. Questo meccanismo si presenta a chi osserva con il nome di “riqualificazione”.
Il primo capitolo di Polizia e migranti in città traccia una storia della polizia come agenzia dal potere disciplinante e discrezionale. Sin dall’origine della modernità esisteva un legame tra la polizia nascente e il fenomeno del vagabondaggio: “La figura del vagabondo era una categoria giuridica abbastanza ampia e indefinita da permettere l’applicazione discrezionale della legge su un gran numero di persone, a seconda delle esigenze più disparate. Uno strumento ideale in mano alla nascente polizia per controllare legalmente e in maniera selettiva la mobilità, la povertà e la criminalità, individuando tra tutti i possibili vagabondi quelli che per qualche ragione andassero puniti” (p. 33).
Il ponte è vissuto e attraversato da tante persone diverse: studenti, sfaccendati, semplici passanti, spacciatori e acquirenti di droga, borghesi, poveri, turisti alla scoperta del fascino di Porta Palazzo. L’azione poliziesca si concentra tuttavia su un particolare categoria di soggetti: chi vende da ambulante poveri oggetti, e senza licenza, chi trascorre le ore sul ponte perché è senza casa, chi è giunto da poco in Italia o magari è uscito dal carcere. Continua Fabini: “La polizia deve controllare la mobilità, disciplinare le persone al lavoro e punire la criminalità. Ma non la criminalità in quanto tale: la criminalità commessa dai poveri e dai marginali. Dopotutto, il target della polizia è stato sempre la marginalità e la povertà” (p. 34).
Le persone disturbate dalla polizia sul ponte sono ai margini della catena produttiva – espulse o non integrate – ed è questa la loro colpa. Sono uno scandalo per una città che sogna il turismo e i consumi disciplinati: è inaccettabile vedere all’aria aperta uomini e donne libere e inattive – che siano disperate, sofferenti, speranzose o cariche di rabbia. Qui chi è senza documenti o senza cittadinanza si permette di sopravvivere e non s’adegua alle sole azioni plausibili: lavorare tutto il giorno in condizioni di sfruttamento; andare a dormire, senza far casino, in un tugurio affittato da proprietari italiani, ammesso che vi sia il modo di trovarlo.
Il ponte Carpanini sulla Dora è un luogo sensibile di un quartiere in trasformazione. L’attenzione delle forze dell’ordine, qui, è alta: quando passanti o solidali strappano i nastri rossi e bianchi posti dalla polizia municipale, agenti in borghese giungono a fotografare. Il mattino del 18 marzo, verso mezzogiorno, sulla passerella sostavano dieci agenti della polizia municipale, quattro agenti della polizia di stato e due in borghese con occhiali da sole. È un ristretto angolo di città, e il problema può sembrare irrilevante, dunque è impressionante un tale dispiegamento. La solidarietà, allora, è una pratica rischiosa, perché attira gli sguardi del potere discrezionale, aumentando così la repressione contro reietti e indesiderate. Anche questo articolo rischia di essere controproducente, a meno che, tra chi legge, vi sia una risposta attiva, determinata e al contempo plurale: chiedete agli agenti, voi che passate su questo ponte o attraversate gli altri margini delle metropoli, il perché delle azioni poliziesche, interrogate la loro legittimità, rendete difficile agli operatori in divisa il loro quotidiano lavoro di disciplinamento delle classi oppresse. Così che la solidarietà possa confondersi, divenire illeggibile, stimolare la coscienza critica nell’avanzare inconscio di questo meccanismo che divora e integra. (francesco migliaccio)
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