da: Il Manifesto
Sulla stampa italiana di sinistra sembra finalmente aprirsi uno spiraglio di interesse verso il conflitto catalano, al di là delle narrazioni dei “catalani ricchi egoisti” usate per isolare la protesta. Sarebbe il minimo, dopo una sentenza di decenni di carcere per “sedizione” per chi ha usato solo la disobbedienza civile non violenta, dopo le operazioni antiterrorismo contro le assemblee territoriali, i Cdr (Comitati di difesa della repubblica), dopo due settimane di repressione con settantuno giornalisti aggrediti dalla polizia, duecento fermati, ventiquattro nuovi arresti preventivi, più di ottocento feriti (di cui quattro rimasti senza un occhio, due senza un testicolo, un’altra salvata per miracolo dal trauma cranico). Il silenzio del resto dell’Ue può rendere tutto questo un precedente per colpire ogni forma di dissidenza pacifica: se si isola la Catalogna, vincerà la repressione. Ma alcuni opinionisti italiani sembrano disinteressarsi dei diritti collettivi. Non potendo essere il toro, sono costretti a prendere le parti del torero.
Vogliamo rispondere all’articolo (pubblicato sul sito del Manifesto il 28 ottobre scorso) firmato da Paola Lo Cascio e Andreu Mayayo, entrambi storici, che a nostro giudizio però scrivono (senza dirlo) come militanti: la prima di Catalunya en Comú sin dal 2015, l’altro di Iniciativa per Catalunya Verds, un partito ora nell’orbita Comuns, nonché ex sindaco di un paesino vicino Tarragona.
L’articolo banalizza la rivolta catalana come “rivolta dei ricchi” e delle “classi medie”. Certo, la Catalogna è la regione più ricca della Spagna, come il Cile è il paese più ricco dell’America Latina. Sarebbero “figli di papà” anche i manifestanti che riempiono le piazze di Santiago? Con l’infame mantra pasoliniano (definizione di Wu Ming) le destre delegittimano tutte le proteste europee dal ‘68 in poi, senza capire né Pasolini, né la stessa poesia che citano, e che invita i manifestanti a prendersela con i magistrati.
Lo Cascio e Mayayo esiterebbero ad applicarlo alle piazze degli Indignados, o alla grande manifestazione pro-migranti, in gran parte composte dagli stessi che protestano ora, e che proprio in questo momento stanno accampandosi a Plaça Universitat, come avevano fatto durante il 15M. Nonostante decenni di critiche marxiste alla riconfigurazione di classe in Europa – è uscito la settimana scorsa Non siamo mai stati classe media di Hadas Weiss (Verso, 2019) – queste categorie si rispolverano ancora strumentalmente.
Nei rapporti del Centre d’Estudis i d’Opinió de la Generalitat de Catalunya – il centro di ricerca demoscopica dell’amministrazione regionale – citati dagli autori (che comunque usano il vecchio; il nuovo è del 2019) è facile trovare dati che li contraddicono: la tabella a p.436, per esempio, mostra come tra favorevoli e contrari all’indipendenza le differenze di censo siano minime. La battaglia è politica, non economica o etnica.
Per analizzare la rivolta catalana in chiave di classe bisogna tenere a mente questa frase di Gramsci: “Un partito monarchico in regime repubblicano, come un partito repubblicano in regime monarchico, non possono non essere partiti sui generis”. La rivolta nasce da un errore della grande coalizione della borghesia catalana, CiU, che manteneva il potere da quarant’anni, che voleva distogliere l’attenzione dai suoi scandali di corruzione giocando la carta indipendentista; ha risvegliato invece uno tsunami che l’ha travolta.
Quando il Tribunal Constitucional è intervenuto sullo statuto di autonomia, già approvato anche dal parlamento spagnolo, è esplosa una mobilitazione che ha spezzato l’alleanza storica tra grande e piccola borghesia: la prima, da sempre nemica dell’indipendentismo e in parte filofascista, è accorsa in difesa delle istituzioni dello stato, confluendo nell’unionismo, anche nel Psoe. La seconda invece, per non perdere le basi offese a morte dallo Stato, si è trovata costretta ad opporsi, alleandosi con i suoi nemici di classe: la sinistra antiborbonica e gli anticapitalisti (Erc e Cup).
Lo diceva già Salvador Seguí, dirigente anarcosindacalista ucciso a Barcellona nel 1923: il principale nemico dell’indipendentismo sarà la grande borghesia catalana. Oggi la classe padronale, la conferenza episcopale, le grandi banche catalane, sono tutte anti-indipendentiste.
La repressione al referendum del 1 ottobre 2017 ha portato nel movimento tutta la generazione cresciuta nelle lotte anni Novanta contro la leva obbligatoria, nelle occupazioni dal Cine Princesa in poi, e anche tanti anarchici: non per creare un nuovo stato, ma per l’incapacità di rimanere indifferenti davanti alla repressione. Alerta Solidària, che difende le vittime della polizia in queste settimane, lo fa da decenni.
A convocare lo sciopero generale del 3 ottobre 2017 è stata la Cgt, il sindacato anarchico, che ha scritto un comunicato durissimo contro la sentenza ai politici indipendentisti, da cui non potrebbe essere più lontano. Gli italiani spesso non capiscono cosa tiene insieme tutto: il rifiuto del patto “del 78” tra Pp e Psoe che sostiene la monarchia e il sistema giudiziario voluti da Franco. Anche i vertici di CiU hanno dovuto rompere questo patto: sarebbero stati travolti dalle loro stesse basi. I nostri opinionisti si concentrano sui politici conservatori, e trascurano il ruolo chiave degli anticapitalisti, del cooperativismo, delle mobilitazioni di base; è un errore uguale a credere che a favore dell’unità della Spagna borbonica ci siano solo fascisti; non è vero, c’è anche il Psoe, Iniciativa o i Comuns, gente che veniva da sinistra, come gli autori dell’articolo. Sono due blocchi contrapposti, entrambi trasversali.
Nelle elezioni 2019 i primi ventiquattro quartieri di Barcellona in cui è cresciuto il voto indipendentista sono i più poveri della città. A Baró de Viver – dove vivono figli e nipoti di migranti del sud della Spagna, operai e disoccupati di lingua castigliana sfrattati dalle Olimpiadi del ‘92 – l’indipendentismo è salito di otto punti. Così anche a Bon Pastor, a Marina del Prat Vermell, quartieri simili, o a Nou Barris, costruito dalla speculazione alla fine del franchismo, teatro di cariche durissime contro il referendum. Invece, nelle zone ricche di Sarrià-Sant Gervasi e Pedralbes, il sostegno ai partiti indepe è crollato di quindici punti, mentre è salito Valls, che ha sostenuto Colau.
E le mondine? Nelle risaie di Deltebre, l’entroterra catalano che gli autori trascurano, presi dalla loro utopia metropolitana, l’indipendentismo ha preso il settantatré per cento. Figli di papà? Tra i duecento fermati e i ventiquattro arresti convalidati di queste due settimane, il profilo è ben diverso: sono giovani delle zone più povere dell’area metropolitana. Dei cinque arrestati a Girona, tre sono migranti magrebini. Guardare solo Puigdemont e Guardiola, trasformarli in icone della rivolta, condanna i veri protagonisti a restare nell’ombra. Riesumare l’ambiguità dell’indipendentismo negli anni Trenta serve solo a nascondere che oggi i fascisti stanno tutti compatti dal lato dell’unionismo nazionalista spagnolo.
La storia si fa soprattutto osservando il presente: bande di neonazi scorrazzano per Barcellona da settimane, aggredendo armati dove possono, mentre la polizia nicchia o applaude; decine di infiltrati (ci sono i video) usano le stesse tattiche di Genova 2001; mentre il presidente del Tribunal Superior, Carlos Lesmes, allerta l’esercito a prepararsi contro l’irrazionalità degli indipendentisti che violano la Costituzione. Lo Cascio e Mayayo vorrebbero affidare a questa costituzione e a queste istituzioni la risoluzione del conflitto, pur sostenendo subito dopo che gli strumenti degli stati nazione ottocenteschi non sono più sufficienti. Anche per questo era nata l’Ue.
Ricordiamo l’appello di Ortega y Gasset, che chiedeva agli inglesi di non immischiarsi nella guerra civile spagnola. Fu un errore: Francia e Inghilterra ritirarono le brigate internazionali, l’esercito di Franco ruppe la resistenza catalana ed entrò a Barcellona, già piegata dai bombardamenti dell’aviazione di Mussolini. Le conseguenze si sentono ancora oggi.
È un debito storico, che ora possiamo ripagare, manifestando tutta la nostra solidarietà all’antifascismo che sta riempiendo le piazze catalane. (stefano portelli / victor serri)
Domenica 17 novembre a Bologna si svolgerà la prima assemblea internazionalista italiana sulla Catalogna. Si veda anche questo appello alla stampa italiana dalla Catalogna antifascista