È possibile che, a una persona bianca che si trovi a passare per caso, Ventimiglia appaia come una pigra cittadina di frontiera della costa ligure; soprattutto d’inverno, quando non ci sono turisti ad affollare la spiaggia della città bassa o i localini di quella alta, da una sponda all’altra del fiume Roya. A uno sguardo superficiale potrebbe sfuggire la percezione di un’emergenza che si materializza da un lato nelle camionette delle forze dell’ordine disseminate in modo insolito per la città, dall’altro in un tipo particolare di persone in transito: migranti che mangiano, dormono e aspettano sul ciglio della strada. Per questi ultimi Ventimiglia si esaurisce nell’insieme confuso dei movimenti cui sono obbligati, in un ripetersi di tragitti estenuanti, brevi o lunghi che siano: dal giaciglio notturno ai luoghi della distribuzione della colazione, poi del pranzo e della cena; e da questi verso i luoghi in cui consumare il pasto, luoghi scomodi ed estranei alla popolazione locale, complice la longa manus di autorità che alla politica della convivenza hanno preferito quella della polarizzazione. Tragitti ciclici che configurano una città dentro la città, con i suoi punti di riferimento (stazione e spiaggia, ma anche periferia, luoghi solidali, filiali di società per il trasferimento di denaro, punti di ricarica del telefono). Tragitti obbligati dalla violenza silenziosa di una frontiera inesistente per gli europei, che si fa muro di gomma per gli stranieri.
«I confini della Francia sono sempre stati impossibili da oltrepassare, anche se la Francia è molto brava a proiettare l’immagine di un paese pronto ad accogliere». Lucy (non è il suo vero nome) è una solidale francese. Ha poco più di vent’anni, come gran parte delle solidali che operano in frontiera. Parliamo, sedute sui gradoni del cimitero di Ventimiglia: qui di fronte c’è l’unico spazio che l’amministrazione comunale ha concesso alle realtà solidali per offrire tutte le sere cibo e ricarica dei cellulari alle persone in transito. «Per chi fa avanti e indietro in treno tra Italia e Francia, vedere tutti i giorni la violenza della polizia contro gli stranieri sta cominciando a diventare traumatico».
In effetti, sui treni che attraversano questa frontiera, invece di controllori che verifichino il titolo di viaggio, ci sono poliziotti armati fino ai denti che (dopo un approssimativo controllo della razza e della classe dei passeggeri) domandano i documenti a chi ha la pelle meno bianca. Non succede solo alla prima stazione oltre-alpina, quella di Menton-Garavan: la frontiera si allarga de facto fino a Nizza, oltre il limite legale entro cui la Francia può effettuare i respingimenti di “migranti irregolari” verso l’Italia. «I poliziotti – dice Lucy – spingono sistematicamente queste persone giù dai mezzi per rispedirle indietro, li cercano in tutte le carrozze, e si portano dietro il piede di porco per forzare i bagni se qualcuno di loro ci si chiude dentro».
Il mese scorso una persona è rimasta uccisa nel tentativo di oltrepassare la frontiera viaggiando sul tetto del treno per sfuggire alla polizia. Per sfuggire alla violenza del respingimento, alla negazione del riposo, del cibo, del rapporto umano, di un luogo riparato in cui fermarsi per capire dove si è e dove si sta andando.
CHIUDERE IL RUBINETTO
A inizio ottobre, nei giorni successivi a un’esondazione del Roya in cui almeno dieci persone hanno perso la vita, Ventimiglia appare più inquietante del solito: ci sono cumuli di macerie e fango a ogni angolo di strada, più polizia, e più persone sui giacigli di cartone lungo i marciapiedi. Dopo la chiusura del campo della Croce Rossa, voluta dall’amministrazione comunale in ottemperanza alle misure di contrasto del Covid-19, adesso il fango ha sloggiato le persone in transito anche da sotto al ponte in cui spesso si raccoglievano per ripararsi dal freddo.
«Bisogna vivere la situazione per capire la tragedia che c’è in questo momento a Ventimiglia». Delia Buonuomo è una barista ventimigliese di origini calabre. Del suo Bar Hobbit hanno parlato quotidiani nazionali e internazionali, perché è uno degli ultimi spazi d’aiuto rimasti aperti alle persone migranti. Il magazzino del piccolo bar, intorno a cui gravitano solidali di ogni età, si riempie continuamente di vestiti, cibo e giochi per bambine: donazioni di organizzazioni del territorio, ma anche di ventimigliesi che resistono all’insofferenza. «Una parte della città mi appoggia con il pensiero – dice Delia –, anche se non si vede, altri mi criticano perché sostengono che dovrei pensare ad aiutare gli italiani. Io dico sempre che gli italiani li aiuto pagando le tasse, quei soldi sono per gli italiani».
L’amministrazione comunale era del Pd quando, nel 2015, l’afflusso senza precedenti di persone in transito ha cominciato a scontrarsi, su questa frontiera, con la pratica sistematica del respingimento. Al governo c’era Matteo Renzi, con Gentiloni agli Esteri e Minniti al Viminale. Nonostante i successi dei suoi governi in termini di riduzione degli arrivi, di fronte al proprio elettorato il Pd ha promosso la linea dura nella gestione dei flussi migratori con vistoso imbarazzo. Chi lo ha vissuto come un tradimento (pochi) si è allontanato, disperdendosi nella galassia atomizzata e impotente “alla sinistra del Pd”. Ma la più importante migrazione di consensi ha premiato la retorica schiettamente xenofoba di partiti come i Cinque Stelle, Fratelli d’Italia e Lega, che a Ventimiglia ha espresso il sindaco alle comunali del 2019.
Aldilà delle differenze retoriche all’interno e tra gli stati dell’Ue, la continuità degli sforzi governativi di riduzione degli ingressi ha portato i suoi frutti. Secondo Eurostat, nel 2019 si sono registrati solo 142 mila ingressi contro gli 1,8 milioni del 2015 (-92%), mentre il numero di respingimenti è stato il più alto mai registrato dal 2008 (718 mila). Per abbassare la temperatura dello scontro politico sulla gestione dei flussi migratori, insomma, si è scelta la linea della chiusura del rubinetto: con meno arrivi, per esempio, è più facile controllare i movimenti secondari tra paesi Ue, come quelli che si registrano sulla frontiera di Ventimiglia. Dall’inizio di quest’anno, 12 mila persone vi sono state respinte dalle autorità francesi.
Marie (non è il suo vero nome), un’altra volontaria francese, siede sul muretto di una piazzola lungo la strada costiera che porta a Menton. Dopo i respingimenti, le persone in transito ripercorrono, spesso a piedi, questi nove km per tornare a Ventimiglia, così un gruppo di solidali ha organizzato un presidio in cui possono fermarsi a mangiare, bere, discutere. Quando il “breakfast” è nato, circa tre anni fa, si trovava poco più in là della stazione della polizia di frontiera. Poi l’insofferenza dei vicini si è tradotta in un primo sgombero, così solidali e migranti hanno cominciato a spostarsi più in là. In questo assurdo ping-pong, fino a oggi si sono allontanati di almeno un paio di chilometri. «Nessuno vuole vedere la violenza in Europa – dice Marie –. Ogni volta che vado dal lato italiano del confine, dove le persone vengono respinte, le vedo allineate una dietro l’altra come bestie alla stazione di polizia, e mi vengono in mente i checkpoint in Palestina. Queste dinamiche violente vengono frammentate perché sia difficile ricostruire il puzzle. Nel video dell’uccisione di George Floyd, che ha scatenato le proteste contro il razzismo istituzionale negli USA, si vede in soli sette minuti come la violenza razziale della polizia produca la morte di un uomo. Invece qui bisogna ricostruire l’intero processo: le persone che dormono per strada mentre aspettano di attraversare la frontiera, poi cercano di attraversarla ma vengono respinte, allora vengono rinchiuse nei container della polizia francese e poi sono di nuovo buttate per strada, e così via…».
Le pratiche violente attraverso cui il dispositivo frontiera viene imposto ai corpi delle persone migranti, proprio nel cuore dello spazio Schengen, non sono (solo) il frutto del fanatismo di alcuni agenti di polizia. Si tratta di strategie antiche, implementate in perfetta osservanza di normative europee come il recentemente “riformato” Regolamento di Dublino, o di accordi bilaterali come quello di Chambery, che Italia e Francia hanno firmato nel 1997. La violenza esercitata in maniera diretta dalla polizia nella prassi dei controlli alla frontiera, ci fa riflettere sul modo in cui la frontiera come dispositivo agisca secondo schemi molto diversi.
«Durante i monitoraggi in treno tentavo di immedesimarmi in chi su quei treni provava a passare inosservato nella speranza di raggiungere la Francia. Non riuscivo a immaginare un sentimento diverso dal desiderio di essere invisibili». Elena (non è il suo vero nome), un’attivista di Napoli, ci porta a riflettere sul fatto che la violenza non è solo quella agita dalla polizia di frontiera, ma anche quella quotidiana e diffusa, che rende i bisogni delle persone in transito difficili da percepire. «Persone abituate a essere ignorate e marginalizzate – continua Elena –, si scontrano improvvisamente con un’iper-visibilità, un surplus di attenzioni. Questo perché stanno attraversando un confine, luogo militarizzato e sorvegliato in alcuni casi solo per controllare il loro possibile passaggio».
LA NEGAZIONE DELL’EUROPA
Dalla metà del secolo scorso, la nascita dell’inedito esperimento di un’unione doganale nel cuore dell’Europa si poneva in modo esplicito l’obiettivo di disattivare la carica securitaria delle frontiere tra diversi stati, lasciando le persone, i capitali e le merci libere di circolare al suo interno. Ma non tutte le persone: soltanto i e le cittadine di quegli stati, che nella loro quasi totalità fondano ancora oggi la possibilità di ottenimento della cittadinanza su vincoli di sangue, o se si preferisce, di razza.
In parallelo allo spazio Schengen, tuttavia, nuove attrici comparivano sullo scenario internazionale per mettere in crisi il modello appena nato: masse senza precedenti di persone in transito. Persone senza (più) stato, espulse dalle guerre, dalla diseguale distribuzione internazionale della ricchezza, dalla debolezza di sistemi politici nati menomati sulle macerie dei regimi coloniali. Secondo le Nazioni Unite, il numero di persone in transito è cresciuto di circa 51 milioni dal 2010 al 2019, raggiungendo i 272 milioni. Questi numeri, seppure relativamente piccoli rispetto al totale della popolazione mondiale, rappresentano un segnale d’allarme per la sostenibilità degli stati-nazione. Per questo motivo, l’urgenza di ri-attivare la carica securitaria del dispositivo frontiera è diventata una priorità politica, soprattutto per l’Occidente del mondo.
La reale funzione dei confini contemporanei è di sottomettere i corpi a un processo di inclusione differenziale che riproduce i rapporti di potere fondanti lo stato. Rapporti gerarchici tra razze, classi e generi che dividono chi, in un mondo con una limitata disponibilità di risorse, ha il diritto di accedervi liberamente, da chi non lo ha. Questa dinamica di inclusione subordinata risponde ai bisogni del mercato globale, tra cui quello di creare grossi bacini di manodopera sradicabile in ogni momento. Questa manodopera a basso costo in permanenza rinnovata è costituita da lavoratori giovani, in buona salute, invisibili e isolati, privati della possibilità di farsi soggetti rivendicativi e organizzati. La migrante, cioè l’individuo reso migrante dall’esistenza di frontiere multiple tra il suo stato d’origine e quello che immagina come destinazione, è dunque fondamentale alla riproduzione di un sistema economico fondato sullo sfruttamento, tanto formale quanto informale, della forza-lavoro.
Abbiamo riflettuto sulla frontiera come dispositivo attraverso cui lo stato si materializza, insieme ai rapporti di potere che lo determinano. Più che come realtà ineluttabile, però, concepiamo tale potere come un processo dinamico di scontro tra forze alternative. In questo senso, oltre a non essere affatto naturale o neutrale, la definizione del legale e dell’illegale non è una partita chiusa e irreversibile. E tutto ciò non solo in termini teorici: anche nell’area tra Ventimiglia e Nizza, alle pratiche securitarie tipiche del dispositivo frontiera, rispondono pratiche alternative di solidarietà che tendono a favorirne l’attraversamento, pratiche che promuovono la libertà di movimento e il diritto all’autodeterminazione delle persone, a prescindere dal loro colore e dalla loro nazionalità. A differenza di quanto la legge prescrive in maniera più o meno esplicita.
Anche se non si vede, la comunità che unisce coloro che agiscono queste pratiche alternative esiste, e si muove per costruire una polis aperta, dove intessere relazioni che superino difficoltà linguistiche e lontananze culturali, provando ad abitare in maniera solidale, auto-riflessiva e creativa le distanze che ci separano, così come i tratti che ci uniscono.
I campi e le prigioni libiche, il mar mediterraneo, gli hotspot e i centri di detenzione per migranti costituiscono anelli di una stessa frontiera che avviluppa come una catena i corpi migranti, intercettandoli su molteplici piani, in luoghi diversi, con le sembianze degli esecutori più disparati, ma che rispondono al disegno di un attore solo: l’Europa.
La sopravvivenza di una comunità d’intenti tra gli stati europei dipende, paradossalmente, proprio dalla negazione della libertà di movimento a coloro tra i non europei che la desiderano. Sembra dunque che sfidare l’ineluttabilità della frontiera provando a bucarla, o in altre parole, fare della garanzia della libertà di movimento una pratica politica attiva, significhi oggi riportare in superficie le profonde radici razziali della nostra pace europea, privandola della sua centenaria maschera.
La narrazione politica binaria che separa l’Occidente dal resto del mondo si manifesta nei corpi di tutte le persone che la subiscono, poiché nel corpo la relazione tra spazio e potere si manifesta nella maniera più esplicita. I regolamenti e le norme in materia di migrazioni appaiono come decisioni burocratiche asciutte, formali, che per garantire sicurezza ad alcuni limitano la libertà di circolazione di altri. Dietro queste sembianze, tuttavia, nascondono la loro natura di provvedimenti ispirati all’ideologia razziale, attivando la dicotomia amico-nemico e riverberandosi nel nostro modo quotidiano di percepire l’altro. Le persone in transito sono l’oggetto centrale delle pratiche di violenza quotidiana attraverso cui simile struttura di potere si sostiene. Rese invisibili altrove, tali pratiche si manifestano in maniera dirompente lungo questa e le altre frontiere d’Europa. (nina bacchini, rachele branca, chiara lipari, valentina lomaglio, barbara russo*)
*Progetto 20k nasce nel 2016 con l’obiettivo di monitorare la situazione della frontiera tra Ventimiglia e la Francia, per offrire alle persone che vi transitano informazioni sui loro diritti e sulle modalità più sicure per proseguire il loro viaggio. I nostri sforzi sono tesi a offrire loro un supporto quotidiano, attraverso la distribuzione di vestiti e beni di prima necessità, in collaborazione con altre persone e organizzazioni che come noi hanno a cuore la libertà di movimento di ciascun*.
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