In Italia come all’estero sono sempre di più le realtà occupate e autogestite a essere sgomberate o minacciate di sfratto. Nel pieno della crisi pandemica, sono sotto attacco proprio quegli spazi che, al pari di altre esperienze, hanno saputo mettere in atto forme di mutualismo e solidarietà dal basso per arginare le disuguaglianze che la crisi sanitaria ha reso ancora più evidenti. Per non perdere il filo di quello che sta accadendo, occorre ripercorrere, seppur brevemente, alcuni avvenimenti, allargando lo sguardo anche fuori dai confini nazionali.
Il 9 ottobre è avvenuto lo sgombero del Liebig 34, progetto abitativo avviato a Berlino Est subito dopo la caduta del Muro e dal 1999 spazio dedicato alla lotta anarco-transfemminista queer. Delle cinquantasette persone che ci vivevano dentro, solo alcune hanno deciso di lasciare la casa volontariamente, mentre altre hanno resistito dall’interno cercando il più possibile di ritardare le operazioni di sgombero, durate per circa sei ore. Nonostante le proteste dei mesi precedenti e il sostegno al centro sociale della popolazione locale, gli interessi economici e una chiara linea politica hanno prevalso ancora una volta mettendo fine a una delle più celebri esperienze sociali e culturali berlinesi.
Lo sgombero del centro sociale, verificatosi dopo che, nel 2018, una sentenza del tribunale aveva sostenuto gli interessi commerciali del proprietario dello stabile, si inserisce in una più ampia serie di sgomberi che nel corso degli ultimi anni hanno radicalmente trasformato la città di Berlino mettendo fine a un’intera epoca; infatti, al pari di altre occupazioni abitative, anche quella del Liebig 34 prese piede a seguito della caduto del Muro, quando studenti, lavoratori e attivisti occuparono decine di palazzi di proprietà pubblica ma abbandonati da anni (si stimano in circa centotrenta le occupazioni abitative messe in atto in quel periodo a Berlino). A distanza di trent’anni, il mercato immobiliare berlinese è però completamente cambiato: oggi la maggior parte delle occupazioni collettive non sono più di proprietà pubblica ma di privati, “imprenditori dell’Ovest”, singoli cittadini o agenzie immobiliari che si sono accaparrate interi palazzi a poco prezzo. E se fino a qualche anno fa i proprietari non si preoccupavano poi molto di quello che accadeva nei loro stabili, al giorno d’oggi sono in molti a reclamarne la proprietà in tribunale al fine di arricchirsi attraverso allusive opere di “riqualificazione”.
Berlino, purtroppo, non è l’unica città in cui la logica del capitale e della speculazione immobiliare cerca di mettere fine a progetti autogestiti e storiche occupazioni. Come altri paesi europei, anche in Italia si registra un’intensificazione degli sgomberi e delle minacce di sfratto, al punto che difficilmente si tiene il conto di quel che accade nel nostro territorio.
Risale al 6 ottobre lo sgombero della Kascina Autogestita Popolare (KAP) di via Ponchia, a Bergamo. Uno sgombero imprevisto: seppure da diversi mesi gli occupanti erano consapevoli che il Comune voleva riprendersi l’area per mettere a punto un progetto di housing sociale finalizzato ad accogliere donne sole con bambini, lo sgombero arriva dopo un anno e mezzo di completo silenzio da parte della giunta, nonostante i tentativi degli occupanti di “normalizzare” la situazione trovando un accordo a lungo termine con l’istituzione.
Una situazione che ricorda molto quella di un’altra storica cascina, Cascina Autogestita Torchiera senzacqua, occupata nel 1992 ma nuovamente minacciata di sgombero a seguito del nuovo bando emesso dal comune di Milano che, al pari di altri venticinque spazi, ha incluso Cascina Torchiera nella lista dei beni immobili in disuso da valorizzare nonostante lo spazio sia costantemente utilizzato per progetti sociali e culturali di natura anche molto diversa tra loro. Nella stessa morsa del bando e delle assegnazioni rientra Ri-Make bene comune, centro sociale presente per quattro anni nel quatiere Affori e dal 2018 a Bruzzano, periferia nord di Milano, e nuovamente a rischio.
Spostandoci da Milano verso la Brianza, un’altra occupazione deve fare i conti con la minaccia di uno sgombero nel 2021 a seguito dei mutati interessi immobiliari verso l’area rimessa in vita dal centro sociale FOA Boccaccio in quel di Monza. Occupata nell’ottobre del 2011, l’area di via Rosmini è stata completamente rigenerata grazie alla volontà di centinaia di persone e collettivi che, nel corso degli anni, hanno abitato lo spazio promuovendo sport popolare, concerti, cineforum e incontri pubblici, nonché corsi e centri estivi autogestiti per venire incontro alle famiglie ai tempi del lockdown e del tanto famigerato “lavoro da casa”. Da diversi mesi, però, le attività del centro sono minacciate da un piano di “riqualificazione” a cura del CAI di Monza che, tramite il progetto Quota 162, vorrebbe trasformare l’area in quella che è stata definita come la futura “Casa della Montagna”: uno spazio dedicato all’arrampicata sportiva (con palestra, bar e biblioteca) in una città che non è priva di palestre e che dista solo trenta minuti dalle montagne!
Un progetto in cantiere da anni e che trova oggi la sua approvazione definitiva grazie a un accordo immobiliare ridicolo, che ha svenduto un’area di circa diecimila metri quadrati per una cifra irrisoria. Inoltre, la città di Monza non è certo carente per quanto riguarda la presenza di luoghi abbandonati da poter trasformare in centri sportivi. Per questi motivi, l’accordo si configura come un vero e proprio regalo da parte della Federcalcio (l’attuale proprietaria dell’area) al CAI e alla giunta leghista che da anni amministra la città, nonché un atto di ostilità nei confronti dell’unico spazio monzese occupato e autogestito. Per contrastare la minaccia di sgombero e per ribadire con forza l’idea di montagna che gli\le attivitsti\e del centro sociale hanno e praticano, un fitto ciclo di iniziative prenderà piede all’interno della FOA Boccaccio nelle settimane a venire.
È infine di pochi giorni fa l’inaugurazione della sede bolognese dello Student Hotel, progetto di accoglienza internazionale che, stando alla definizione di chi lo ha immaginato, punta a “dare vita a un nuovo concetto di ospitalità” tramite la messa a disposizione di alloggi per studenti, camere d’albergo, spazi per il co-working e sale per conferenze ed eventi. Peccato che in questo caso l’ospitalità non sia sinonimo di generosità o accoglienza ma di profitto. Per una modica cifra che varia tra i 479 euro al mese per una stanza doppia ai 751 al mese per la Standard Queen, è possibile soggiornare in uno spazio che Charlie MacGregor (CEO della multinazionale) definisce come “stimolante” e “funzionale a tutti quei ragazzi e ragazze che meritano di meglio e che vogliono trovare la propria strada, realizzare il proprio potenziale e cambiare il mondo”.
A differenza di altre sedi sparse in giro per il mondo, quella di Bologna si caratterizza in quanto sorta sulle ceneri della Ex Telecom, occupazione abitativa nata in via Fioravanti il 4 dicembre del 2014 grazie alla volontà di 280 persone (molte delle quali famiglie con minori). Sostenuta dagli attivisti del Social Log e da chi decise, all’epoca, di dedicare tempo ed energie all’occupazione, l’esperienza della Ex Telecom fu un esempio concreto di convivenza all’interno di un quartiere multiculturale come la Bolognina; rimasta attiva per circa un anno, l’Ex Telecom fu chiusa nel dicembre 2015 a seguito dell’intervento delle forze dell’ordine. A distanza di cinque anni, nasce oggi la sede bolognese dello Student Hotel, ennesimo simbolo di una città che predilige la privatizzazione al mutuo aiuto e alla reale solidarietà. (rita marzio)
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