Quello di fine febbraio nei pressi di Cutro non è il primo naufragio della nostra storia recente, né il primo in Calabria. E non è un disastro, ma una strage. La matrice di questa strage è chiara: attraversa una intera generazione della storia politica italiana e globale, e troppo spesso finisce oscurata dalla comprensibile rivendicazione per una “umanità universale”. È una storia che conosciamo bene ma che spesso teniamo separata da noi, categorizzata, in quanto “storia degli immigrati” e non del mondo, con le sue guerre, la solidarietà, le lotte. Troppo spesso non vogliamo che sia storia nostra.
Erano gli anni prima di Genova 2001, e le barche arrivavano sulle coste calabresi. Erano gli anni della guerra civile in Iraq e della cattura di Ocalan, e i curdi salivano su quelle barche a centinaia, partendo dalla Turchia. Tanti sono stati i militanti che li hanno accolti, attivisti del movimento no-global, per esempio, e dell’antimafia sociale. Un mesetto fa, parlando con Mimmo Lucano, all’epoca giovane militante, siamo finiti a confrontarci non sulla Tunisia o sulle insurrezioni arabe, sulla Libia, su Minniti, Salvini o le navi delle Ong; abbiamo parlato di quando, più di venti anni fa, Mimmo e gli altri andavano in spiaggia ad accogliere i compagni curdi che arrivavano in barca. Per lui, la sentenza in secondo grado che arriverà fra qualche settimana è connessa più di quanto non si possa immaginare a quei momenti.
Quando non sono i rivoluzionari e la vita che approdano sulle nostre spiagge, ma è invece la morte, l’entusiasmo e la carica politica spesso vengono sostituiti dal panico. Un panico che abbiamo visto in occasione di (e che dovremmo imparare a riconoscere) tutte le grandi stragi marittime degli ultimi anni, che sul momento sembrano dover sempre determinare un punto di cambiamento, un perno nella storia. Poi però il tempo passa e queste stragi spariscono nell’abisso della memoria, come i corpi nell’acqua. Il naufragio di aprile 2015, il naufragio di ottobre 2013, il naufragio del Natale del ’96. Sono i momenti in cui ci si sveglia e si chiede che il governo “faccia qualcosa”. La risposta è di solito l’introduzione di nuovi strumenti legislativi repressivi, o di accordi per fermare i vivi – e con loro, dicono, i morti. E poi esiste tutta una serie di naufragi a noi sconosciuti. Un conteggio senza fine di morti che non sono mai state rese visibili dalle luci delle telecamere o dei fari nei porti, anche se non passano del tutto inosservate.
Quando le barche hanno ricominciato ad approdare sulle coste calabresi, tra il 2009 e il 2010, le politiche erano cambiate. Mentre Mimmo e altri militanti aprivano le case a Riace e provavano a costruire ponti internazionalisti, gli Stati e il capitale si erano organizzati. Nel 2000 la Conferenza di Palermo dell’Onu, quella sul “Global Crime”, aveva visto politici e magistrati siciliani vantarsi di aver ormai appreso le tecniche per combattere le mafie e dichiararsi pronti a utilizzarle contro l’immigrazione. Già, all’epoca, il Testo unico sull’immigrazione (la celebre Turco-Napolitano) era stato introdotto, anche per rispondere ai naufragi del ‘96 e del ‘97. Ma qualcosa era cambiato. Gli stati sono andati avanti usando come ariete i proclami sulla protezione delle donne dalla tratta internazionale, dei cittadini dal terrorismo islamico, dei migranti dai trafficanti, della politica dalla mafia. Quando dieci anni dopo le barche a vela hanno iniziato nuovamente a partire dalla Turchia, arrivando sulle coste calabresi, ci eravamo già armati fino ai denti con nuovi strumenti per combatterle. I fari degli aerei Frontex hanno illuminato le acque, e i magistrati calabresi e pugliesi – forse annoiati dalla lotta contro la ‘ndrangheta e la Sacra corona unita – hanno messo gli “scafisti” nel mirino. Centinaia di fermi, decenni di carcere. Egiziani, turchi, curdi, iraniani, ucraini, russi, albanesi, l’ultimo anello della catena identificato come responsabile primo e unico. Un mondo dietro le sbarre, e un mondo dentro le bare.
Poi la crisi internazionale, gli arrivi in Sicilia, i siriani che scappavano dalla guerra civile e che morivano in partenza dalla Libia e non più dalla Turchia o dalla Tunisia. I magistrati siciliani hanno ricominciato a spingere per espandere la propria giurisdizione, per cercare i criminali, i “pirati moderni” già in alto mare, e i tribunali ad abbassare le garanzie e ordinare la cattura dei capitani delle barche. Quando una nave di cinquecento persone è affondata nell’ottobre del 2013, le tecniche per le indagini e gli argomenti giuridici per procedere con meno garanzie per gli imputati accusati come “scafisti” erano già tutte pronte. Indagini internazionali, arresti, carcere duro. Ai capitani, o meglio all’unico dei due che è sopravvissuto, ne sono stati dati dieci, sfruttando anche tutto l’armamentario della lotta contro la mafia: intercettazioni, droni, sottomarini, estradizioni. I risultati, da quel momento in poi? Più persone in carcere, e sempre più persone morte.
Gli sbarchi sulle coste calabresi infatti non si sono mai fermati, anzi nell’ultimo paio di anni sono moltiplicati. Le motovedette della Guardia di finanza partono oggi per raggiungere le barche appena entrano in acque nazionali, spesso dopo gli avvisi partiti dai droni di Frontex. Le persone che arrivano vengono da ogni parte: dai paesi bombardati dagli italiani e dai loro alleati, ma anche da quelli bombardati dagli stati “nemici”. Profugo o proletario, pirata o capitano, se non hai il passaporto giusto sei condannato ad attraversare le acque. Quando il ministro Piantedosi rivendica che i genitori non avrebbero dovuto mettere i loro figli su una barca, rilegge un copione già stilato in Tunisia, Grecia e Senegal, dove ci sono persone incriminate per aver messo “le vite dei loro figli a rischio”.
Tuttavia, quando pensiamo alle persone che perdono la vita nel Mediterraneo, dovremmo pensare al fatto che non solamente i più piccoli, ma anzi proprio gli adulti, i loro padri e le loro madri, sono cresciuti sapendo che la rotta marittima era l’unico modo per arrivare in Europa. Sono storie, queste, che ci fanno, e che facciamo. Non esistono episodi tragici scollegati uno dall’altro, e soprattutto scollegati dalla storia. In questa ultima circostanza l’omissione di soccorso sicuramente c’è stata, ed è auspicabile che vengano accertati i responsabili, magari ai vertici delle catene di comando. Eppure, giusto per fare un esempio, per il naufragio dell’11 ottobre 2013 il tribunale ha riconosciuto la prescrizione del capo della centrale operativa del comando generale della Capitaneria di porto Leopoldo Manna, e del capo sezione della sala operativa di CINCNAV (Comando in capo della squadra navale della Marina militare), Luca Licciardi, nonostante la loro responsabilità fosse stata provata. Di certo più successo avrà la giustizia italiana nel mettere a processo le tre persone fermate come “scafisti” a Crotone in occasione del naufragio di Cutro, persone provenienti dal Pakistan e dalla Turchia, uno dei quali di appena sedici anni. Né sorprenderà, se ora qualche politico o magistrato spingerà per l’introduzione di nuovi strumenti legislativi contro “gli scafisti”, o per firmare nuovi accordi con stati dittatoriali per “salvare vite umane”.
Quella di Cutro, come tutte le altre, è stata una strage politica. Una strage che mette insieme tutte le forze disponibili contro una barca abbandonata a mare, fatta a pezzi dalle politiche scientificamente selezionate negli anni per la chiusura delle frontiere, dai residui vitali del colonialismo e dalla militarizzazione della compassione. Onde molto più alte di qualsiasi tempesta. (richard braude)
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